Premio Racconti nella Rete 2013 “La straniera” di Alessandro Vita
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2013Anya era follia.
Anya era una fiamma, un tripudio di movenze, un’elegante silhouette che ardeva di piacere, di libertà, di vita. Indomabile come il vento, volubile come una tempesta d’estate, travolgente come il corso di un fiume in piena; Anya era tutte queste cose incarnate in un corpo dalle linee splendide, linee che mandavano in estasi, che causavano vertigine, vertigine in cui avresti voluto perderti per tutta la notte.
Ad Anya piaceva danzare sola, immersa nella folla di una discoteca, ammaliata dagli sguardi stregati degli uomini che le bazzicavano attorno. Ballava, lei, trascinata dalla perdizione, sciolta dall’alcool che le circolava sotto la pelle d’avorio, quella sua pelle così pulita che sapeva d’innocenza tradita, di sogni bruciati dalla realtà.
Ballava, Anya, anche la sera in cui la incontrai.
Ero al bancone del Robinson Club, quando alzai lo sguardo e la vidi ondeggiare verso di me. Teneva la testa bassa, penzoloni, il viso nascosto dietro il taglio corto dei capelli neri, quei capelli lucenti, come di velluto.
Me la ritrovai accanto quasi all’improvviso. Non ebbi il tempo di pensare; posseduto dal suo profumo e incoraggiato dalla leggera sbornia, le domandai se le andava di bere qualcosa insieme a me.
Lei sollevò il capo, lentamente, e mi scoccò contro un par d’occhi scuri, densi, che ferivano. Per un attimo mi mancò il fiato. Aveva un viso dall’espressione assente, come quello di una bambola di porcellana: bellissimo e dolce, eppure colmo di una tristezza vaga, sconfinata. La sua malinconia stonava con il chiasso ribelle del locale, strideva con la seduzione che l’aveva accompagnata sin lì.
Le chiesi cosa avesse, ma lei non rispose, scosse il capo. Pensai che stesse passando un brutto momento e così me ne andai.
A un tratto, però, avvertii la sua mano sul braccio. “Ehi! aspetta, non volevi offrirmi da bere?”
“Ma io pensavo…”
“Cosa?”
“Niente,” dissi, e le sorrisi.
Di colpo lei cambiò faccia, come una psicopatica, una psicopatica che era a un tempo incantevole e maliziosa. Mi schiuse le labbra in un risolino invitante, traboccante di passione, passione che m’immaginai rossa come il suo rossetto e rovente come l’ambiente che la circondava.
Ci sedemmo a un tavolino e ordinammo da bere. Ci presentammo al chiarore di una luce al neon, non curanti degli ubriachi che ci barcollavano accanto.
Mi disse di venire dalla Russia; nonostante questo, però, notai che il suo italiano era pressoché perfetto.
“Che ci fai da queste parti?” le chiesi, incuriosito.
Lei mi rivolse un’espressione divertita, diede un sorso al suo drink e disse: “Secondo te che sto facendo? Mi faccio offrire da bere, no?”
Scoppiai a ridere. Anche lei. Poi mi spiegai meglio: “Voglio dire, perché hai lasciato il tuo paese per venire qui, in Italia?”
Lei ci pensò un attimo e mi sorrise di nuovo.
“Forse ero stanca della Vodka,” disse, alzando le spalle. E dopo un altro sorso aggiunse: “Balliamo?”
Ovviamente accettai.
In un attimo ci ritrovammo nella mischia; eravamo pervasi dalla musica, storditi dai bagliori delle luci stroboscopiche. Lei civettava con me, mi provocava, e io ero assorbito dai suoi movimenti, distrutto dalla sua ambiguità. Mentre ballavamo l’idea che mi ero fatto di Anya si sgretolava in pezzi sempre più piccoli, sempre più indecifrabili. Lei era esuberante, scaltra, consapevole della sua bellezza, del suo potere, eppure il pensiero che in lei ci fosse qualcosa di strano non mi abbandonava mai del tutto.
C’erano momenti in cui il suo viso tornava ad eclissarsi dietro un alone d’inquietudine. A volte abbassava la testa senza motivo, e io ero costretto ad avvicinarmi per cercarle gli occhi, quegli occhi che puntualmente trovavo lucidi, sbarrati, come annebbiati da un brutto ricordo. Non facevo che pensare: che ha? perché fa così?
In molte occasioni mi sembrò sul punto di scoppiare in lacrime, ma bastava un niente, una mia occhiata più attenta, una mia frase più accorta, ed ecco che lei si rianimava, di nuovo, sfuggente, pronta a sfoderarmi il suo sorriso migliore, pronta a riversarmi contro la sua voglia di contatto, di carnalità. Non avevo idea di cosa le passasse per la testa. Mi pareva che quel suo atteggiamento non fosse altro che un grido sordo di aiuto, una sorta di codice segreto.
L’unica certezza che avevo, comunque, era che bere le piaceva, e parecchio. All’ennesimo giro di drink aprii il portafoglio con terrore, e per me fu una vera fortuna che il Robinson stesse chiudendo.
Alla fine lasciammo il locale e andammo da me, in appartamento. In frigo mi erano avanzate delle birre, così ne presi paio e ci mettemmo a chiacchierare accanto alla finestra. Era un piacere parlare con lei. Anya era un fiume di parole, era come se per anni fosse stata costretta al silenzio, e ora, finalmente libera, rivelasse a me tutti i suoi pensieri. Eravamo così abituai al suono delle nostre voci, che quando calò il silenzio, ci scambiammo uno sguardo d’imbarazzo e scoppiammo a ridere.
In quell’istante Anya mi apparve più bella che mai. Alcune lamelle di luce filtrarono dalle imposte chiuse della finestra e le ricaddero sul corpo, sui fianchi rotondi, sul ventre piatto, sul profilo piccolo e aggraziato del seno. Quella sua pelle chiara era un’ossessione, un impulso che m’invogliava a baciarla, ad averla.
Le accarezzai una guancia, che era calda e liscia, e lei spinse il viso contro il palmo della mia mano, come se volesse rinchiudersi tutta nelle mie dita. In quel gesto percepii la sua fragilità, la sua vera bellezza.
Ci baciammo, e ci lasciammo scivolare sotto le lenzuola.
Non avrei voluto fermarmi, mai, ma quando la guardai negli occhi, nel fondo di quelle sue pupille scure, io intravidi l’ombra di un dolore immenso.
L’allontanai da me, senza riuscire a dire una parola.
Aveva di nuovo quello sguardo, quello da bambola.
“Non ti va?” mi chiese lei.
Scossi la testa.
“Non è questo,” dissi, “è che non capisco. Che hai Anya? Cos’è che ti rende triste?”
Lei farfugliò un “Nulla”, e s’accucciò sotto le lenzuola, con la testa bassa, i capelli dispersi sul cuscino.
L’abbracciai, e mi parve di sentirla piangere. Un pianto tenue, comunque, interrotto quasi subito. Poco dopo tesi l’orecchio, ma per una buona mezzora non udii più nulla. Pensai che si fosse addormentata.
A un tratto, però, sollevò il capo.
“Che ore sono?” chiese, preoccupata.
Guardai l’orologio. “Quasi le cinque,” risposi.
Anya scattò in piedi, corse per la camera e arraffò le sue cose.
“Che succede?” domandai, mentre si rivestiva.
“Devo andare, te lo spiego un’altra volta. Ci vediamo al Robinson, ok?”
Scosso com’ero balbettai un “Sì”, e la vidi scappare fuori dalla porta.
Passai il resto della notte pensando a lei. Chi era Anya? Chi era quella cenerentola moderna che scappava via in quel modo? Cosa nascondeva?
Nei giorni successivi, sempre al Robinson e sempre a tarda ora, ebbi l’occasione di rivederla altre volte. Ogni sera la trovava più tranquilla, tuttavia le fughe alle cinque del mattino diventarono una consuetudine, e nonostante le mie domande, lei seguitava a lasciarmi senza risposte.
Una sera, però, dopo aver fatto l’amore, lei si fermò da me più a lungo del solito. Aveva approfittato del bagno per darsi una sciacquata e poi era tornata fresca e profumata sotto le lenzuola. Tra di noi c’era un gran silenzio, e a me pareva che fosse giunta l’ora di chiarire la situazione.
La guardai e affondai il colpo: “Sei sposata Anya? Dimmi la verità, è per questo che scappi? Per tornare da tuo marito?”
Lei mi zittì, portandomi un dito alle labbra. “Abbracciami,” sussurrò, “stiamo così ancora per un po’, al buio, al silenzio.”
Qualche minuto dopo l’accompagnai alla porta. Ci salutammo con un bacio, ma quando lei fece per andarsene io l’afferrai stretta per un braccio.
“Perché non vuoi dirmi dove vai?” dissi, fissandola negli occhi.
Lei cercò di sorridermi, ma le venne fuori una smorfia contratta dall’angoscia.
“Se non torno a casa,” spiegò, “lui mi verrà a cercare, mi troverà, e noi non ci rivedremo più.”
“Chi ti verrà a cercare?”
“Meglio non che tu non lo sappia.”
“Chi è, Anya? Dimmelo.”
All’improvviso cercò di liberarsi, strattonò con forza il braccio e indietreggiò di alcuni passi. Io la tenni stretta e lei rimase lì, debole, intrappolata nella mia mano.
“Lasciami!” gridò.
Poi scosse la testa e cadde in ginocchio.
Con un soffio di voce disse: “Ti prego, lasciami ora.”
Non ce la feci a continuare. Non volevo farla soffrire. Volevo solo la verità. Ma ora era lì, accasciata sul pavimento, e io non ce la facevo a vederla così. Allentai la presa e avvertii la freschezza del suo vestito scivolarmi via dalle dita. Quando lei se ne andò sentii come una grossa mano scavarmi nello stomaco. Pensai di averla persa per sempre.
Tornai in appartamento e mi buttai a letto stanco e depresso, e poco dopo m’addormentai.
Erano passate forse un paio d’ore da quell’addio, quando udii suonare con insistenza al campanello della porta. Andai ad aprire, e ciò che vidi per poco non mi fece cadere a terra per la disperazione.
Era Anya, ma aveva un occhio tumefatto dai lividi e le labbra spaccate che le tremavano impazzite in una poltiglia rossastra di sangue e saliva.
Gridai: “Che t’è successo?” Ma lei non riusciva a parlare e piagnucolava in versi tanto acuti quanto inumani. La portai in bagno e le sciacquai il viso con un po’ acqua; lei urlò, cercò di divincolarsi, sputò del sangue nel lavandino e stillò ancora finché non sembrò esaurire il fiato.
Quando si calmò la feci accomodare in camera. Lei andò alla finestra, l’apri, e s’accese una sigaretta.
“Ricordi,” disse, “quando mi hai chiesto se ero sposata? Avevi ragione, ho un marito. Ma come vedi dalla mia faccia non è amore quello che ci ha fatto incontrare.”
Mi spiegò che in Russia non stava bene, che era entrata in un brutto giro. Lavorare non le era mai piaciuto e così finì per galleggiare nelle acque torbide della malavita. Era stata un’eroinomane, tuttavia mi assicurò più volte che ora non lo era più, che era stata fortunata e aveva smesso in tempo. Aveva deciso di cambiare, e chiese aiuto a una sua cugina. La cugina era in contatto con un’agenzia matrimoniale internazionale. Roba di classe, mi aveva detto, roba per ricconi. Disse che c’erano uomini abbastanza facoltosi da potersi comprare una moglie.
“È legale?” domandai.
“Non proprio,” rispose lei. “Se si trattasse di una semplice agenzia d’incontri allora non ci sarebbero problemi. Ma quella a cui mi sono affidata non è così: la mia lavora solo con una certa tipologia di persone. L’agenzia recluta le donne da qualsiasi parte dell’est Europa; di solito sono ragazze disperate che non hanno un lavoro, che non hanno niente se non la loro bellezza. L’agenzia fornisce una sorta di catalogo con le donne disponibili, il cliente sceglie, paga, e si celebrano le nozze, fine della storia.”
Mi strinsi nelle spalle, non potevo credere a una cosa del genere. E ancor meno potevo credere che lei avesse accettato di vendersi in questo modo.
“Perché l’hai fatto?” chiesi, pallido.
“Perché sono una stupida,” sbuffò lei, quasi urlando. “Pensavo che vivere con un milionario sarebbe stato fantastico. Potevo avere quello che volevo, quando volevo. Mi sarebbe bastato ammiccare, dimenare il culo, ed era fatta. Abiti, gioielli, soldi; quello che volevo, quando volevo. Ma tutto andò di merda fin da subito. Mio marito si rivelò un uomo possessivo, geloso, egocentrico. Ben presto mi resi conto che non potevo far nulla senza il suo consenso. Lui odia il mio essere esuberante, odia che gli altri uomini mi guardino quando siamo in giro. È un uomo malato. Un malato… Spesso, la sera, è invitato a delle cene di lavoro con i suoi soci; io non posso andarci, sono cose che non mi riguardano, dice lui. Quelle sere mi chiude in casa, spranga le finestre. Ma non sa che ho una copia della chiave d’ingresso. Così scappo, prendo un taxi e vado in centro. Lui torna a casa la mattina presto e io devo essere nel suo letto prima che arrivi. È la mia vita, la mia condanna.”
Fece una pausa, si riempì la bocca di fumo, poi soffiò via tutto, forte.
“Stasera,” proseguì, “quando sono tornata a casa, lui era già lì ad aspettarmi. Mi ha riempito di botte e non si è fermato finché non si è accorto di avere le mani sporche di sangue. A quel punto si è inginocchiato e ha cominciato a frignare implorandomi di perdonarlo. Io ricordo solo di averlo spinto via e di essere corsa da te.”
Ero frastornato. Non capivo nulla; come poteva Anya sopportare tutto questo?
“Ma perché non hai avvisato la polizia?” domandai. “Perché non sei scappata via per sempre, invece di tornare da lui ogni volta?”
“Perché ho paura. Ho paura di me. Che fine farò poi? Dovrei tornare in mezzo a una strada? Schiava della droga, forse? Sola? Io sono debole, finirei male, di nuovo. Non potrei sopportarlo. Non possa scappare da me stressa, capisci?”
“Vieni con me allora, ti aiuterò io. Scapperemo insieme, va bene? Vieni via con me, ma non tornare da lui. Non ci andare.”
“Come faccio?” disse lei, in lacrime. “E tu, come farai? Non hai un lavoro qui? Degli amici?”
“Al diavolo il lavoro,” replicai, “al diavolo gli amici. Mi sono rotto, non aspetto altro che un’occasione per andarmene via da qui.”
Lei alzò gli occhi al cielo, poi sussurrò qualcosa in russo, una parola che era come una specie di sospiro prolungato.
Quando si tranquillizzò si sedette accanto a me, m’abbracciò e poggiò la testa sulla mia spalla.
“Davvero lo faresti?” chiese.
“Sì,” dissi io.
“Dove andremo?”
“Dove vuoi tu.”
Lei tornò in piedi, si sistemò una spalletta del vestito.
“Ci devo pensare,” disse. “Mi faccio viva io.”
“Ma dove diavolo vai ora?”
“A fare un giro. Non torno da lui, non ti preoccupare.”
“Guarda che da me puoi stare quanto vuoi.”
“Lo so, ma devo prendere un po’ d’aria, devo riflettere, e vorrei farlo da sola.”
Il suo sguardo era immobile, uno specchio impenetrabile di pensieri.
“D’accordo,” dissi, e come uno stupido la lasciai andare.
Da allora non la rividi più.
Qualche giorno dopo, una mattina, mi trovavo al bar a bere un caffè prima di andare in ufficio. Naturalmente pensavo ad Anya. Leggevo distratto il giornale, quando l’occhio mi cadde su un trafiletto anonimo, in fondo alla pagina, tra gli articoli di cronaca locale. Non appena lo lessi il mio cuore parve fermarsi nel petto. Si parlava di una giovane donna di ventiquattro anni, trovata morta nel fiume. Suicidio, si diceva. Moglie di un ricco impresario della zona, si diceva. Straniera, si diceva.
Tutta Anya, tutte le sue contraddizioni, tutta la sua vita, il suo dolore, quella sua debolezza che la rendeva forte, unica; tutta Anya distrutta in un gesto, in una notte; tutta Anya spazzata via in quella parola: straniera.
Ripensai alle chiacchierate infinite, alle volte che lei mi trascinava nella pista da ballo. Era così bello parlare con lei, così bello ballare con lei. Rividi il suo viso tra le mie lenzuola, i capelli neri sul cuscino bianco. Poi m’immaginai il mio letto vuoto, le coperte alla rinfusa, immobili. Avrei avuto freddo quella notte.
Alzai il capo, forse piangevo, non so, quello che sapevo era che intorno a me le persone al bar ridevano comunque, che dietro di me le macchine sulla strada sfrecciavano lo stresso, che sotto i miei piedi il mondo seguitava a girare.
In quell’istante capii che anch’io ero straniero. Straniero a un mondo fottuto e malato che non capivo, a un mondo che consente agli uomini di comprarsi una donna e di trattarla alla stregua di un oggetto, di un trofeo, di un passatempo, di un capriccio. Sono straniero a un mondo che permette alle donne di vendersi con leggerezza pur di riuscire a vivere.
Alla fine lasciai a metà il caffè. Non ci andai a lavoro quel giorno. Uscii dal bar e non salutai nessuno. Il proprietario del locale mi corse dietro gridando: “Ehi, dove credi di andare rincoglionito? Non hai pagato il conto!”
Io mi voltai e gli buttai a terra tutta la moneta che avevo in tasca.
“Al diavolo!” sbraitai.
Poi tornai a camminare, io per la mia strada, il mondo per la sua.
![]()
Una storia d’amore la tua, caro Alessandro, che sicuramente piacerà ad un lettore sentimentale. Io., che sentimentale non sono, ahimè, non ne sono rimasta molto colpita. Succede. Ti faccio comunque tanti auguri per il concorso.
Una storia di due solitudini che riescono a farsi compagnia, ma solo fino ad un certo punto. Un racconto che parla bene della difficile integrazione di Anya e pure del protagonista maschile, dentro una società dove l’indifferenza non manca. Una favola complicata, scritta intensamente, dove questa volta, l’uomo buono nel momento cruciale manifesta un carattere molliccio.
Difficile addentrarsi in questo campo, descrivere in poche righe il problema dell’integrazione razziale ed anche quello della violenza sulle donne, tu ci hai provato e secondo me fino ad un certo punto ci sei riuscito benissimo, bella la descrizione di lei, ma, alla fine, forse proprio per il poco spazio adisposizione, hai concluso in fretta con una fine un pochino scontata. In bocca al lupo per il concorso!
Grazie Giovanna.
Ti ringrazio per due motivi: uno perché hai commentato e due perché mi hai fatto capire una terribile verità. Ho scritto una storia d’amore. Devi sapere che quando penso a una storia, solitamente mi concentro su quello che io chiamo, una “critica sociale.” In questo caso era l’alienazione, l’integrazione e la violenza sulle donne. Cose che tra l’altro hanno notato bene Roberto Giorni e Caterina Fiore (grazie anche a voi! Datemi un po’ di tempo e risponderò con calma pure ai vostri commenti, promesso). Comunque, dicevo, una volta trovato un tema, tendo a nasconderlo dietro a una trama che all’apparenza sembra parlare d’altro. Per la straniera avevo scelto una storia di coppia, che nella mia testa (e forse solo lì) doveva essere una storia difficile, travagliata. E ora arriva il problema. Tu mi hai fatto notare che non è così. E hai ragione da vendere. Ho riletto il mio brano e ho avuto un mezzo attacco di panico. Ho scritto una storia d’amore. A mia difesa dico che non era intenzionale. Non credo di essere un sentimentale e odio le storie d’amore fatte e finite, quelle che parlano solo di una cosa chiamata “amore.” In definitiva, devo dedurre che se il mio racconto è inteso come una storia d’amore, ho sbagliato qualcosa. Non sono stato abbastanza bravo da evocare la critica sociale. È prevalsa la trama. Perciò ti ringrazio molto, Giovanna, per avermi fatto notare tutto questo. Migliorerò.
Grazie Roberto.
Sono d’accordo su tutto quello che hai scritto, ma ho delle riserve sull’ultima osservazione. Hai detto che nel momento cruciale il protagonista manifesta un carattere molliccio. Esatto. Ma il carattere molliccio del protagonista non è presente solo in quell’attimo. All’inizio, quando lui avanza verso Anya per conoscerla, ha un istante di titubanza, e si allontana. È Anya che lo afferra per il braccio e lo fa tornare indietro. Questa scena è emblematica a ciò che volevo far notare. Cioè che la personalità di Anya è una debolezza nascosta dietro un velo di forza, mentre quella del protagonista è una forza sepolta e ignota che si manifesta in apparenza come una debolezza. Non so se ho reso l’idea. A riprova di questo, c’è la scena in cui il protagonista blocca Anya fuori dall’appartamento. Qua le personalità sembrano ribaltarsi, o meglio, affiorano per come sono in realtà. Il protagonista la tiene stretta e Anya rimane lì, debole. Ma è una situazione che non va bene a nessuno dei due. Anya s’inginocchia disperata, e il protagonista, una volta che lei se n’è andata, sta male perché crede che il suo comportamento abbia rovinato tutto. Nel finale lui s’arrende. Dice ad Anya: “D’accordo.” Perché sebbene avrebbe potuto trattenerla, sceglie di lasciarla andare per non ripetere l’errore, e perché mai avrebbe pensato a una tragedia. Dopo che avviene il fattaccio, ecco che il protagonista si lascia andare alla rabbia. Ma è una rabbia inutile, una rabbia che ha il sapore di amarezza. Quando si sente gridare “Dove vai? Non hai pagato il conto” il conto è in parte quello del caffè, e in parte un conto che dovrà saldare per la sua vena molliccia.
Grazie Caterina.
Hai ragione, ci ho provato. Pensavo di riuscirci, e in parte sì, credo di avercela fatta. Tuttavia mi reputo molto critico nei miei confronti quindi sono consapevole che la fine poteva essere un po’ ampliata. Ma come dici bene, ho fatto il possibile per non sforare troppo con lo spazio a disposizione. Una cosa però che non avevo previsto è la caratteristica che attribuisci alla fine: un pochino scontata. Davvero non la pensavo così. Mi pareva una fine, per così dire, “naturale” nel senso di fine giusta, non ovvia. A quanto pare ho toppato un pochino. Comunque ribadisco i miei ringraziamenti per aver letto e commentato.
Una storia d’amore particolare…Un forte legame che poi alla fine qualcuno o qualcosa porta via! racconto molto bello
Grazie Walter.
Sono lieto che ti sia piaciuto. Già, un forte legame che una volta portato via ha distrutto irrimediabilmente un equilibrio. Grazie ancora per aver letto e commentato.
L’integrazione è difficile per tutti, non è la provenienza da una regione o l’altra dell’Europa che incide, anche se sono convintissima che molto conta l’habitat sociale in cui si cresce e l’educazione di base, in Italia agli inizi del secolo era ancora in uso il delitto d’onore e le regole stabilite dalla società ipocrita e pregiudiziale ci emargina laddove abbiamo carattere e autonomia di pensiero. Le persone che hanno vissuto in un regime comunista ( o peggio ancora catto-comuniste come l’Italia) portano l’individuo ad avere poca nulla considerazione della vita umana…a partire proprio da queste bellissime che comunque sono usate e abusate per il traffico di prostituzione, per arricchire agenzie o similia che offrono donne belle e non… a chi può “acquistarne” una per i proprio “comodi” che non siano solo i piaceri sessuali.
Non provo nessun dispiacere per la condizione delle Anye, conosco donne bellissime che hanno risolto in maniera più intelligente i loro problemi di vita e se devo essere sincera, per quanto lasci all’amore tutte le sfumature possibili e immaginabili, mi urta in questo racconto, il soffermarsi sulla bellezza della donna più volte descritta, rispetto ad una presa di posizione per scoprire quale fosse il motivo di tristezza della stessa….che poi…essendo straniera non era nemmeno difficile da intuire…
Chissà….il racconto potrebbe passare da una sorta di veste di denuncia sociale ad una forma di riflessione o di rabbia più che per le facili belle donne per la superficialità di molti uomini.