Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2013 “Lei legge le labbra” di Emanuele Vacchetto

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2013

Tutto è partito dal fatto che da bambina ero sorda. Loro dicevano ‘sordastra’, che sembra un insulto, come ‘sorellastra’, invece è proprio una definizione medica, c’è nel dizionario. Vuol dire che non sei proprio sorda sorda, un po’ ci senti, ma niente che sia utile a sopravvivere fra i normali. Ci sono praticamente nata, sorda. Mia madre era una di quelle stupide hippies di una volta, mangiava solo carote e barrette di cioccolato e fumava pakistano nero dal mattino alla sera. Dice che una volta era andata dal medico, cioè il medico era andato da lei perché con la moto era finita in un negozio e non si poteva muovere, e poi lei e il medico erano diventati amici. Pare che al medico piacessero le rosse, e mamma aveva dei bellissimi capelli rossi, così quando passò all’anfetamina c’aveva le ricette gratis. Insomma il medico le disse che forse a fumare pakistano nero e prendere anfetamine a manciate forse poteva farle male. Certo che le faceva male, altro che forse! Ma il medico ci andava piano con la mamma, aveva il terrore della mamma, e tutti quei forse erano per non irritarla. All’epoca mamma era andata a fare shopping a Londra (dice che lì arrivava il nero direttamente dall’India e costava niente). E a Londra aveva conosciuto Elvis, un teddy-boy (allora i teppisti si chiamavano così) che girava in moto con una decina di altri delinquenti, spaccando vetrine e prendendo a catenate le vecchiette che uscivano dal Fortnum&Mason Tea Room. E dato che una delle vecchiette risultò essere la Regina Madre, al teddy-boy te lo sbattono in galera e mamma la rimandano in Italia col foglio di via. Partita pacifista allegra e tutta colorata come un arcobaleno, tornata una bestia, tutta nera, borchiata, incazzata, tossica… e incinta di me, un’handicappata. Un bel percorso. Pare il simbolo della gioventù degli anni ’60, no?

 

Una volta che ero piccola le ho detto: “Le altre bambine hanno il papà. Chi è il mio papà?”.

Lei apre un cassetto e tira fuori una vecchia foto.

C’erano un dozzina di motociclisti appoggiati alle loro moto, tutti vestiti di nero, occhiali neri, tatuati da tutte le parti che tenevano a testa in giù un benzinaio in tuta blu, con la testa in un secchio. Sullo sfondo una stazione di servizio in fiamme.

Dice: “Uno di questi, vedi tu”…

Così ne ho scelto uno, un biondino, un po’ slavato ma comunque il più bello. Io non sono mai stata bionda e nemmeno mamma, per cui difficile che quel biondino… Ma insomma, se una il padre se lo deve scegliere almeno se lo sceglie carino.

La foto poi gliel’ho rubata e l’ho nascosta. L’ho tenuta per tanto tempo fino a che, dopo che mamma se n’è andata, ho fatto stampare da un fotografo la faccia di papà, da sola, senza tutte quelle altre facce da delinquenti intorno. Volevo metterla in una cornice sul tavolino da notte, ma era troppo piccola e a ingrandirla si sgranava. Così l’ho ritagliata e l’ho messa nel medaglione a forma di cuore che porto sempre al collo.Mi aiuta, in qualche modo…

Nel medaglione c’è il posto per un’altra foto, ma è vuoto. Volevo metterci la foto di suor Amelia, ma non ne esiste nemmeno una. Allora ci avevo messo la foto di un paio di scarpe. Belle. Di Ferragamo. Le avevo ritagliate da un giornale, le portava Imelda Marcos e mi ero innamorata. Delle scarpe, non di Imelda Marcos… Poi si è saputo che Imelda Marcos era una criminale miliardaria, e allora non mi è sembrato bello portare le sue scarpe appese al collo. Poco dignitoso, insomma.

Il medico, il feticista dei capelli rossi, aveva cercato (moooolto cautamente, perché mamma menava con la catena della moto), aveva cercato di farla smettere perché il bambino, cioè io, poteva nascere mal-for-ma-to. Infatti sono nata sorda. E c’era quasi riuscito, il medico. Sembrava davvero innamorato di lei, aveva deciso di salvarla. Ma era solo un bastardo di masochista, che adorava essere frustato con una catena di moto da una tizia coi capelli rossi. Mamma lo accontentava e tutto andava per il meglio. Lei sembrava che avesse messo la testa a posto. Aveva perfino smesso di impasticcarsi. Lui voleva anche sposarla, con tutto che mamma aveva me nella pancia. Sembrava una cosa fatta. Insomma, la gente si sa cosa pensa no? Tra essere la figlia sorda di una zoccola tossica e la figlia di un medico, anche se solo delle Asl, è meglio la seconda, no?

Invece no. Sembra che una volta lui la porta alle terme di Saturnia, acque sulfuree vulcaniche a 37 gradi, il bagno di notte sotto la luna piena, tutta una cosa romantica, una volta tanto niente sadomaso… ma: sarà il calore, sarà lo zolfo, saranno le due cose insieme, succede che la tinta si squaglia. Una tinta da quattro soldi, da povere donne che si fanno la tinta in casa. I capelli della mamma diventano castani con qualche patetico barlume di arancione e, orrore!, qualche filo bianco. Figurarsi il masochista feticista dei capelli rossi, ‘sto figlio di mignotta! Sparito, il medico di merda! Lui li voleva naturali i capelli rossi, capito? Con la tinta non gli veniva duro, al maiale!

Da una parte meglio così, meglio senza padre che un padre maniaco.

Così mamma prima ricomincia a fumare e a impasticcarsi, e a impasticcare me, disgraziata che le stavo nella pancia, poi cerca di ammazzarsi con i barbiturici, e io dentro, che tanto di sicuro ero strafatta anch’io e se morivo neanche me ne accorgevo… Ma all’ultimo l’hanno salvata, e così non sono morta neppure io.

Però sono nata sorda. Cioè non proprio nata sorda. Nascere sono nata normale, dice. Ma dice che avevo le difese immunitarie sotto zero per tutto quel pakistano, le carote crude e neanche una proteina animale, così la prima cosa che mi sono beccata è stata un’infezione generale orecchie naso gola. Otorinolaringoiatrica totale. Insomma, avevo un mese di vita e una faccia così, la bocca a salvadanaio e le orecchie due aquiloni. Sembravo il Jolly, quello di Batman. Naso e gola sono poi guariti, ma le orecchie, dentro, no.

Per vent’anni sono rimasta sorda come una campana, poi mi hanno fatto una plastica dentro l’orecchio, si chiama timpanoplastica, e ho cominciato a sentire. Ma è stata dura. Magari mi potevano anche curare da piccola, se solo la stronza se ne fosse accorta in tempo. Invece niente, sempre strafatta dal mattino alla sera. Dopo un po’ ci hanno separate. Lei in galera per spaccio e io all’orfanotrofio.

Io neanche parlavo. Se non senti non parli, no? Adesso invece ci sento e ho imparato a parlare benissimo. Apelle figlio d’Apollo fece una palla di pelle di pollo, tutti i pesci venivano a galla per vedere la palla di pelle di pollo fatta da Apelle figlio di Apollo. Bravina, eh? Lezioni di logopedia. Grazie a suor Amelia.

Poi, un giorno che ero già uscita da anni dall’orfanotrofio e già collaboravo con la polizia, e per quanto ne sapevo mamma era morta e sepolta, ti ricevo una cartolina. Da Goa, India centrale. Goa, il paradiso degli hippies. Quarant’anni dopo. Totalmente regredita. Anjuna, Goa, Flea Market. Che poi sarebbe il mercato delle pulci di Goa. C’era scritto: qui si sta una favola! la mamma.

Ma disgraziata di una strafattona, c’hai quasi settant’anni e ancora vai a pakistano nero a Goa?! E soprattutto, adesso ti fai viva?

 

Però devo dire che la sordità è stata la mia fortuna. L’orfanotrofio non era male, checché se ne dica. Suor Amelia mi adorava, è lei che mi ha insegnato a leggere le labbra. Suor Amelia era stata missionaria in mezzo mondo, così mi ha insegnato a leggere le labbra anche in francese, in inglese, in tedesco e in spagnolo. Una dura. “Sei tu che devi adattarti al resto del mondo, non sperare che il resto del mondo si adatti a te!”. Mi ha anche insegnato a cucinare, cucina indiana, la sua preferita. Mi aveva dato anche la ricetta del suo favoloso chutney di datteri, una salsina piccante a base di peperoncino verde, zenzero verde e aglio. Me l’aveva dettata, l’avevo scritta, ma me la sono persa chissà dove. E lei non c’è più a dettarmela di nuovo.

Suor Amelia era un po’ maga, un po’ veggente. Roba che aveva imparato da missionaria, roba di tribù africane, o indiane, va a sapere…

Lei l’aveva visto, il mio angelo: “L’Angelo delle Lingue”, diceva. Così ha voluto che uscissi dalla mia malattia, dal mio silenzio. Diceva che c’era una frattura da qualche parte nel cuore, uno strappo, e che dovevo ricucirlo. Con dei fili di luce, diceva. E lo faceva davvero. Una cosa che se la racconto mi prendono per matta… Cioè lei si sedeva davanti a me, mi guardava negli occhi, e fingeva di infilare un ago con dei fili che acchiappava al volo nell’aria.  Matta, no?  Poi mi metteva una mano sul cuore e fingeva di cucire, come a mettere una pezza su un buco che c’era nel cuore e che solo lei vedeva. Proprio matta. Eppure dopo stavo meglio, ero più allegra, più viva. Insomma, mettila come vuoi ma funzionava. Cara suor Amelia. Diceva: “Non c’è motivo di rinunciare a una bella teoria solo perché non è vera”.

 

Così ha voluto che studiassi. E che parlassi. Oltre che sentire. E ho imparato bene, eh! Ogni tanto da sola mi esibisco. Sopra la panca la capra campa sotto la panca la capra crepa. Mica male per una sordomuta. E’ che, grazie a suor Amelia, ho fatto la scuola di logopedia. E adesso parlo. E sento. E ascolto. E guardo. E guardo quelli che parlano. Guardo le loro labbra. Leggo le loro labbra.

Perché questo è il mio lavoro, un lavoro altamente specializzato: io leggo le labbra. Le labbra dei sospettati, le labbra degli assassini, le labbra degli spacciatori, le labbra dei terroristi. Io so origliare con gli occhi. E lo so fare in una dozzina di lingue, compreso l’arabo e il basco e il tamil. La natura mi ha fatto nascere sorda, ma poi mi ha ripagato con un dono straordinario. Io ho l’Angelo delle Lingue.

Suor Amelia diceva che c’è l’angelo custode, che è l’angelo individuale che si occupa di ciascuno di noi. Poi c’è l’angelo del gruppo, per esempio se qui siamo a Roma c’è l’angelo che si occupa dei romani. Sorveglia il traffico sul Lungotevere all’ora di punta, tiene una mano in testa agli ubriachi del Testaccio il sabato sera,  cose così. E’ l’angelo che hanno solo i romani. I torinesi hanno l’angelo torinese, i napoletani l’angelo napoletano. Una volta ho visto un film, con tutti gli angeli tedeschi appollaiati sui tetti della città, un po’ tristi ma si sa, i tedeschi… insomma a sorvegliare, aiutare. Beh, è proprio così.

E c’è una gerarchia: gli angeli delle città italiane sono diretti dall’angelo dell’Italia, che è come dire il loro capufficio, e ovviamente parla italiano. E se c’è l’angelo dell’Italia c’è anche l’Angelo della Francia, quello della Germania, della Spagna, dell’Inghilterra. Insomma, ogni nazione ha il suo angelo che parla la sua lingua. Anche l’angelo dell’eschimese, per dire. M’immagino un angelo in eskimo appollaiato sopra un iglù. Insomma, ogni lingua del mondo ha il suo angelo.

Poi c’è il grande angelo capo, l’Angelo delle Lingue, quello che sa tutte le lingue. Beh, lui è il mio angelo. Ho un contatto diretto, un canale privilegiato con lui. Lui mi sussurra le lingue.

 

Tutto questo discorso per dire che io leggo le labbra in tutte le lingue del mondo. Sono un mostro. E mi chiamano da tutto il mondo. Le polizie, le squadre antiterrorismo, l’antidroga. Irlanda, America, Sudafrica, Colombia, Israele, tutto il mondo. Vado con le polizie di tutto il mondo, nei pedinamenti di terroristi, nei parchi affollati dove i signori della droga trattano quintali di coca, nei ristoranti rumorosi dove amanti diabolici si danno appuntamento dopo il delitto. Passo ore a decifrare, nel loro tremolante bianco e nero, le immagini rubate da una telecamera nascosta sopra un letto di amanti clandestini, dal parrucchiere dove la moglie di un ministro si confida con la manicure, o dietro la scrivania del presidente di una multinazionale che trama per rovesciare un governo all’altro capo del mondo. L’inudibile per me è un libro aperto. Io fornisco una colonna sonora a ciò che è terribile e muto. Ho mandato in galera decine di terroristi, di assassini, di trafficanti, di psicopatici. Non c’è accento che mi freghi, non c’è volume che sia troppo basso, o rumore che sia troppo alto. Sono una macchina infallibile di intercettazione ambientale. Sono un’arma segreta. E mi tengono segreta.  Per proteggermi. Mi chiamano Fanny, ma non è il mio nome vero. Il mio nome vero è segreto, si capisce bene perché. Con tutta la gente che ho mandato in galera, e anche alla sedia elettrica, avrei massimo due giorni di vita. Si sa che i criminali sono poco sportivi. Così sono sola, niente marito, niente figli, niente amici. Però ho girato il mondo, anche se non sono mai stata in un posto dove mi piacerebbe ritornare…

 

Ho imparato che la maggior parte degli uomini vive in una quieta disperazione… Ho imparato a conoscere la banalità del male. Ricordo una volta due ragazzi irlandesi in un parco. Non si potevano piazzare microfoni, così mi chiamano a me, col mio binocolo dietro un cespuglio. Loro discutevano su quanto Semtex serviva per la bomba, e in quale supermercato piazzarla. Passa un bambino e loro si interrompono, dolci, cortesi: “Ciao, come stai, vai a casa che è tardi, mamma ti aspetta e si preoccupa”. Ragazzi normali. E subito dopo di nuovo lì, a progettare morti nel supermercato. Li ho fatti arrestare prima che piazzassero la bomba. Gli hanno dato ventidue anni in massima sicurezza. Condannati dalle loro labbra e da me, la donna che le sa leggere.

A volte leggo terribili fantasie sessuali, progetti per fare a pezzi corpi umani, bruciarli, scioglierli nell’acido, farli sparire nei piloni di cemento armato di un’autostrada.

Ma anche banali dialoghi di vita quotidiana, la lista della spesa, l’appuntamento dal parrucchiere, cose futili che riempiono lo spazio infinito fra un crimine e l’altro.

Ci sono anche cose buffe. Una volta ero in un bar, stavamo controllando a distanza due tipi sospetti, un uomo e una donna. E invece viene fuori che parlavano di sesso. Lei, un cesso tremendo, voleva portarselo a letto, lui resisteva e beveva. Alla fine lui cede: “Ok, andiamo a casa tua”. E lei: “Forse è meglio se aspettiamo che ti passa la sbronza”. E lui: “Meglio di no. Se mi passa la sbronza col cazzo che vengo a scopare con te”. Ho riso così forte che ancora un po’ mi scoprono.

 

Poi c’è stata quella storia del traffico di droga con l’India. Insomma c’erano chili di pakistano nero che dal Pakistan passava il confine indiano, scendevano a Goa, e da lì, con dei corrieri finti turisti, arrivava in mezza Europa. I corrieri li avevano individuati, ma bisognava incastrare i capi dell’organizzazione. Così mi imbarcano su un aereo e mi portano a Goa.

E dove sta il centro di raccolta e smistamento della droga? Indovinato! Anjuna, Flea Market, il mercato delle pulci di Goa. Lo stesso della mia cartolina. Una coincidenza? No. La coincidenza non esiste. Esiste la giustizia divina, che si prenderà pure il suo tempo, ma poi arriva, accidenti se arriva!

Allora, io sto in mezzo a un gruppetto di turisti, una dozzina, tutti poliziotti. Il mercato delle pulci di Anjuna è bellissimo, in riva all’oceano. Centinaia di persone, un arcobaleno di teli colorati al vento, scialli luccicanti del Rajasthan, coperte di seta di Benares, immagini di tutti gli dèi dell’India incise nel legno di sandalo, scolpite nella pietra, dipinte sul vetro di Tanjore. La gente più pazza che puoi incontrare. Santoni nudi coperti dalle ceneri dei crematori, eremiti in penitenza con spilloni che gli attraversano le guance, giocolieri, ladri, accattoni, signore milanesi che cercano pelli di tigre per il salotto. Insomma di tutto. C’erano anche i vecchi hippies, i figli dei fiori partiti negli anni ’60 e mai più tornati, ora vecchi e rincoglioniti dall’ashish con una tribù di figli nipoti e pronipoti, tutti rincoglioniti come loro, tollerati delle autorità indiane perché fanno colore e attirano i turisti. Si fanno fotografare a pagamento dalle famiglie indiane in gita turistica. Uguale ai fieri guerrieri Masai in Kenya, ormai senza nemici da combattere né leoni da infilzare con le lance. Una generazione di stronzi insomma, partiti quarant’anni fa per l’India in fuga dal consumismo e alla ricerca della pace interiore. La maggior parte di loro è morta di malattie tremende. Quelli che avevo davanti erano i sopravvissuti, accattoni, deprimenti, patetici…

E c’era anche la mamma. L’ho riconosciuta subito. Una vecchia rugosa vestita  di veli e di specchietti colorati, coi capelli bianchi raccolti in una crocchia gigantesca tenuta su da spilloni come ferri da calza. Intorno quattro o cinque bambini, di certo i suoi nipoti, e miei nipoti, luridi e frignanti. Li accarezzava come non aveva mai accarezzato me. Sorrideva a loro, come non aveva mai sorriso a me…

E vicino c’era seduto uno dei motociclisti della foto. L’ho riconosciuto subito, anche se era anche lui vecchio e grasso, e calvo, anche lui vestito di veli e di specchietti: Elvis, il teddy-boy con cui era scappata la prima volta, convertito anche lui da picchiatore naziskin a figlio dei fiori. Forse per amore di mamma, chissà. Insomma patetico. E comunque un maiale.

Mi sarebbe piaciuto ci fosse il mio papà biondo, quello della foto che porto al collo. Ma forse lui era morto ormai, dopo tutti quegli anni.

Poi Elvis si alza, va vicino a un ragazzo indiano dai capelli lunghi e un gilet a fiori verdi e comincia a sussurrargli qualcosa all’orecchio, la voce coperta dallo strepito del mercato.

E io faccio il mio lavoro: comincio a leggere le labbra, pronta a ripetere al cellulare collegato con l’ispettore capo e col registratore piazzato in un pullmino fermo da qualche parte lì intorno.

Dunque non parlano in hindi… non è neppure gujaràti… non è tamìl… ecco sì, è bengali. Mi collego con l’Angelo del Bengali, ed ecco, in un istante capisco tutto e sono pronta a tradurre.

Io lo odio, Elvis. E’ lui che mi ha portato via la mia mamma. E’ colpa sua se sono nata sorda. E’ colpa sua se sono finita in un orfanotrofio. E il fumo c’è, la droga sta in una casa rossa sulla spiaggia, dicono. L’hanno portata via mare dal Pakistan la notte prima con un battello di pescatori, nascosta in un doppio fondo. Hanno corrotto la polizia. Dieci chili di pakistano nero.

Fregato, ti ho fregato Elvis! E anche te mamma. La lingua mi scorre chiara nelle orecchie, sopra il frastuono del mercato. Non sono un microfono io, non mi guasto, non mi inceppo, non ho problemi di fruscii o rumori di fondo. Vi ho fregati. Questa sì che è legge del karma, perdìo!

Sto per tradurre tutto, sto per mandare in galera mia madre e il suo uomo. Vecchi come sono ci moriranno, in galera. E nelle galere indiane sì che ci muori, schifose come sono.

Invece succede qualcosa. Vedo suor Amelia, seduta vicino a mia madre, in mezzo a tutto quel casino, i colori dei tappeti, le urla dei venditori, la musica battente dei tabla. Suor Amelia è morta dieci anni fa, ma ora è lì, seduta in mezzo a tutto quel casino che guarda la mamma. Poi mi sorride. E comincia a pescare invisibili fili nell’aria, uno, due, tre, a infilarli in un invisibile ago e, con una mano sul petto della mamma comincia a rammendarle i buchi nel cuore.

Dio mio, sono pazza, ho pensato.

E poi il mio Angelo del Bengali se ne va, non capisco più il bengali, non capisco più niente di cosa si dicono Elvis e il ragazzo. Non posso più tradurre, non posso più denunciare…

Sento la sua voce: “Ogni tanto bisogna seguire il cuore. E per seguire il cuore bisogna fare la cosa sbagliata”.

E allora li vedo come sono, la mamma ormai vecchia e travolta dalla vita, rifugiata in quell’angolo sperduto del mondo, dove è straniera agli stranieri. E lui, Elvis, un grasso calvo e bolso ex angelo dell’inferno, ex teddy-boy sfigato e battuto. Tutti e due più di là che di qua. Tutti e due vinti e perduti. Forse felici, chissà. Ma di una felicità rinchiusa in se stessa, priva di respiro, impossibile da condividere.

Gli occhi mi si riempiono di lacrime. Piango di nascosto, come una fontana, al mercato delle pulci di Anjuna, a Goa. E traduco al mio capo che sta aspettando dall’altro capo del cellulare quello che mi detta suor Amelia, il mio Angelo della Compassione.

E’ la ricetta del suo chutney di datteri. “Cinquecento grammi di datteri, quindici grammi di zenzero verde , sette grammi di aglio, un bicchiere di aceto, mezza tazza di zucchero…”

“Che cazzo dici?”, urla il capo. Ma io vado avanti imperterrita, mentre la pietra che avevo sul cuore si scioglie in un bagno di lacrime segrete:

“Snocciolate i datteri e poi tritateli insieme a peperoncino, zenzero, aglio, bagnando con un po’ dell’aceto. Con l’aceto rimanente e lo zucchero preparate uno sciroppo; aggiungetevi gli ingredienti tritati e il sale e cuocete a fuoco lento finché il composto è ben denso. Togliete dal fuoco, lasciate raffreddare, mettete in un vaso e chiudetelo. Servite freddo.”

 

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6 commenti »

  1. Storia fantastica ed appassionante. Fino ad ora per me la più bella.

  2. Grazie Massimo Campoli, sei molto gentile.

  3. Scrittura da professionista. Un racconto splendido, con personaggi a tutto tondo, tutti credibili nella loro assurda incredibilità. E un intreccio di emozioni da cui ci si lascia volentieri catturare.

  4. Bella storia davvero! Drammatica ma scritta con uno stile accattivante, scorrevole, spesso ironico. Concordo con Massimo: è uno dei racconti che mi piace di più tra quelli letti fino ad ora.

  5. Racconto assurdo, eccessivo, rabbioso, ironico, stravagante………in una parola: fantastico!!

  6. COMPLIMENTI PER LA VINCITA EMANUELE ! Il tuo racconto è fantastico…nel vero senso della parola e ti cattura fino alla fine! Bravissimo!

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