Racconti nella Rete®

25° Premio letterario Racconti nella Rete 2025/2026

Premio Racconti nella Rete 2013 “I due paradisi” di Rolando Lambiase

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2013

Alla scadenza della mia vita ho finalmente avuto ciò che desideravo: la possibilità di conoscere da vicino i miei idoli dei tempi remoti e recenti. Non che ne sia morto dalla voglia, beninteso. No, non sono mai stato uno di quelli che sprecano desideri e speranze in tali scempiaggini, strappandosi i capelli al concerto di tizio, bagnandosi le mutande sognando di questa o di quella, mettendosi in fila chilometrica per comprare il biglietto per il cinema o lo stadio, l’unica tappa del tour italiano della grande star planetaria. Quelli, io li ho sempre compatiti.

Il fatto è che tante volte, superati i sessanta, mi ero incaponito a immaginare se, che so io, un Battisti, un Tenco, un Sinatra continuassero a cantare anche a riposo (eterno), già che cantare era stata l’essenza della loro vita. Un usciere mi conduce attraverso una gola angusta delimitata da altissime siepi di mirtillo ben rasato di cui non è possibile scorgere le sommità. Il sentiero è ombreggiato, come si può ben capire, ma è interamente chiazzato di fulgida luce che trafigge le pareti in moltissimi punti. “Siamo quasi arrivati” mi fa, imperturbabile come un maggiordomo inglese aduso a qualsiasi tipo di richiesta. “Ecco la piazza dei grandi del pop. La lascio coi suoi idoli.”

E’ come Piazza S. Pietro (moltiplicata per un milione) la mattina di Pasqua, gremita sino all’inverosimile. All’altro lontanissimo lato una strettoia identica a quella appena attraversata, stesse pareti di mirto svettanti verso l’alto infinito: ‘sarà per coloro che abbandonano la piazza’, rimugino. Resto a scrutare la moltitudine nella speranza di riconoscere qualche volto noto: impossibile. Molti sono in piedi, parlottano e gesticolano proprio come nelle piazze dei paesini italiani la domenica mattina. Altri sono in gruppo, in circolo o estemporaneamente sistemati. In più punti noto pianoforti a coda accerchiati da figure, chitarre a tracolla di dietro e davanti. Eppure non si ode un suono chicchessia. Forse la piazza è insonorizzata ed io non ne ho ancora penetrato l’invisibile blindatura. Il primo crocchio sulla destra è totalmente in nero. Smoking e papillon. Due-tre donne, anch’esse in abito da sera, sfavillanti di lustrini e lamé, collane e diademi. Una è di fronte al pianista: bianco lui, nera lei. Lei canta Summertime, lui l’accompagna magistralmente. Ella Fitzgerald – la riconosco dalla voce, soffice come un cuscino di piume –; lui è George Gershwin (me lo suggerisce Frank, uno dei pochi chiari di pelle). Ella tira la prima parte della melodia, poi passa il refrain proprio a lui, “The Voice”. La seconda parte del brano rimbalza con la voce roca di un altro nero che stira le note scuotendo la testa a destra e a sinistra. Inconfondibile: è Ray Charles, più avvezzo di tutti alle tenebre perenni. La conclusione è ancora nera. Nat, il re Cole, fa vibrare le sue corde zuccherate e mette il punto alla canzone. Estasi divina.

L’usciere è sparito. Sarà ritornato alla soglia per accompagnare qualche altro raccomandato predestinato. Non so da dove continuare il mio tourbillon onirico. Il silenzio ritorna sovrano. Ho capito che per sentire in presa diretta, ascoltare senza i tappi che mi otturano gli orecchi, c’è bisogno di entrare nell’habitat circoscritto dei gruppi di anime. Una specie d’impercettibile membrana del suono.

Un capannello multicolore in lontananza attira la mia attenzione. Presumo che si tratti di uno strampalato drappello di Figli dei Fiori che, confesso, ho sempre invidiato e a/odorato. Mi faccio largo zigzagando per un tempo lungo ma finito. Gli artisti qui sono disposti in cerchio, forse per attirare con più efficacia gli eventuali fan-turisti. Al mio sopraggiungere il cordone suicida crea un varco grazioso e coreografico, attraverso il quale devo solo infilarmi, per poi fermarmi al centro (così almeno mi pare di interpretare gli inviti gestuali degli astanti). Basta torcere lentamente il collo – tipo giraffa scenica – per tentare di riconoscere gli anelli della catena variopinta. Di fronte vedo Hendrix, a destra Cobain, più in là Morrison e – sorpresa che mi blocca il fiato – Tenco, mano nella mano della Martini: gli unici che conosco bene per averli cantati io stesso da ragazzo. Tutti gli altri sono icone stampate nella mente, figure collettive che hanno – ciascuno a modo suo – segnato almeno un paio di generazioni. Il cuore – si fa per dire – mi riprende a trottare alla vista di una bionda mozzafiato che si sgancia dal cerchio e caracolla sensualmente nella mia direzione. E’ lei, senza (ombra di) dubbio: Marilyn. Comincia a fluttuarmi attorno, profumata come un giardino siciliano, poi mi carezza con un fil di voce irresistibilmente voluttuoso: Bye bye baby, eccetera eccetera. Qua e là spuntano chitarre rock che volentieri si adeguano al lento e suadente slow della dea hollywoodiana, io stordito e quasi etereo come loro, le star del rock assassino e suicida che ci accompagnano in coro celestiale, in netto contrasto con l’ambiente (la ‘piazza’ è una, senza dislivelli, né gironi). Non c’è verso di chiedere un bis o un pezzo da qualcun altro del gruppo. La scaletta dello show deve essere stata predisposta ad hoc. Ma non posso lamentarmene, sarei un ingrato.

L’atmosfera mi piace, non c’è che dire. Eppure mi sento un’anima ancora insoddisfatta, come se il mio vagare avesse poco senso e non cogliesse la smania vera che mi rode al fondo. Riprendo allora a errare per la piazza, che adesso mi appare senza confini, sterminata come l’acqua che ricopre il mio ex pianeta. Vago, giro, erro senza meta, nella speranza che nel frattempo lo struggimento che mi cova dentro senza un nome si dichiari apertamente (ah! che strana analogia con quel panico generato dal vuoto di memoria quando cercavo per ore la macchina parcheggiata chissà dove!).

Quando m’imbatto in un teatrino a semicerchio i cui spalti sono traboccanti di hombre immagino che uno show promettente stia per iniziare sul palco in basso di fronte. Gli spettatori sono in tunica di gala, rigorosamente bianca. Appaiono eccitati. Qualcuno mi fa cenno di accomodarmi in mezzo al pubblico. Mi indicano un posto vuoto proprio sotto la figura maestosa al centro delle gradinate che ha tutta l’aria di essere un’autorità. Oltre alla tunica ha anche una lunga barba bianca. Lo chiamano Pietro. Sul palco sopraggiungono lemme lemme due vecchietti apparentemente male in arnese, ma vispi e carichi di adrenalina. Entrambi trascinano una sedia impagliata su cui vanno a sedersi. Uno ha il mandolino, l’altro la chitarra. Non si concedono presentazioni e smancerie del genere: vanno subito al sodo, rilasciando nell’aria armonie appassionate e coinvolgenti.

Sono melodie che conosco a memoria, provengono dalle mie parti. Le avevo un po’ trascurate quando ero un capellone arrabbiato e ribelle e guardavo troppo lontano. Come gli altri giovani, del resto. Io e i miei conterranei, in questo, siamo stati ciechi e sordi. Ingrati e snob. Ci accorgevamo della bellezza delle classiche partenopee solo quando arrivavano nella Top Chart in altra lingua: Surrender (Torna a Surriento), It’s now or never (’O sole mio), Oi Mari (Maria, Marì) e altre.

Il repertorio dei due posteggiatori ‘non finisce mai’, Carmela, Reginella, Funiculì Funiculà. Fenesta Vascia, I’ te voglio bene assaje, I’ te vurria vasa’. Il santo pubblico è incantato, il Capo è annichilito, pietrificato dalle note vibranti e appassionate. Io sono un’anima in lacrime. Applausi silenziosi e convinti. Il duetto sommessamente s’inchina, strumento sorretto a due mani. Uno di loro annuncia: “Si permettite, nuje v’avimm’’a saluta’” e girano i tacchi e s’avviano dietro le quinte.

“Che fate, site pazze!” grida Pietro inchiodandoli sulla scena. “Nun vulite resta’ ccà?”

No, i due vecchietti declinano l’invito garbatamente ma risoluti. Il paradiso loro ce l’hanno già e si chiama Napule. Non vedono l’ora di tornarvi e suonare tra tavoli fumanti di spaghetti e baccalà. Quattro lacrime napoletane, due il mandolinista due il chitarrista, scivolano per i volti rigati dal sole e dagli anni. S’arrende l’audience, beata e spossata da tanta malinconica bellezza di cui è stata entusiasta testimone. E una colpevole e irrefrenabile punta d’invidia annienta il crocchio dei santi-spettatori, turbati all’idea che il loro paradiso possa essere soltanto una sede staccata del ‘Paese d’’o sole’.

Io però non ci casco. Magnifico concerto, niente da eccepire. Emozioni a non finire. Ora so dove venire quando ho voglia di un temporaneo ritorno alle radici: chissà, forse un assolo di Caruso o uno show confidenziale di Murolo padre e figlio. I due anziani posteggiatori non sono che ingenui mistificatori e inguaribili romantici. Napoli-Paradiso, nel VI anno E.F., è un’associazione per lo meno impropria, se non ingannevole. Ma tant’è: ci sarebbe voluto un altro mezzo secolo per ‘Napule è ’na carta sporca’ e ristabilire metaforicamente un equilibrio più attendibile. Non si tratterà allora, salomonicamente, del celebre e ambiguo Purgatorio, visto che latinamente in medio stat virtus esprime il meglio, cioè l’equilibrio tra il bello e il brutto, il bene e il male? Ancora no. Napule non ha mai amato le mezze misure, la mediocrità. ‘Napule è’ e basta. Non è, invece, mai stata Inferno (i Campi Flegrei sono fuorvianti), né Paradiso (uno dei Dduje Paravise di Ciro Parente e E.A.Mario): è semplicemente un’atipicità terrestre, un marchio irriproducibile, ’o paese addò tutt’ ’e parole, so’ doce o so’ amare, so’ sempe parole d’ammore.

 

 

 

 

 

 

 

 

  

     

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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