Racconti nella Rete®

25° Premio letterario Racconti nella Rete 2025/2026

Premio Racconti nella Rete 2013 “I suoi capelli d’oro” di Cav. Emilio Michele Fairendelli

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2013

Da anni il Commissario Bruno Dolano veniva invitato alle cene che la vicina – una vedova pallida, raffinata e cortese che abitava l’appartamento sotto il suo – organizzava con regolarità.

Gente interessante

Vite brillanti, pensava ogni volta.

Lui era da tempo in pensione ma gli era sempre piaciuto raccontare le sue storie.

Ne aveva viste così tante e gli altri non si stancavano mai di chiedere.

Terminata la cena, davanti a un brandy, nel salone così scuro, la Verità sul racconto che esponeva, sull’uomo o la donna che gli aveva dato vita in un tempo lontano  sembravano apparirgli per la prima volta con chiarezza.

Non la verità dei fatti e dei conti della giustizia umana – cadaveri questi oramai da tempo come gli assassini e  i colpiti –  ma la Verità essenziale, quella eternamente vivente.

Solo perché Lei avesse potuto mostrarsi, apparire sulla Terra, accadevano l’orrendo e l’innominabile.

Così credeva il Commissario.

Al mattino parenti ed amici avevano partecipato al funerale della padrona di casa.

Era morta nel sonno due giorni prima.

Eugenia, la sorella che viveva in Francia e che lui conosceva bene aveva insistito perché restasse con loro a cena.

Il fratello Alberto, il più giovane, alcuni cugini, gli amici più cari.

Nelle stanze l’ ombra della morta si aggirava senza requie, come avrebbe fatto ancora per qualche giorno.

Sfiorava soffitti e pareti.

Toccava gli oggetti e gli specchi, forse convinta che attraverso di loro avrebbe di nuovo potuto raggiungere la realtà.

Chi poteva sapere cosa avrebbe visto Luisa nel suo Bardo?

Alla fine si rimase tutti intorno al grande tavolo ellittico, che fu liberato.

Eugenia stava mostrando un sottile libro nero.

 

Il“Pensa, l’ho terminato solo venerdì scorso, il giorno prima che mi telefonassero per Luisa. L’abbiamo fatto noi. Un sito dove crei il tuo libro. Mi ha aiutato Irène. Vero Irène?”

 

Il Commissario guardò la ragazza. Alta e magrissima, vestita di nero. Venticinque anni, forse meno. Occhiaie. Una dark. Nel profondo, qualcosa che nessuno saprà mai, le mangia il cuore. Odia.

 

Così, in uno sguardo, anche se non avrebbe mai svolto nessuna indagine, aveva compreso qualcosa ed era pronto a sapere altro.

Si alzò per andare alle spalle di Eugenia e guardare nel libro.

 

“Questo è il nonno, Mario. Guarda la grande motocicletta dietro di lui.”

 

“Qui siamo al Touquet. Dio come eravamo giovani. Ecco Irène nella culla, ha due mesi. Nel giardino.”

 

“Io e Luisa piccole davanti al cancello della casa. Alberto non era ancora nato.”

 

Era un libro di foto di famiglia.

Ogni tanto Eugenia ne chiudeva la copertina  dove si vedeva uno stemma con un rosso toro rampante.

 

Alla fine il Commissario rimase solo con lei e la figlia.

Tendeva ad andarsene sempre per ultimo.

Deformazione professionale: qualcosa avrebbe potuto sempre accadere, anche all’ultimo istante.

Gli  sarebbe poi  bastato salire le scale e avrebbe trovato subito i suoi libri, il suo luogo.

Chiese se in qualche modo avrebbe potuto rendersi utile.

Le questioni pratiche.

 

Eugenia scosse la testa.

 

“Bruno quanto le voleva bene Luisa. Venga, si sieda ancora un poco.”

 

Irène se ne era andata in una delle camere, senza salutare.

 

Sedettero. Lei teneva in grembo il libro.

 

“Così.” – disse piano il Commissario.

 

“Così.” – rispose Eugenia.

 

Aveva aperto il libro.

 

“Lei Bruno sapeva di Anna?”

 

Disse di no.

 

Gli mostrò allora una pagina del libro e lui la vide.

 

Una bambina di cinque o sei anni.

Anche dalla foto grigia e così rovinata la sua bellezza appariva sovrannaturale: lunghi capelli che cadevano in giri d’oro, una fronte luminosa, gli occhi due piccoli punti di stampa più chiara che sapevi essere stati laghi di colore celeste.

Una veste candida fermata da una cintura.

 

“La mia sorellina.”

 

“Un giorno è scomparsa. Mai più ritrovata. Sua madre morì di crepacuore dopo nemmeno un anno. Dicevano fossero spariti alcuni bambini in quegli anni, nei paesi lungo quella riva del Lago. Un maniaco, forse. Papà ci ha raccontato la storia, poi. Ninni, la chiamavano. Aveva una valigia con le sue cose e io e Luisa a volte l’aprivamo: vestiti, piccoli giochi, disegni. Dopo qualche anno lui si risposò e siamo nate io, Luisa ed Alberto.”

 

“Non sapevo.” – disse il Commissario.

 

“Più di settant’anni fa. Lei crede Bruno si potrebbe sapere qualcosa, dopo così  tanti anni di una storia come questa? Pensi che sfida affascinante per lei. Ricordo bene qualcuna delle sue indagini. Luisa me ne parlava spesso.”

 

“Non fossi così stanco, Eugenia. La cosa più orrenda del Male è il suo ripetersi, sempre uguale, nei secoli dei secoli. Non che rimpianga qualcosa circa il mio lavoro ma forse non credo più nel suo senso. E’ in me, ma come un aculeo intellettuale, un gioco di enigmi di cui si compiace la mente e solo in parte il cuore, l’Anima. Non pensi ad Anna. Tutto è davvero impossibile e dopo tanto tempo saranno morti non solo l’assassino ma anche i suoi figli. Lasci ogni cosa in pace, nel silenzio.”

 

Tacque e poi riprese:

 

“Mi piacerebbe avere quel libro, lei crede che…”

 

“Ma certamente Bruno, scriverò più tardi a mio marito e quando lo farò aggiungo il suo nome sul sito dove da domani potrà scaricarlo con questa password.”

 

Si alzò per scrivere qualcosa su un foglietto che diede al Commissario.

 

Lui era già in piedi e si congedò:

 

“Grazie Eugenia, buonanotte. Domani pomeriggio passerò a salutarla.”

 

Lei ci sarebbe stata, partiva solo il giorno successivo.

 

Toccando il primo gradino della scala lui sapeva già ogni passo che avrebbe compiuto.

 

Si coricò volentieri, pensando, e si addormentò.

Il mattino successivo, con il caffè caldo ancora davanti, scaricò il libro.

 

Stampò su un foglio la foto di Anna e la pose davanti a sé sul tavolo.

 

La guardò a lungo, poi si risolse e scrisse:

 

“Anima mia, devo vederti. Dimmi se posso essere da te domani nel pomeriggio. En sof or. Io.”

 

La donna rispose a sera.

Era sola, nessuno dei ragazzi, sì, poteva venire a casa.

L’indomani prese il primo treno per Trieste dove arrivò all’ora di pranzo: il ristorante, poi lungo il Molo Audace, il mare, il vento che allontanava ogni peso.

Si incamminò verso casa di lei.

Forse sei anni, dall’ultimo incontro, pensò il Commissario.

Nell’elevatore guardò il suo volto nello specchio: così vecchio, carico di peccati e di cose sbagliate.

Ma mai per lei, Cristina.

Quando aprì la porta e lo fissò con quello sguardo carico di dolcezza e di vertigine lui provò come ogni volta il desiderio di inchinarsi.

Nulla tra di loro aveva mai parlato solo il linguaggio della carne, dell’amore che vibra senza consistere: una Luce, una presenza bagnava anche ora di Sé le pareti della stretta anticamera e ogni cosa.

 

Lei disse calma: “Anima mia.”

 

Sedettero. Il Commissario le chiese dei ragazzi, della loro vita.

E di lei: andava tutto bene?

La guardava: il viso chiaro e affilato, le mani dalle dita sottili e nervose oramai macchiate dagli anni.

Con quelle  e non con gli occhi,  pensava il Commissario, lei vedeva.

Un giorno tanto lontano l’aveva conosciuta: un banale furto in appartamento.

Aveva un marito e tre figli.

Lei iniziò a vederlo, nelle notti.

Stavano, insieme, sotto un albero, un mandorlo, in una Luce assoluta.

Una voce le diceva parole che lei ripeteva.

En sof or, nella Luce senza fine.

Le’olam va’ed, per l’Eternità.

Jadà, Amore.

Ben Gilgul, il figlio del tempo.

Tehom, l’abisso.

In quell’altro mondo lei baciava la sua gola e gli occhi, il Commissario incideva con una lama lettere sul suo polso e poco sotto il cuore.

Contavano gemme su pettorali a terra in attesa di essere indossati, nominavano le Sefiroth come stelle, venivano sfiorati da Angeli delle schiere più alte.

Tutto sarebbe per sempre rimasto un mistero per Cristina, donna di cultura modesta, salvo la consapevolezza di essere una sola cosa con lui.

Lui non la raggiunse cosciente, in quell’altrove, che poche e confuse volte.

Per il resto conosceva le sue notti, ciò che lui stesso agiva, ciò che lui stesso era, solo dai resoconti di lei.

Cosa sapeva vedere?:  la loro unità essenziale.

Il cristallo  attraverso il quale la Luce del Supremo riusciva ad apparirle era quello di Israele: simboli, lettere e linguaggio.

In questo modo Cristina diceva all’ebreo Bruno Dolano: io ti appartengo,  qui e sempre,  come ti sono appartenuta in mille altre vite.

Così tutto trovava un senso profondo che non doveva produrre nulla: era sufficiente ricevere, contemplare, pronunciare.

Al meraviglioso basta mostrarsi.

Lei non lasciò mai la famiglia.

Oltre che in quelle notti luminose, non si videro che qualche volta.

Era una veggente dal potere assoluto: un nome, una foto, un’allusione le rendevano possibile conoscere la storia, il destino, la cifra di un uomo.

Il Commissario tentò diversi esperimenti.

Cercava di capire, di dominare il potere di lei, di usarlo per il suo lavoro.

Un giorno le chiese di pronunciare per sette volte – lui lo aveva immaginato al momento e divenne un dei loro metodi – un nome: Alexei Sultanov.

Si trattava di un giovane pianista russo che il Commissario amava e che era morto giovane dopo un ictus.

Per anni, il lato sinistro paralizzato, aveva suonato con una sola mano.

Lei stette malissimo: un forte formicolio al braccio sinistro le durò per giorni, tanto che il marito dovette portarla in Ospedale.

Lo aiutò nelle indagini due volte.

Lui riuscì a fare passare per colpo di fortuna, per intuizione bizzarra, ciò che gli aveva permesso di risolvere il caso.

Senza le sue visioni non sarebbe  mai riuscito.

Quando vedeva Cristina provava freddo, si indeboliva, a volte sveniva.

I giorni successivi non mangiava, accusava assenze e paure.

Era pericoloso, soprattutto quando le visioni avvenivano durante il giorno, con i figli piccoli  in casa.

Quando lei si spostò in un’altra città continuarono una corrispondenza rara e accorata, mentre Cristina continuava a vederlo, nei mondi sottili, ogni notte.

Là nulla sarebbe mai cambiato.

 

“E’ per qualcuno, vero?”

 

“Sì.” – rispose il Commissario.

 

“Giustizia, Luce sui dimenticati. E’ un momento giusto, ora. Sono tua. Non ho paura. No.”

 

Lui aprì la busta che aveva lasciato sul tavolo e ne tolse la foto.

 

“Anna. Sette volte il nome, sette volte. Un piccolo paese sul lago.”

 

Lei – non aveva ancora guardato l’immagine – disse: “Non voglio che resti, prendi una camera o tornatene a casa. Io ti scriverò. Domani.”

 

“Anima mia.”

 

Prese una camera in una piccola pensione all’isolato successivo e l’indomani il treno per Milano.

Passò il pomeriggio ai giardini di Villa Reale.

Camminando,  guardando i calmi specchi d’acqua, i cigni che vi si muovevano lentamente come incantati.

Attendeva, come chi attenda una telefonata che dall’Ospedale gli annunci la nascita di un figlio.

A sera, dopo cena, giunse sul suo computer la risposta di lei:

 

“Una donna. Ha una stella sulla fronte, è rovesciata, non è come la nostra. Algol. Cerca Algol. Non è lei che l’ha uccisa ma ha governato tuttto. Tante volte. Algol. La allatta con il sangue ma lei non è più una neonata. E’ orrendo. La costringe. Una grandissima stanza scura, c’è un rumore insopportabile, battono metalli contro metalli. L’aria è piena di dardi di fuoco. E’ l’Inferno? Un ragazzo guarda tutto questo, non lo sopporta. E’ la sua casa, lui abita lì. Stringe le mani sul collo di lei, gli occhi si gettano fuori, le cartilagini del collo che cedono. La lingua fuori dalla bocca, lui la bacia. C’è una scatola dentro un’altra scatola. Di ferro. Lei è là dentro e guarda il cielo. Di nuovo scintille di fuoco, tutte intorno a lei. Poi silenzio. L’acqua è fredda e sempre uguale giorno dopo giorno. Silenzio.”

 

Quindici minuti dopo il primo giunse un altro messaggio:

 

“Quattro grandi lettere, che stanno sopra tutto: R O T A. Ora ho freddo e devo stendermi. Credo di dover vomitare. Spero basti. E’ difficile. Tua.”

 

Il Commissario iniziò subito a lavorare.

Prima dell’alba aveva tracciato il suo disegno.

 

Avrebbe dedicato quel giorno alla riflessione sulle sue note e il giorno successivo sarebbe partito.

In missione, come una voltà, pensò.

Aveva già inviato una richiesta di prenotazione ad un albergo in quel piccolo paese.

 

Il paese di Anna. E di Eugenia, Luisa e Alberto.

 

Riprese le sue considerazioni. Algol era la stella fissa più nefasta del Cielo, stella di violenza e di morte. Il suo nome significava Satana.  Ogni dodici ore la sua luce aumentava e qualcuno sulla Terra uccideva. Nessuno recupererà mai l’ora di quell’assassinio ma avvenne nell’ora di Algol. Cristina aveva visto la Stella presiedere l’uccisione della bambina. Era difficile distinguere nelle visioni tra momenti simbolici e visioni della realtà come questa era accaduta, semplicemente per il fatto che per lei, la veggente, non esisteva alcuna differenza. La grande stanza scura piena di dardi di fuoco era una visione metafisica? Rappresentava il paesaggio interiore dell’uccisore? Un ragazzo. La parola Rota. Molte altre volte Cristina aveva visto lettere e parole di lingue antiche e perdute muoversi nel cielo, scriversi sul proprio corpo o sulla fronte degli uomini nelle sue visioni. Forse la parola muoveva alta, lenta e perfetta nel cielo così come è del destino di tutto, tempo, vittime, assassini, Universo. Simbolo del Cerchio dell’Uno, che tutto include.

 

Quando arrivò alla pensione era sera.

Disfece la sua piccola valigia considerandone l’ordine.

Ordine e semplicità erano importanti, lo avrebbero aiutato.

Cenò in una trattoria dove si trattenne a lungo, lavorando sul portatile per un po’ di tempo.

Al mattino ottenne dalla municipalità, compilando una semplice richiesta, il certificato di nascita e morte di Anna.

Ecco i due giorni, la luce e il buio.

Meno di sei anni.

Identificò la casa della  famiglia dalle indicazioni e dalle immagini del libro di Eugenia, che aveva con sé.

La grande casa era stata divisa in alcuni appartamenti, forse negli anni settanta.

Percorse la costa del lago lungo il paese, si spinse sino alle località vicine.

Era una magnifica giornata di Maggio.

Respirava, cercava l’attimo dell’intuizione.

Al tramonto, stanco, tornò vicino alla casa della famiglia.

Vide un grande spazio aperto poco distante e vi entrò.

Era un centro commerciale, di quelli che oramai fanno dappertutto, anche nei paesi più piccoli: una larga via centrale con tavolini all’aperto, ai lati porticati con locali e negozi.

Gli edifici in mattoni erano vecchi, forse dei primi del novecento.

Erano restaurati con un gusto che il Commissario apprezzò.

Si sedette ad un tavolo ed ordinò un calice di vino.

Pensava a come avrebbe proceduto.

Guardò l’ edificio davanti a lui, alte e strette finestre che ora servivano due piani e un tempo un’officina o un magazzino.

Appena alzò gli occhi vide in alto, enorme, nera sui mattoni rovinati, mantenuta dai restauratori, la scritta: “M. ROTA & figli.”

 

Ecco il velo alzarsi.

L’antro scuro, i dardi di fuoco di Cristina.

Il ragazzo l’aveva uccisa nell’officina. Un giorno di festa, forse.

Lui vi andava spesso e ciò che vi accadeva  – i forti rumori, le scintille di fuoco, i fiumi d’oro dei metalli in fusione  – ne accendeva la nascente follia.

Dopo, il corpo di lei in una scatola di ferro  nera, di quelle  per le barre metalliche.

Chiudila, saldane gli angoli, lo sa fare.

Basta una carriola su ruote, la sera buia e le rive frastagliate del lago.

Lascia cadere, lascia tutto.

 

Al mattino successivo trovò nella Biblioteca comunale alcuni dati.

Fonderia e Fabbri “M. Rota & figli”, una delle grandi aziende storiche del paese, fondata nel 1876 dal capostipite Michele, guidata poi dal figlio di lui, dal 1930 dai figli Giovanni e Mario. Nel 1975 la fonderia chiuse l’attività e i grandi edifici del complesso rimasero così per decenni. Vennero poi acquistati dal Comune e ristrutturati alle fine degli anni ottanta. Su un libro, la foto di un gruppo di uomini davanti all’edificio principale.

 

Alla bibliotecaria, una signora cortese e in età, chiese della famiglia Rota.

Possedeva mezzo paese.

Mario, l’ultimo a mandare avanti l’azienda, era morto da diversi anni.

Nell’immobiliare, i suoi figli.

Una sorella, non so quanti figli.

Giovanni, l’altro fratello non c’era mai stato molto con la testa.

Una debolezza di nervi. Ricorrente, nella famiglia.

Mai lavorato nella fonderia.

Lui, lo seppe immediatamente, aveva ucciso.

Lo conoscevano tutti: quasi novantenne viveva nella Casa di Riposo del paese, la S. Giuseppe.

Il Commissario chiese dove si trovava.

Salita Cappelletta.

 

Lui avrebbe atteso l’indomani.

Alcuni eventi potevano accadere solo nella luce del mattino.

Non c’erano orari di visita fissati e vide molti parenti.

All’infermiera disse se poteva salutare Giovanni Rota.

Lui era Bruno Dolano, un amico del fratello. Doveva lasciare un documento?

Lei rispose che non era necessario e lo guidò.

Il reparto azzurro, sul retro dell’edificio, la vetrata del soggiorno dava su un giardino chiuso da un basso muro di pietra.

Le indicò l’uomo.

Stava, solo e come acceso dal sole, sulla sedia a ruote accanto a un tavolino rotondo, il viso torto sulla spalla destra, una coperta sulle gambe.

Lui si avvicinò e si sedette.

Alla sua destra in modo che lui avesse potuto vederlo senza muovere la testa.

Lo guardò, gli occhi  dall’iride opaco erano ancora vivi, inquieti, una grande massa di capelli bianchi.

Sul volto, chiarissimi, i tratti dell’antica follia.

Il labbro inferiore gli tremava leggermente.

Sembrava che una mano invisibile gli premesse il viso contro la spalla, da un lato.

Rispose al suo saluto.

 

“Venti minuti al pranzo.” – disse una voce di donna.

 

Il Commissario aprì allora la sua cartella e ne tolse la foto della bambina.

La tenne tra le mani e la mostrò all’uomo.

Disse due volte: “Anna.”

Lui serrò gli occhi, come  se qualcosa lo avesse abbagliato.

Li tenne chiusi a lungo, poi iniziò a biascicare debolmente una frase.

Gli accenti cambiavano ogni volta, sulle parole.

Il Commissario non riusciva a comprenderla.

Accostò l’orecchio, vicinissimo alla guancia di lui.

Allora udì: “I suoi capelli d’oro, i suoi capelli d’oro, i suoi capelli d’oro…”

Dichiarava così – ancora adorando la bambina – il Male per ciò che era, qualcosa che non era al suo posto e che la Luce più alta avrebbe un giorno redento.

 

Rimise la foto nella cartella  e se  ne andò.

La Verità. Settant’anni dopo.

Eugenia avrebbe scritto prima o poi ma lui non le avrebbe detto nulla.

Così giusto nel segreto dissolvere il nero, riguadagnare quel luogo alla luce.

Solo per questo lontano nello spazio e nel tempo qualcosa, forse il destino dei nuovi nati, un gesto, un agire dell’Anima, sarebbe avanzato nel chiarore con più forza.

Forse Irène,  nel cui cuore bruciava qualcosa del destino di Anna, avrebbe trovato un poco di pace.

L’indomani pomeriggio fu di nuovo a casa.

Attese l’ora più scura e calma della sera per scrivere  a Cristina: “E’stato fatto. Luce sui dimenticati. Le’olam va’ed.”

 

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28 commenti »

  1. Il racconto sembra scritto bene però è talmente denso di nomi e fatti che, ahimè, sono arrivata a metà e mi sono arresa. Pigrizia? Forse. Però, a parer mio, andrebbe sfrondato qua e là. Per adesso il segreto di Anna mi sembra insoluto.

  2. racconto straordinario. Cristina e il “vedere”, Luce sui dimenticati. Con le mani macchiate dagli anni e non con gli occhi la Veggente davvero “vede”: questo mi è piaciuto enormemente. giannino

  3. Miodio Bertino come credi di leggere come risolto il segreto di Anna se non leggi sino alla fine? Ne hai di pretese.In ogni, caso per averti dalla mia parte come è cosa buona e giusta e per muovere le acque, ho postato un secondo racconto “L’Angelo Pahaliah”. Se il sito lo appiccica su lo faccio partecipare al concorso e attendo il tuo commento. Ciao. Fairendelli

  4. Non te la prendere, quando mi sarò armata di coraggio e pazienza, leggerò il racconto da capo e arriverò in fondo al mistero. Quello però che ho cercato di dirti, è che il racconto, pur se ben scritto, è troppo carico di nomi e fatti e, come nel mio caso, può scoraggiare il lettore a proseguire nella lettura. A me piace uno stile più sintetico, ma questo, naturalmente, è solo il mio parere. Aspettiamo il parere degli altri utenti.

  5. per me va bene tutto, basta che non si tocchi la qualità suprema del racconto. al primo commento negativo io non me la prendo, spacco il PC con un pugno. poi distruggo la stanza e i vicini devono chiamare i carabinieri. scherzi a parte spero mi appendano anche l’altro racconto, e allora la vedremo, cara bertino. 🙂 fairendelli

  6. grazie giannino (ma come e cosa diavolo scrivi con un nick cosi?) purtroppo la bertino non è d’accordo. trova troppi nomi propri (ce ne sono 19, nel pezzo e dire che non chiedo di memorizzarli alla rovescia) e le sfugge che la Veggente, come è chiaro per chi si accosti dopo le prime righe al racconto come a una fonte di acqua chiara, davvero esiste. come Dolano. fanno solo un’altra vita. mò ci pubblicano L’Angelo Pahaliah e vediamo che ci dice la stessa bertino. fairendelli

  7. Molto bello. Il racconto all’inizio, in effetti, può risultare un po’ difficile, ma poi si fa divorare. Lo preferisco a “L’Angelo Pahaliah”, molto affascinante e visionario, ma forse più “contorto”. Poetica la parte che descrive l’amore tra il commissario e Cristina, la scrittura, infatti, sembra un “ibrido” tra prosa e poesia. Efficace. Complimenti.

  8. Inizia la guerra! Lo sapevo che finiva così. Ricevo da un concorrente un msg privato in cui mi si ricorda che non è possibile concorrere se la scrittura è aiutata, come nel mio caso, da una Veggente. Ora vorrei ricordare alcune cose: 1) Il Regolamento non lo vieta. 2) La figura della Veggente (o passiva spirituale) è sempre esistita nell’esoterismo occidentale e se per una volta, dico una, questa aiuta un povero minatore che lavora 8-10 oer al giorno sotto terra e non vive nella bambagia vorrei capire dove sta il problema. 3) Occorre farsi un paiolo così, in centinaia di vite, per meritare la vicinanza della propria Veggente. Ce le si merita, non le si paga per aiutarci. Grazie 🙂 🙂 🙂 🙂 🙂 Emilio Michele Fairendelli

  9. caro fairendelli, te lo dovevo, te lo dovevo proprio. e così ho letto il tuo racconto. premetto che mi piacciono molto le inchieste di commissari, e questo racconto è anche una inchiesta di un commissario. mi sono piaciute le idee, gli spunti. ma ogni racconto per me deve avere un suo ritmo, una sua musica interna. qui invece mi pare a tratti troppo telegrafico, slegato, altre volte troppo denso o sintetico. non è per nulla facile trovare un ritmo, dare una musica ad un testo. è quello che cerco sempre di fare come operazione finale, dopo l’ideazione e la prima stesura, e quindi lo so bene. ma in definitiva c’è della qualità, ci sono riferimenti alti, delle immagini molto evocative, delle idee e tutto ciò rimane in chi legge. forse andrebbe ampliato, la forma racconto breve gli va stretta. ciao! EVK

  10. spacco il pc con un pugno ad ogni commento che non sia entusiasta. dal profondo. mi vuoi così male, heinrich? CEMF

  11. Mi fai imbestialire Heinrich. lo stile troppo telegrafico! leggi il mio racconto “Il figlio dell’uomo” e piega il ginocchio a Cristina e al bambino morto. C’è qualità? C’è qualità nel racconto? Piega il ginocchio! CEMF

  12. Heinrich…hai piegato? 🙂 CEMF

  13. Dammi conferma della piegatura in giornata, te ne prego. Dalle 18 sarò di nuovo in osteria e potrò collegarmi. CEMF

  14. Ringrazio Fairendelli, ma soprattutto è mio marito che lo ringrazia.

  15. 🙂

  16. intendevo dire che mi critichereste anche quando dovessi dire: “mi passi il sale?” vi conosco oramai… 🙂 CEMF

  17. …bello, Cavaliere….bello davvero questo racconto. Potrebbe essere un soggetto ideale per un film! Complimenti. Devo dire anche che, mi divertono le vostre scaramucce, a fondo pagina…;-)

  18. grazie eleonora. occorre tuttavia fare di più. amare di
    più i miei racconti e i loro protagonisti. la mia analista fa i quiz e se mi dice: amore? io rispondo: incolmabile. legga l’ultima stanza o la scelta di adana o nel bardo. dio sarà ben contento di questi miei pezzi no? o è fuori? 🙂 CEMF

  19. Ho letto il tuo racconto fino in fondo! Ho superato gli ostacoli di un ritmo bizzarro, ho ricomposto le parentele molteplici ed ho scoperto che fine ha fatto la piccola Anna. Molto bello, e coinvolgente. Alla fine si corre dietro il commissario per scoprire la verità.

  20. grande bertino un commento tiepido e fragrante come pane appena sfornato. il mio schemino con freccette circa le parentele molteplici l’ha aiutata ma non è questo il punto. il punto è che bertino è ora ben disposta verso l’universo fairendelliano. cazzo doveva dirla questa cosa del ritmo bizzarro. bertino troverebbe qualcosa da ridire anche sul principe azzurro chino con un certo vigore su di lei nella penombra della stanza mentre la luna batte con i suoi raggi ai vetri. è fatta così. comunque ha ragione. c’è un difetto nel tempo troppo veloce in cui dolano decide di andare al paese per scoprire la verità su anna. ho già modificato. per il resto il racconto è una vetta. gli errori – tipo questo del tempo – li compio io. io solo. la verità del racconto si deve alla veggente, a maria cristina. senza di lei io sarei ancora a scrivere alla moccia. è questo in fondo il valore aggiunto che porto qui. e verrò, vivaddio!, premiato. saluti. 🙂 CEMF

  21. Un commissario in pensione che non ha perso la voglia di risolvere casi complicati avvenuti decenni orsono. Inizialmente avrebbe voluto desistere ma poi, corroborato anche dall’aiuto della veggente Cristina, riesce a far luce su un caso irrisolto. Un racconto nel suo insieme interessante, richiede concentrazione nel memorizzare le descrizioni talvolta poetiche riguardo le relazioni tra i vari personaggi. Le parole rendono bene l’idea del forte legame che si ricrea fra il commissario e Cristina ogni volta che si incontrano nuovamente. Mi sembra un racconto intenso, a tratti visionario, che si può riuscire a capire meglio rileggendolo una seconda volta.

  22. Scusa Giorni ma sei nuovo di qui immagino. Se tu scrivi “Un racconto nel suo insieme interessante…” io prendo il PC a pugni. Lo spacco, capisci. Il problema è solo mio, perchè tu hai tutto il diritto di apporre i tuoi commenti costruttivi. Però io non posso spaccare un portatile al giorno, ho le mani già bendate e devo farlo ora con la testa. Ti prego su queste cose di interfacciarti con Fiore, che ha a cuore la mia salute. Rileggi il pezzo, te ne prego. Leggerò il tuo va bene? 🙂 CEMF

  23. C’è un’atmosfera di fondo che punta molto sul misticismo, le visioni di Cristina vengono descritte con molta enfasi. Il lungo formicolio al braccio sinistro che l’ha tormentata per settimane sembra come un giusto segnale d’allarme, in certi momenti è come se Cristina entra troppo in simbiosi con Bruno Dolano. Poi mentre continuavo a leggere il racconto mi sono venuti spesso in mente dei flashback dal film “Il miglio verde” Anche li la vittima era un’anima innocente di pochissimi anni, anche li c’era un’atmosfera magicamente visionaria che introduceva a tratti con garbo, a tratti con durezza, lo spettatore dentro al processo di scoperta della tragica verità.

  24. Grazie per il secondo commento, in particolare per la chiusa. Il formicolio al braccio sinistro non è un segnale d’allarme (infartino?) ma solo il raggiungere Alexei Sultanov nella realtà spirituale del mondo e viverne una parte di destino, l’ictus e la paresi. Totalmente sbagliato, consentimi, è: è come se Cristina “entra” troppo in simbiosi con Dolano. Certo che di questo si può morire ma certe cose le vuole Dio. Il Potere viene ricevuto, costa fatica e dolore e viene totalmente regalato dalla Veggente – che non lo cerca e non lo vuole ma lo assume esattamente come una malattia, a chi le sta accanto e al mondo. Ogni onore a Lei, dunque. Anche perchè meno simbiosi meno rischio di Anna non avremmo mai saputo una madonna di niente, o no? 🙂 CEMF

  25. Racconto o quasi un romanzo? o forse un “giallo”
    Comunque sia mi ha intrigata molto … atmosfera, sentimenti, ricerca della Verità anche attraverso l’extra sensoriale (che esiste davvero). I protagonisti sembrano figure reali (e forse lo sono …). Complimenti!

  26. Grazie per il commento, anche se avrei preferito una tonalità più entusiasta. 🙂 Senza quello che lei definisce l’extrasensoriale questo mondo del cacchio cesserebbe di esistere all’istante. La Veggente è ovviamente un personaggio reale e figura in molti altri miei racconti (L’ultima stanza, Eugenia Tajka, Cristina dei morenti). CEMF

  27. bello questo racconto. alla fine, col vecchio acceso dal sole nell’ospizio bisognerebbe trovare il
    modo di fare passare due concetti: 1) chi compie il Male drena per noi una parte di questo e ci salva, 2) il commissario agisce come in boia mostrando la foto di anna e il vecchio dovrebbe in verità rispondere: qualcuno doveva pur compierlo, il Male. chi ha orecchie od orecchini per intendere, intenda. 🙂 CEMF

  28. come un boia

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