Premio Racconti nella Rete 2013 “A Roma, una sera” di Emanuele Vacchetto
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2013Alessandro Marchionati, che la Madre divina ti aiuti e sia con te.
Alessandro è ricoverato da stamattina in gravissime condizioni al neurochirurgico del San Camillo. Qualcuno lo ha picchiato e gli ha sfondato il cranio a Testaccio nella notte di ieri.
Io Alessandro l’ho incontrato. Avevo accompagnato Anna Paola, dopo essere stati da Paola, all’autobus alla stazione Termini. Lì, dopo che ho messo Anna Paola sul suo autobus, stavo aspettando il 75 che mi riportava a Monteverde. L’ho visto, quel ragazzo, seduto sulla pensilina, con un cartoccio in mano che avvolgeva una bottiglia di vino. Lui continuava a bere, seduto per terra ubriaco.
Poi è arrivato l’autobus, io sono salito e mi sono seduto. Anche il ragazzo è salito, un po’ barcollante, e si è lasciato cadere sul sedile di fronte, in fondo a una vettura semivuota.
Ha bevuto un’altra sorsata di vino, ha tappato la bottiglia con un tappo di plastica ma fatto come un tappo di sughero, segno certo di vinaccio, e si è messo comodo. Dopo qualche minuto già era addormentato e russava con la bottiglia avvolta in un sacchetto di carta, stretta fra le ginocchia.
Era proprio di fronte, lo guardavo e fra me pensavo: povero ragazzo, giovane, bello ma già sfiorito per tristezza, per disperazione, per non so cosa. Potrebbe essere mio figlio, o me stesso di anni fa, pensavo. In genere non ci penso, credo che la gente ognuno abbia il suo destino.
Anch’io chiudo gli occhi e ripeto la mia preghiera: Om Gam Ganapataye Namah, dieci venti cento volte, dipende dalla lunghezza del tragitto. Chissà cosa direbbe la gente che mi trovo accanto in autobus, in treno, in aereo sapesse che per ore e silenziosamente prego con amore un dio dalla testa di elefante con una zanna spezzata. Come potrei spiegare che non è meno simbolo di quanto non lo sia la loro croce, ma senza tutto quel sangue?
Via Cavour, il Colosseo. A un certo punto uno schiocco forte e secco, qualcosa mi colpisce in fronte. Apro gli occhi, anche lui apre gli occhi. Il tappo di plastica è saltato via, mi è finito in faccia ed è caduto. Il ragazzo farfugliando si scusa. Io rido, fa niente, mi chino, raccolgo il tappo e glielo rendo.
Se quel tappo non fosse schizzato come animato da una sua propria volontà, il ragazzo forse avrebbe saltato la fermata di Testaccio e si sarebbe svegliato al capolinea del 75, magari buttato giù da un autista notturno stanco e nervoso. Si sarebbe trovato solo e frastornato nella notte, in un quartiere buio e silenzioso com’è Monteverde Vecchio di notte, al freddo di gennaio, imprecando. Ma adesso sarebbe in salvo, a casa sua.
Invece il tappo è saltato, mi ha preso in testa, è caduto, io ho riso, il ragazzo ha aperto gli occhi, ha visto che il vicino non era ostile, ha sorriso timidamente, ha detto: “È vino buono…”.
“Eh, già…”, lo rassicuro.
“Lo fa mio zio. Io ci lavoro con mio zio. Fa il contadino”.
“Bello! I contadini non ci sono più…”
“A Sezze, Sezze Romano, è mai stato?”
“No, però ho conosciuto una volta una baronessa di Sezze, giocava, si è persa tutto…”
“Io faccio delle cose al cinema, piccole”
“Ma va’?, bello…”
“Ho fatto un film con Leonardo di Caprio”
“Ma va’?, bello…”
“Il vino è buono perché lo fa mio zio. Mette i tappi di plastica perché il sughero costa. Però è buono…”
Tira giù un’altra sorsata e fa per rimettersi a sonnecchiare, poi guarda fuori, abbiamo passato la Piramide, siamo a via Marmorata, al Testaccio. Lui neanche saluta, balza su, e si precipita verso le porte che già stanno quasi per chiudersi. Le oltrepassa e scende nella notte. L’autobus riparte.
A Roma la gente parla, capita in continuazione di trovare ubriachi noiosi nella notte ma, per qualche motivo che non so il vuoto di fronte mi fa tristezza, fa freddo, Roma non vale niente col freddo, non è la sua stagione. Anch’io arrivo alla mia fermata, scendo, un freddo di merda, il meglio è starsene di notte a casa a guardare la televisione pensando ad altro e poi dormire.
Il mattino dopo vado al baretto di Natalino a Via dei 4 Venti, prendo il caffè, sfoglio il giornale a disposizione dei clienti, niente di nuovo, cioè non vedo niente di nuovo, esco, faccio le mie cose.
La sera alle sette vedo che manca il pane. Esco a comprarlo, passo di nuovo davanti al baretto di Natalino, mi fermo per un altro caffè.
Il giornale è ormai gualcito e abbandonato in agonia sul tavolino, dopo essere stato sfogliato da decine di clienti. Distrattamente lo tiro su e lo riguardo, ormai poco attraente se non per svagati e distratti come me.
“Ragazzo trovato col cranio sfondato. Un passante ha chiamato all’alba la polizia. In rianimazione al neurochirurgico del San Camillo. Alessandro Marchionati, di Sezze Romano, è stato aggredito nella notte al quartiere Testaccio. I famigliari lo descrivono come un bravo ragazzo, che lavorava con lo zio picolo produttore di vino locale. Aveva lavorato come comparsa in cinema, nel film che Leonardo di Caprio aveva l’anno scorso girato in Italia. Le sue condizioni sono gravissime”.
Ho finito in fretta il caffè e sono uscito in questo freddo romano senza storia, dove non c’è da fare altro che aspettare che passi. Oh il bel freddo invernale di Torino, così secco e pungente che ti fa lacrimare di piacere ad ogni boccata d’aria! Perché, e cosa c’entro io? Qual è il messaggio? Quale il segnale? Che cosa devo imparare da questa storia? Perché le storie non vengono mai per caso. Se sei a quel 75 lì, è perché è lì che devi essere. Se rileggi svagato un giornale gualcito è perché lo devi fare. E se sul giornale trovi Sezze, contadino, vino, Leonardo di Caprio, la stessa sequenza che hai sentito la notte prima e si tratta di un ragazzo col cranio sfondato a botte che si è scusato con te per un tappo di plastica in fronte con un sorriso infinitamente triste, ci sarà pure un motivo.
Ho pregato per Alessandro con tutte le mie forze, ho detto e ripetuto tutti i mantra di vita che l’India mi ha insegnato, perché viva. O perché non viva, se questo lo renderà più felice. Ma qualcosa mi sfugge. Quante volte in gioventù ho girato per Roma nella notte, stanco triste e ubriaco, a volte picchiato, derubato, le costole rotte, le denunce della polizia, i risvegli inebetito e la profonda voglia di morire per uscire da questo film dell’orrore dove mai ho chiesto di recitare. Quante volte avrei potuto morire per aver sfidato da sfrontato incosciente la fragilità della crudeltà umana, fragile perché figlia della paura. Mia sorella è morta così, e non ho potuto fare altro che dedicarle una poesia, neppure piangere perché se c’è una cosa che non mi fa piangere è proprio la morte. Mi fanno piangere i cartoni animati di Heidi l’orfanella, ma la morte, quella vera, proprio no. La morte mi fa niente, c’è e basta, oppure non c’è, ma per arrivarci bisogna non avere paura.
È la paura la causa di tutto il male. Anzi, la Paura. Ora lo so, ma ce n’è voluta. E la Paura è un durissimo cristallo annidato nel cuore, ma come tutti i cristalli per fortuna basta poco a mandarlo in pezzi. A volte basta un mantra, una frase ripetuta all’infinito, fino a che è la frase che ripete se stessa mentre tu guardi fuori dai vetri del 75 il Colosseo, piazza Venezia, la sinagoga, il Tevere che riflette brutte luci di un giallo acido e sporco. Ma Alessandro non c’è arrivato al Tevere, è sceso prima, di corsa, senza neppure salutare.
Forse Alessandro Marchionati di Sezze Romano, contadino che voleva fare l’attore, è la mia figura nello specchio. Forse un mio dio pietoso mi ha risparmiato, e un suo dio impietoso non l’ha fatto. Lui, con la sua patetica bottiglia di vinaccio dal tappo di plastica, si è presentato, scendendo di corsa dall’autobus 75, davanti al suo carnefice. Di corsa, per paura di fare tardi all’appuntamento.
Vorrei andare al San Camillo, vedere come sta, confortare i suoi genitori. Rendermi utile insomma. Un tempo l’avrei fatto. Ma i tempi sono cambiati anche a Roma, la Roma puttana e generosa che mi aveva incantato da ragazzo, quasi quarant’anni fa. Oggi c’è in giro una maledetta paura. In fondo, prima del suo carnefice, forse sono stato l’ultimo a vederlo vivo, o almeno abbastanza vivo, Alessandro Marchionati. Potrebbero pensare che l’ho mezzo ammazzato io. Già me li vedo i poliziotti: “Lei chi è?, cosa fa?, come lo conosce? Che cosa ha visto? Quanti eravate?”. Vagli a spiegare che ho visto un ragazzo che avrebbe potuto essere mio figlio sull’autobus 75 in una notte di gennaio, briaco, con una specie di nuvola nera nera, un’ombra su un viso proprio bello, ma già segnato, perdìo, a vent’anni.
Così adesso sto a casa mia, triste perché non capisco le cose, non capisco i segnali accidenti, e posso solo chiedere all’elefante con la zanna spezzata che tanto vale la croce di fare qualcosa per Alessandro Marchionati, di Sezze Romano. Qualunque cosa.
![]()
Sarà perchè le origini lontane sono dello stesso paese ma questo racconto mi ha subito preso tanto. Complimenti Emanuele, bello veramente; te lo dice un concorrente.
Grazie di nuovo! Anche tu langherolo?
complimenti bis… ripeto: scrivi veramente bene
Racconto sulla vita e sulla morte che però non mi ha molto coinvolta, forse perché ne so poco sull’India e sul dio con la testa di elefante dalla zanna spezzata. Alla stazione Termini, il ragazzo sale sull’autobus barcollando, con in mano una bottiglia di vino. Cade subito addormentato e il narratore nota il suo viso bellissimo “sfiorito dalla tristezza e dalla disperazione”. Ok, fin qui tutto bene. Però poi il ragazzo si sveglia accidentalmente e si mette a conversare amabilmente del suo lavoro, di suo zio, di Leonardo di Caprio, ecc, come se fosse lucido, non più ubriaco e soprattutto sereno e garbato. Che fine ha fatto la sua disperazione? E la sua sbornia. Addirittura scende di corsa dall’autobus per non saltare la fermata. Spero non me ne vorrai.