Premio Racconti nella Rete 2013 “L’Opera” di Viviana Gasparella
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2013“…E ancora una volta notiamo il dinamismo del “Non finito concettuale” in quest’opera dall’alto contenuto simbolico che obbliga letteralmente il fruitore a fare i conti con l’assenza di una reale possibilità di comunicazione tra passato analogico e presente tecnologico…”, tuonò la voce male amplificata del curatore durante il discorso di apertura del vernissage dell’ultima personale di Tita De Luca investendo come un treno in corsa i timpani degli astanti, i quali avevano tuttavia già l’aria, avvertendo l’inflessione del tono verso un epilogo dell’articolato magnificat, di star soppesando mentalmente se dirigersi prima verso il banco delle bevande o quello delle tartine.
Tita, seduta a fianco del gallerista con le gambe accavallate, posa che permetteva allo spacco del vestito di lamè di arrampicarsi quasi fino al gluteo sinistro, sfoggiava il solito sorriso di cortesia appena accennato per non sembrare troppo visibilmente posticcio.
Come previsto con discreto sollievo dai più, di lì a breve la presentazione ebbe fine e come di consueto, mentre Tita si alzava già chinando il capo in segno di ritrosia, partì un applauso scrosciante misto ai tintinnii degli anelloni delle vecchie signore bene della città che cozzavano gli uni contro gli altri.
Seguì un lesto ma misurato spostamento di sedie generale, quel tanto che rendesse possibile per ciascuno un elegante sgusciare di abiti da sera verso gli agognati banchetti, allestiti -forse con un po’ di malizia, vista l’ora insolita della vernice, le 20:00- proprio intorno alla platea della stanza centrale nella quale si era appena esaurito il lungo discorso di inaugurazione. Tra il vociare partì la musica di sottofondo.
Nel frattempo Tita si era disposta, gentilmente ma fermamente accompagnata dal braccetto del gallerista, nei pressi dell’ultima opera trattata, che titolava “Senza titolo”; si trattava di un’installazione minimalista: su due basamenti di cristallo rispettivamente un telefono a ruota anni ’70 ed un Iphone. Il gallerista si premurò di farle arrivare tra le mani un flute di Cristal ed ebbe inizio, tra i saluti e le strette di mano, la filastrocca dei complimenti, dei paragoni e dello sfoggio rimandi colti a mostre passate o artisti contemporanei che Tita ipotizzava si sarebbe esaurita soltanto dopo un’oretta buona.
Quel giorno si era alzata decisamente di cattivo umore, la giovane promessa, la sveglia non aveva suonato, era ancora un po’ sbronza dalla sera prima e solo grazie al provvidenziale bussare della cameriera ai piani era riuscita ad arrivare alla galleria con un ritardo al limite della maleducazione ma tale da consentirle comunque, discutendo ogni dettaglio, finanche il più insignificante, di approntare con l’antipaticissimo curatore gli ultimi cambiamenti all’assetto delle opere in esposizione.
Vuoi tuttavia per il sonno anzitempo interrotto, vuoi per il fastidioso cerchio alla testa o per l’effettiva boria da intellettuale del richiestissimo critico e curatore Lodovico Corbelli Guidotti o forse per la melliflua ossequiosità dalle movenze finto-omosessuale-che-oggi-dà-un-tono del gallerista Masetti, ma sfoggiare il suo sorriso migliore quella sera a Tita proprio non riusciva, complice non ultima la musica Lounge che lei odiava con serena intensità ma che avrebbe avuto come unica alternativa il peggior Free jazz, quello che lei, che amava soprattutto lo Standard, si permetteva di chiamare “rumore per ricchi” persino quando si trovava in situazioni da alta società.
“Mi manca ancora l’intervista a quel pennivendolo di Arte Oggi”, pensava Tita mentre fingeva di riconoscere facce ciarlando del nulla, “e intanto sono già le dieci e quaranta”.
L’ultimo spettacolo del cinema d’essai in fondo alla strada che aveva notato mentre correva alla galleria era sicuramente già iniziato.
Piaceva, Tita, ai pennivendoli e ai parolai dell’arte contemporanea, alle vecchie signore ma specialmente agli uomini, piaceva perché sapeva sempre spiazzare l’interlocutore con le sue risposte pungenti, perché il suo sguardo serafico le conferiva il distacco ritenuto proprio delle persone dotate di acume intellettuale e il fatto che ella fosse oltretutto una novità nel multiverso della giovane arte italiana, unitamente ai tratti regolari ed à la page del suo voltononché il suo fisico procace avvolto in abiti dalla raffinata semplicità, tutto ciò aveva investito la ragazza di una enorme notorietà quasi all’improvviso nell’ultimo anno e mezzo dei suoi trentadue senza che ella se ne fosse ancora potuta ben rendere conto.
Pensava ancora di giocare. Ma tanto più si spingeva nel suo gioco, tanto più veniva osannata dalla critica.
Per anni aveva tentato di diventare una brava pittrice dedicandosi regolarmente, per quanto il suo carattere inquieto e contraddittorio le permettesse, al disegno, all’anatomia ed al colore ad olio. Dipingeva validi quadri figurativi ma, ferocemente autocritica, riteneva le mancasse sempre un qualcosa che non riusciva proprio a trovare e così cambiava stile e soggetti tanto velocemente da non essere mai riuscita a costruirsi quella cosiddetta “cifra stilistica” assolutamente necessaria per accedere al mondo dell’arte contemporanea, subendo qua e là l’influenza di qualche pittore studiato, il giudizio del maestro del suo atelier, dei compagni di corso ma specialmente di se stessa. La pittura era forse l’attività in cui ella si era spesa maggiormente nella vita, con passione sincera.
Dopo una giovinezza passata dipingendo con furore ma senza alcun riscontro, complice il disprezzo acquisito nei confronti del Bel Mondo dell’Arte Contemporanea, gonfia di un risentimento generalizzato ed eterodiretto ella si era data quindi alla satira artistica, decidendo in un settembre disoccupato dell’anno precedente di produrre delle opere spazzatura, paccottiglia inutile, persuasa dell’importanza di mandare un messaggio forte che mettesse a nudo e ridicolizzasse l’insensatezza delle pratiche di selezione che la maggior parte delle gallerie ed istituzioni adottano nel decidere cosa dai più possa esser visto e cosa non.
Per rendere più realistica la pagliacciata aveva poi deciso di cambiare anche il suo modo di vestire in un altro decisamente più ricercato e femminile, di tagliarsi finalmente i capelli, di truccarsi; si era aperta una pagina su facebook con uno pseudonimo accattivante e vi aveva cacciato dentro foto di sé mezza sbronza (ed anche un po’ scollacciata) con una parrucca viola che le aveva fatto l’amica Sara per ridere una sera, nonché il terribile book di tutte le finte opere da Arte Contemporanea che aveva mandato ai concorsi: le foto del secchio di vomito dal titolo “La Nausea” che, in quanto opera in concorso, non poteva essere gettato seppur certo non profumasse di violette, l’orsacchiotto Trudino dal piccolo ventre riempito con un vero cuore di bue ormai marcio con titolo “True Love”, il pesantissimo tavolo reclinabile da architetto dal titolo “Fare Spazio” con al centro dei fori da proiettile e sangue colante che non sarebbe mai più andata a riprendere, ma anche i vasi di delicate orchidee dal titolo “Still life?” che dovevano esser curate con assiduità su esplicita richiesta dell’autrice ed altre cose che in fondo Tita faceva solo per rompere un po’ le scatole almeno a qualche curatore o gallerista o redazione di rivista di settore.
Dopotutto se lo poteva permettere: il padre era un medico di chiara fama che si ammazzava di lavoro e per compensare la figlia della sua assenza la manteneva in tutti i suoi colpi di testa, la madre anaffettiva, con la quale Tita litigava via Skype ogni due mesi come unica forma di comunicazione, aveva divorziato ed era scappata con il commercialista di famiglia negli Stati Uniti da nove anni almeno, quando Tita era ancora dichiaratamente una fricchettona fumatrice di spinelli con mezza testa rasata e l’altra metà ricoperta da dreadlocks colorati ma per la verità molto poco curati.
La mossa successiva era stata il Presenzialismo. Si era negli ultimi due anni dedicata con assiduità alla frequentazione di tutti gli eventi artistici, anche due o tre al giorno, in cui appariva come una misteriosa meteora sfoggiando mise educatamente provocanti e tacchi vertiginosi per sostare non più di mezz’ora alla volta, giusto il tempo di seccare qualche spettatore con frasi caustiche e citazioni latine spesso fuori luogo che nessuno comprendeva solo per il gusto di riderne tra sé e sé o con la solita amica e coinquilina Sara, decennale studentessa di filosofia teoretica che si offriva talvolta di affiancarla nelle sue recite, interpretando sovente dei cammei da lesbica gelosa per far risultare più intrigante la figura della sodale.
Qualcuno si chiederà ora quanto fosse sincero questo atteggiamento di sfida o quanto esso fosse per converso la manifestazione di un inconscio desiderio di partecipazione a quel mondo frivolo e posticcio che ella pareva sbeffeggiare, pur facendone potenzialmente parte per estrazione sociale, e forse nemmeno Tita l’aveva avuto ben chiaro fino a quel momento: a volte, allorché si rendeva conto della perseveranza con cui si era trovata a portare avanti quel progetto strampalato, la cosa la turbava, tuttavia era troppo divertente, irriverente, necessaria, si diceva al tempo.
Ma ad un certo punto qualcosa era cambiato: si erano accorti di lei. Avevano cominciato a riconoscerla, a chiederle numero di telefono ed indirizzo mail, gli uomini per primi, anche i finti omosessuali di cui il settore pullula. Arrivarono i primi premi ai concorsi, come quella volta che le avevano esposto alla Fondazione Mangiapane per ben tre settimane la Barbie Fior di Pesco immersa nelle feci di cane dentro una tazza con disegnata la bandiera americana appoggiata su una colonnetta corinzia da giardino cafone. Si intitolava “Thank you Marshall”.
La stessa inconcludenza che l’aveva caratterizzata fin dalla nascita si era improvvisamente tramutata in ciò che la critica aveva sgargiantemente cominciato a chiamare nelle sue opere “Il non finito concettuale”, paragonandola qua e là a Rodin, a Medardo Rosso, a Michelangelo e ad altri mostri sacri intoccabili, la qual cosa faceva sprofondare Tita dalla vergogna tra sé e sé. Qualche critico meno aulico a volte vi aveva intravisto evidenti richiami a De Dominicis o Manzoni, al Situazionismo, al Dadaismo, alla Pop Art, perfino al Cubismo, all’Art brut, per arrivare non si sa come alla Land Art, in una scalata che aveva portato la giovane ad un approccio creativo sempre più smaccatamente Concettuale, cioè a spender sempre meno tempo nel concepire e realizzare le sue opere.
Ora bisogna dire che la ragazza si era già molto forzata nel superare i propri nodi etici e nell’utilizzare la propria effettiva avvenenza ed arguzia nella vita quotidiana, proprio lei che aveva sempre ricusato il naturale egocentrismo del quale ciascuno è fornito alla nascita per rendere visibili le proprie abilità e cercare di esser valutata al di là della parentela o del proprio aspetto fisico, tutti vantaggi regalatile dal caso che ella considerava non aver in alcun modo meritato e che aveva sfrontatamente rifiutato di render manifesti fino all’epoca precedente quel singolare progetto.
Il fatto di essersi data letteralmente una ripulita ed aver cominciato a scimmiottare le dive del cinema doveva per forza, nella sua testa, esser ricondotto esclusivamente ad una beffa così come le sue cosiddette opere, ma ciò, fino a quel momento, non era stato minimamente percepito neanche dai suoi più intimi amici, Sara a parte, che avevano cominciato a guardarla con occhi molto diversi, taluni con invidia, talaltri con cupidigia. Altri ancora, che non l’avevano mai considerata in vita, avevano preso a telefonarle incessantemente per invitarla ovunque e a fingersi suoi amici di vecchia data di fronte ai frequentatori vip delle sue mostre. Persino quei babbei dei suoi genitori pensavano si fosse finalmente data una regolata.
In quindici anni di pittura sincera nessuno l’aveva mai considerata abbastanza presentabile da farle realizzare una mostra, nonostante le sue vere opere in fondo lo meritassero, al contrario da quando aveva cominciato ad inscenare quella pagliacciata e a produrre “cacate”, definite tali perché effettivamente le concepiva spesso sulla tazza del water, tra concorsi, collettive e personali aveva già esposto in almeno una trentina di occasioni.
Tali erano i pensieri che, tra il dolore alle tempie e quello ai piedi per via dei tacchi, tra un sorriso ed una stretta di mano, pervadevano quella sera la mente di Tita durante l’inaugurazione, rendendola confusa ed impedendole oramai anche solo di ricordare quali frasi irriverenti avrebbe pronunciato ed in presenza di chi, fatto sta che all’improvviso, mentre il noto critico Lodovico Corbelli Guidotti la cingeva con fare limaccioso sussurrandole all’orecchio di seguiti di serate in suite d’alberghi forniti di coca ed idromassaggio misto a cataloghi ed esposizioni personali in luoghi esclusivi solo a lui accessibili, la giovane promessa dell’Arte Contemporanea si divincolò dalla presa ed uscì bruscamente dalla sala, lasciando nei volti degli astanti una buffa espressione querula.
Tita corse via velocemente, urtando le vecchie inanellate, i radical chic, i finti gay, i giovani artisti arrivisti schierati fuori dall’entrata, superò ansimando il cinema d’essai; non la faceva più ridere quella sceneggiata, si sentiva male e basta.
Non era più un gioco.
Inciampò su di un marciapiede volando a terra e sbucciandosi le ginocchia come da bambina. Si tolse le scarpe e continuò a correre all’impazzata a piedi scalzi fino a che non arrivò all’albergo. Corse in camera e tentò di chiamare Sara, ma il telefono si dichiarava spento o non raggiungibile. Spense anche il suo. Vomitò sulla moquette grigio topo l’unico voulevant al salmone che era riuscita a mangiare tra un flute di Cristal e l’altro. Era gonfia di rabbia, di frustrazione, di disgusto. Era sbronza. Aveva ottenuto in pochissimo tempo tutto quello che la maggior parte delle persone vorrebbero ottenere nell’intera vita e la cosa le faceva già da tempo semplicemente ribrezzo ma proprio quella sera, diversamente da tutte le altre volte, si era resa conto di esser diventata ella stessa parte integrante del sistema che ripudiava e il disgusto che provava non poteva oramai che rivolgersi anche nei confronti di se stessa.
Sapeva già cosa fare: l’unica persona cui era sicura di importare davvero era Sara, che andava avanti a psicofarmaci per sopportare la sua, di vita. L’unica oramai che le stesse vicino per affetto e non per moda. L’unica che avrebbe capito anche ciò che, con un improvviso lampo di lucidità, le era venuto in mente di mettere in pratica.
Una vendetta.
Una vendetta ed una spiegazione, finalmente. Una manifestazione reale di disprezzo, per suo padre troppo distratto, per sua madre stronza insensibile, per tutti quegli idioti che di lei non avevano mai capito niente, per tutti gli uomini che l’avevano scopata per poi scappare la mattina dopo, per quelli che l’avevano tradita, per tutti quei boriosi del Bel Mondo che fingevano di sapere il latino.
Tita riaccese il telefono, scrisse a Sara un sms di addio in cui dichiarava che le avrebbe lasciato il suo gatto Debord e tutti i suoi quadri come ultima volontà, lasciando sul letto il cellulare col messaggio. Scrisse poi sul blocchetto vicino al comodino “L’ARTE CONTEMPORANEA è UNA CACATA”, assicurò delle calze di nylon al ballatoio, formò un cappio all’altro capo e se lo infilò al collo.
Si lasciò nel vuoto ridendo.
***
Dopo tre settimane la madre di Tita tornò dall’America: doveva firmare una liberatoria per autorizzare l’esposizione delle Opere dell’artista: una grande retrospettiva organizzata dal grande critico, Lodovico Corbelli Guidotti, che aveva avuto il grande privilegio di conoscerla in vita. Il titolo? “Tita De Luca, Ribelle per Arte”. Un intero museo per ospitare tutte le “cacate”, esclusa l’ultima sala, all’interno della quale si tenne il commosso discorso del Critico: una stanza vuota in cui campeggiavano le foto della vomitata di salmone stampate in silverprint su tela e rimaneggiate con varie tinte in perfetto stile Warhol ed accanto, su gentile concessione dei genitori, la gigantografia di Tita appesa alla balaustra, una testimonianza di quella che l’esimio critico ed opinion maker, con un lampo di genio introspettivo, aveva intuito essere parte integrante del corpus di Opere della grande Artista in qualità di Performance finale.
“Il suicidio come evidenza di una vita non portata a termine. Il suicidio come Non Finito Concettuale estremo.” Tra gli applausi inanellati, alla fine del discorso, il padre di Tita chiese a Corbelli Guidotti dove fossero i quadri della figlia, pensando sarebbe stato il caso di mostrare anch’essi.
Corbelli Guidotti rispose un po’ stizzito che erano di proprietà di una certa Sara, coinquilina di Tita che, seppur vivamente sollecitata, si era rifiutata di venderli.
![]()
Uno sguardo disincantato sul mondo dell’arte, dove l’arte è completamente assente, ma in nome della stessa si crea business. La protagonista tenta una sua forma di ribellione, ma ne rimane l’unica vittima, insieme, ovviamente, all’arte. La società contemporanea non ha tempo di attendere la ricerca artistica, ma ha bisogno del fenomeno dirompente con cui cavalcare l’onda. Accade, non sempre, ma accade. Racconto scritto bene.
Grazie, hai capito il senso di ciò che ho scritto.
il punctum del racconto è il gatto debord. 🙂 EMF
ahahahahhahahahaahahahahahahah! No, è il voulevant al salmone: è stato letale! 🙂
Nel suo commento, Silvia ha sintetizzato il tuo racconto in maniera impeccabile.
Aggiungo soltanto che è piaciuto anche a me.
In diversi passaggi mi ha fatto sorridere (in particolare la foto del secchio dal titolo “La nausea” e la Barbie Fior di Pesco nell’opera “Thank you Marshall”).
Forse, in alcuni punti del racconto, potevi rendere le frasi più brevi, dividendo i periodi. Ma questo è solo riflesso di una mia preferenza personale per le frasi piuttosto brevi e secche. Può anche darsi che altri lettori preferiscano leggere, invece, periodi lunghi e articolati.
Ad ogni modo è un buon racconto.
In un tuo intervento ho letto che si tratta dei tuoi primi brani e credo che valga la pena di continuare.
Non posso far altro che ringraziarla. Buona giornata 🙂