Premio Racconti nella Rete 2013 “Sogni” di Viviana Gasparella
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2013Anche quella mattina niente. Niente di niente, nemmeno un lembo, un frammento di immagine, un alone, una parola. Anche quella mattina, al contrario di suo marito, Luisa non ricordava nulla, nulla almeno che avesse a che vedere con un sogno.
Erano anni che non ricordava più i propri sogni, tanti anni nei quali aveva tentato con tutti i mezzi di scoprirsi nell’atto del sognare: si era non solo registrata ma anche filmata a più riprese, nel tentativo di scorgere un movimento che potesse essere originato da un’attività onirica. Sconfitta dalla tecnologia si era poi drogata, ubriacata, una volta aveva persino scalato una montagna quasi fino in cima pur soffrendo di vertigini per vedere se qualcosa le si sarebbe attivato nel cervello.
Risultati? Neanche l’ombra di un riscontro. Ma come era possibile?
Luisa si sentiva menomata da questa mancanza, la notte le pareva di essere morta e la cosa le faceva pure una certa impressione. “Perché io no?” era la domanda che le frullava nella testa per un numero sempre maggiore di momenti al giorno; era oramai diventata un’ossessione in piena regola. Quando i suoi amici, suo marito o i suoi figli le raccontavano i propri sogni coglieva nelle loro facce il piacere di ricordarseli, quei maledetti sogni, la soddisfazione di poter raccontare situazioni assurde, azioni eclatanti di persone notoriamente molto timide, trasformazioni di animali in oggetti o viceversa, distorsioni temporali, luoghi fantastici, colori cangianti e che dire del compiacimento di aver sognato dei numeri particolari da giocare al lotto?
Persino Febo, il cane, sognava di correre talvolta e imitava chiaramente le movenze dell’atto con le zampe posteriori sul pregiato Tabriz vecchia manifattura del salotto durante il riposino pomeridiano. Lei ci stava male ed in quei contesti cercava spesso di sviare la conversazione; altre volte invece, presa da un vago senso di inferiorità e di insignificanza, si inventava dei fantomatici resoconti di sogni, con tanto di parti vacanti.
E se li inventava bene, non c’è che dire, nessuno se n’era mai accorto, forse perché nessuno avrebbe mai pensato che una persona come lei potesse fare una tragedia di un fatto di certo né così rimarchevole né tantomeno isolato.
Alla psicoterapia –sì, per questo era andata anche a qualche seduta di psicoterapia- il terapeuta le aveva più volte confermato come a molte persone capiti di non ricordare i sogni e, rivelazione ancor più importante, che lei sognava comunque pur non avendone memoria. Cambiò psicoterapeuta un paio di volte, poi si arrese: dicevano tutti le stesse cose.
Nel frattempo la sua vita continuava, e non si può certo dire che la sua fosse una vita sfortunata. Di buona famiglia, si era sposata giovane con un uomo molto intelligente e colto, un professionista di successo che non le aveva mai fatto mancare nulla e che la soddisfaceva in ogni suo desiderio, pur essendo sempre molto indaffarato con il lavoro; erano molto facoltosi, tanto che lei poteva permettersi di non lavorare e di coltivare le proprie amicizie, di seguire la crescita dei due figli e di rinnovare l’arredamento della loro grande casa ogniqualvolta ne avesse voglia. Ogni suo desiderio veniva esaudito prima ancora che potesse formularlo. Aveva tutto.
Un vivere invidiabile di certo per molti, ma per Luisa tutto ciò non bastava, o meglio, non contava: contava solo il fatto che lei non sognasse la notte e per questo si sentiva deficitaria, handicappata, deprivata, anormale, in definitiva.
Il fatto poi di inventare sogni da raccontare agli altri, a quelli che sognano, le faceva pesare la coscienza rendendola oltretutto sporca e la obbligava di conseguenza a mettere sempre un po’ di distanza nei suoi rapporti per la paura che qualcuno potesse scoprire il suo segreto truffaldino.
Certo la cosa le era stata molto utile quando i suoi bimbi erano piccoli e pretendevano favole quotidiane per addormentarsi ma non era riuscita, benché avesse a suo tempo cercato di imporselo, a limitarsi a quell’ambito. Lo faceva ormai con tutti: ogni tanto, a volte anche a sproposito nel bel pieno di conversazioni di tutt’altra natura, se ne usciva con uno o due racconti assurdi di sogni nei quali era coinvolto, fatalità, qualcuno dei presenti, con sovrabbondanza di dettagli del vestiario o magari del paesaggio (e questa dovizia di particolari avrebbe quantomeno dovuto rendere sospetti i suoi racconti); aveva negli ultimi tempi cominciato a farlo anche durante i momenti di intimità con suo marito, trovando in tal modo un tramite per confessargli molte delle pratiche erotiche che avrebbe sempre voluto sperimentare con lui ma che la sua educazione non le avrebbe mai consentito di formulare in richieste verbali esplicite e dirette, la qual cosa al consorte doveva essere risultata al tempo particolarmente gradita.
Di passo in passo, di indulgenza con se stessa in indulgenza, i racconti d’invenzione erano riusciti a sostituirsi al suo più intimo senso di identità e la sua modalità di rapporto con gli altri umani era notevolmente mutata, fino al punto in cui Luisa non era stata più in grado di fermarsi e mettere fine a quella pagliacciata senza senso, nella quale faceva spesso rientrare immagini di film, di romanzi, suggestioni in generale, che la faceva sentire interessante ed addirittura a tratti divertente ma per la quale provava negli ormai rari momenti di lucidità una profonda vergogna.
Io la incontrai per la prima volta in coda al supermercato mentre la cassiera temporeggiava aspettando che qualche collega corresse in suo soccorso e facesse funzionare la cassa che non si apriva più. Le feci appoggiare le merci che teneva in mano sul nastro per gentilezza e lei quasi subito cominciò a raccontarmi di un sogno che aveva fatto dove –ne era arcisicura- c’ero anch’io. Sì, ero proprio io!
Le diedi retta nella noia dell’attesa ma ben presto quella noia si trasformò in un chiacchierare sommesso interrotto solo da mie risatine divertite: c’era un cane bianco e nero con un occhio solo e senza orecchie, questo cane correva, correva, correva e nel frattempo le sue zampe anteriori si trasformavano in pinne, poi pluf! Il cane finiva nell’acqua. L’acqua era dapprima torbida e non si vedeva nulla, poi diventava pian piano limpida e vi si vedeva attraverso: c’erano tantissimi pesci, gialli, verdi, blu, rossi con la faccia da uomini con i baffi che si salutavano con le pinne anteriori l’un l’altro ed un signore con delle braccia lunghe, lunghissime, che sembrava dirigere il traffico acquatico! Poi un vuoto e cambio di scena: io e Luisa, anzi Luisa ed io, appese al grosso ramo di un pino silvestre con gli aghi un po’ marroni che cercavamo di fumare una sigaretta Marlboro di nascosto dai ragazzini che noi, le insegnanti, avevamo portato in gita a Roma per vedere Caravaggio. Poi compariva all’improvviso sotto di noi un grande fiume (forse quello coi pesci-faccia) e noi, che avevamo staccato dal ramo una mano ciascuna per fumare, perdevamo entrambe la presa e ci finivamo dentro; si era svegliata quella notte – disse- per la sensazione di bagnato nel sogno, mentre in realtà era tutta sudata per il caldo! Che strano e che bello sognare, eh?
Nel frattempo il disguido era stato risolto così andammo a bere un caffè davanti al supermercato, sempre nel centro commerciale; accettai di buon grado il suo invito perché quel giorno non avevo nulla di impellente da fare.
Cominciai a rendermi conto del suo singolare stato mentale quando si avviò a narrare –evidentemente incoraggiata dalla mia attenzione e dal crescente stupore che manifestavo- il terzo sogno che le tornava magicamente alla memoria nel quale ero presente anch’io, pur avendola io vista quel giorno per la prima volta in vita mia.
Nel pomeriggio mi lambiccai il cervello pensando a dove avessi sentito parlare di pesci-faccia e uomini con le braccia lunghe lunghissime, magari in qualche libro o film, proprio non mi veniva in mente.
Dopo quel giorno mi capitò di incontrarla altre volte, in fondo mi stava simpatica anche se devo dire che i nostri discorsi finivano, nonostante i miei numerosi tentativi di sapere qualcosa di lei al di là dei suoi reportage onirici, sempre nello stesso modo: gran racconti di avventure mirabolanti che proprio io e lei avevamo vissuto insieme durante il suo riposo, con note a tratti esilaranti e citazioni che denotavano anche una certa, raffinata ironia.
La quarta ed ultima volta che la incontrai avevo però una pessima giornata, ero appena stata informata di una disgrazia capitata ad una persona a me molto cara e non ero certo in vena di ascoltare gli strambi racconti di una donna dell’alta borghesia che sembrava aver sicuramente molto tempo da perdere al supermercato. Cercai così di tenere, nonostante il suo caloroso saluto (sembrava quasi aspettarmi), un atteggiamento che fosse a metà tra il gentile ed il frettoloso, tanto trafelato da indurla senz’altro ad accommiatarsi, ma non riuscii a reggere la sua delusione nel vedermi sfuggente.
Le concessi due minuti per bere un caffè e le lasciai raccontare il suo ultimo sogno che, guarda caso, ancora una volta ci vedeva entrambe coinvolte come al solito nel salvare il mondo, volare, dipingerci la faccia di rosso, fonderci l’una nell’altra, essere attaccate da orde di vedove nere, salvarci in extremis da precipizi o cascate. Il tutto riportato con un tono al tempo stesso serioso ed estatico. Una conversazione a senso unico, che mi vedeva presente semplicemente in forma di apparato uditivo.
Con un po’ di risentimento, sicuramente dovuto al fatto che la giornata non fosse per me delle migliori e sentissi onestamente il bisogno di stare da sola ed in silenzio, non solo non mostrai alcun interessamento per ciò che ella andava inventando ma mi azzardai pure, mentre lei pian piano si rendeva conto del mio atteggiamento, a manifestare per la prima volta i miei sospetti sulla veridicità del fatto che realmente si sognasse insieme a me tutte le notti.
Lei trasalì. Poi si infuriò, scattò in piedi e cominciò ad urlare come un’aquila, con una violenza tale che dovette intervenire persino il barista, cui fu scaraventato addosso il tavolino da una Luisa che aveva subito una trasformazione che di onirico quella volta aveva ben poco.
Fu quello il momento in cui mi resi conto definitivamente che Luisa era pazza. Me ne resi conto allorché nel giro di pochi secondi, nel parapiglia generale, la donna, ormai accasciata a terra in uno stato a metà tra il singhiozzo disperato e le convulsioni, fu agguantata da due energumeni che io avevo in passato già notato sedere non distanti da noi nello stesso bar ma alla cui presenza non avevo dato precedentemente peso.
Seguii sbigottita il terzetto fino all’uscita del centro commerciale, dove nel giro di poco tempo arrivò un pulmino nel quale la donna fu fatta salire di peso. Uno dei due uomini però, prima di chiudere la portiera, mi chiamò presso il veicolo e mi diede un biglietto da visita con l’indirizzo di una casa di cura privata molto conosciuta per essere frequentata da persone di alta classe sociale. Mi ci precipitai affannata, volevo capire cosa avesse scatenato una rabbia e successivamente uno sconforto così esplosivi.
Il medico che l’aveva in cura mi disse che in realtà Luisa, dal nostro primo incontro in poi, era stata spesso accompagnata al supermercato per cercare proprio me e che tutto ciò faceva parte di una cura sperimentale che prevedeva il reinserimento graduale del degente all’interno di un contesto di stringente normalità come un supermercato all’interno di un centro commerciale, un luogo chiuso ma frequentato nel quale tra l’altro la paziente avrebbe potuto essere sorvegliata dagli infermieri senza destare troppi sospetti, nel brulichio generale. Il fatto poi che fosse riuscita ad entrare in contatto con una persona che pareva piacerle e cui ella pareva piacere avrebbe potuto indurre la paziente, in una prospettiva a lungo termine ma ottimistica, ad uscire anche solo per qualche momento dalle sue farneticazioni ormai costanti per provare ad avere un rapporto normale con qualcuno che non fosse lo psichiatra, visto che ormai da tempo non ci riusciva più nemmeno con il marito ed i figli.
Ebbene, tutto ciò si era rivelato errato. La sperimentazione era decisamente fallita. Il solo fatto (peraltro prevedibile, accidenti) che io avessi anche solo minimamente messo in dubbio l’attendibilità dei suoi costrutti mentali aveva fatto crollare ben più di un palchetto, aveva messo in crisi la sua fragile personalità per intero e lei era crollata. Mi scusai, nel caso ce ne fosse bisogno, forse solo per sentirmi dire dal dottore che io non avevo colpa, casomai qualche responsabilità poteva averla il marito che insisteva (con persuasione monetaria) per l’applicazione di questa forma di sperimentazione, nel disperato bisogno di riportare la moglie alla ragione.
Tornai a casa pensando che un essere umano privato dei propri sogni rischia di impazzire, anche se questi sono solo dei sogni ad occhi aperti.
La notte seguente sognai di correre su di un prato immenso con Luisa, per mia fortuna.
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“Datemi un sogno in cui vivere perché la realtà mi sta uccidendo” – questa frase non è mia, ma mi sembra che sia un po’ quello che dice l’autrice di questo racconto: senza sogni si può impazzire. Bel racconto.
Wow! Li hai letti entrambi! Che onore! Se me lo approvano, ne arriverà un terzo fresco fresco. Grazie di cuore, Silvia, ora devo uscire ma quando tornerò leggerò anche il tuo o i tuoi e ti scriverò cosa ne penso.
Bella descrizione di una mente squilibrata, e anche lo stile e’ limpido e lineare, adatto al tipo di storia che si vuole raccontere. Finale a sorpresa che non guasta. Complimenti.
Grazie!!! 🙂
Il finale a sorpresa salta fuori come una piacevole carezza, per certi versi, inaspettata. Mi è piaciuto molto il piano descrittivo, curato e limpido.
un piano descrittivo curato e limpido.CEMF
Questo racconto mi ha spiazzata per il cambio di narratore. All’inizio un narratore di terza persona ci parla di Luisa e della sua mancanza di sogni. Ci dice che la mancanza dei sogni ha spinto Luisa, madre di famiglia, verso l’alcol, le droghe e ripide montagne. La cosa appare già inverosimile, nonostante il narratore insista sulla parola ossessione, e quindi il lettore pensa che sia il narratore che Luisa siano poco credibili ( e l’autore mezzo matto). Poi, a metà racconto, spunta un io narrativo, personaggio del racconto, e la storia, narrata in prima persona da un testimone, si dipana rivelando che Luisa è matta. Non vedo il colpo di scena. L’ avevo già capito. Però devo dire che la seconda parte è narrata meglio e risulta per me più coinvolgente.
Salve Giovanna, in realtà non avevo alcuna intenzione di spiazzare con questo racconto: mi è semplicemente nato da una riflessione che giocava su una doppia interpretazione del sogno in quanto attività notturna e in quanto speranza per il futuro, desiderio o ideale. La donna in questione non aveva più nulla da sognare, la sua vita pareva essere perfetta e la sua mancanza di attività onirica altro non voleva simboleggiare se non una più grave assenza della seconda delle interpretazioni della parola “sogno”.
Grazie per aver letto il mio racconto, in ogni caso.
V.
Quando il pensiero laterale va oltre e sfugge. Distaccando. Che invece il sogno non ci manchi mai! Grazie, una storia non semplice che grazie allo sguardo umano con cui hai saputo rappresentarla ci fa cogliere davvero di più.
Grazie a te di aver letto e compreso. Grazie veramente!
Buona giornata!
P.S. Mi scuso qua per non aver ancora avuto modo di commentare i racconti di coloro che mi hanno scritto, presto potrò farlo.