Premio Racconti nella Rete 2013 “Memorie dal giorno del giudizio” di Davide Gadda
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2013Caldo. Infernale.
L’opprimente canicola di questa fottuta città di frontiera.
Quaggiù sono cresciuto, ne sono scappato appena ho potuto e se non fosse stato per quelle quattro firme dal notaio non mi sarei mai sognato di ripassare. Ma proprio ora che ho fatto quel che dovevo e potrei essere sulla via del ritorno, cento miglia lontano o forse più, cosa diavolo mi sta trattenendo? Perché mi ritrovo in questo archivio, con una pila di carte ingiallite, roba passata?
Si, lo so. Quel passato è il mio. E forse sono solo stanco e cerco una scusa per ritardare il rientro. Del resto, ho guidato tutta la notte.
Sul tavolo, davanti a me, ho gli atti del processo. Ancora non oso aprirli.
Ricordo quando fummo convocati quaggiù. Alla Corte d’Appello del Territorio Occidentale.
Era piena estate, proprio come adesso.
Un torrido mezzogiorno, le finestre serrate.
Un bambino. Ero solo un bambino.
Soffocavo ma non fiatavo, immobile come già sapevo restare, come sul mio banco di scuola, prima fila, tante volte avevo sopportato il disprezzo di Mr. Beatback quando puniva i miei compagni, in quegli istanti mi fulminava con lo sguardo, già, perché mia madre si era rifiutata di firmare, inconcepibile per un maestro di queste parti, no Mr. Beatback, mi spiace, ma a mio figlio punizioni corporali no, non la firmo la vostra liberatoria, e da allora quando Beatback affondava la verga nella carne di un compagno la sua furia raddoppiava perché mi vedeva impassibile, eppure impassibile io lo ero solo in apparenza, in verità strozzavo i miei gemiti in gola, e intanto contavo le vergate, tre … quattro … cinque … Beatback mi urlava tratterò anche te come gli altri, anzi, il doppio dei colpi, otto … nove … io non cedevo, e così dovevo fare adesso, seduto di fronte al poliziotto, perché lui mi fissava allo stesso modo, ma io per resistere al suo sguardo contavo, stavolta i cigolii del ventilatore, quattro … cinque …, il poliziotto taceva ma intuivo i suoi pensieri, otto … , nove …., avanti, lo sai bene, piccolo sgorbio, che sei un mezzo cafro, undici …,dodici …, in fondo non è tua la colpa , quindici … sedici …., la colpa è solo di tua madre, viene dalla costa, vero? ventuno … ventidue …, tutte così, le donne della costa?, venticinque … ventisei … vanno all’università e là si mettono in testa strane idee, trentadue …, trentatré… qualcuno scostò la porta, dall’aula echeggiò un “Udite udite, udite, la Corte discuterà il caso di …”, lo sbirro fece “ Vedrai, moccioso, che tra poco tocca a te.”, “ … tutti in piedi, entra la corte, presiederà Sua Eccellenza …” , la porta fu richiusa, io ripresi a contare, quarantuno … quarantadue … quarantatré …
Infine, la porta si riaprì. Ed eccolo, il cenno che aspettavo.
Entrai.
Arrancavo, stordito dal brusio crescente, tra sguardi schifati, verdetti già sussurrati, colpi di tosse e risolini. E d’un tratto lo vidi.
Il giudice, sulla scranna. Subito mi investirono le percosse del suo martelletto, bamm!, bamm!, bamm!, mi fissava e urlava “Silenzio in aula!”. Per un istante vidi Beatback sulla scranna. O meglio, vidi il suo trionfo. E mi scoprii totalmente paralizzato.
Mi sento sudato, un senso di vertigine mi riporta precipitosamente al presente. Ho bisogno di fumare, ma frugo nel pacchetto e ricordo che è vuoto da stamattina. Impreco a denti stretti. Cerco di calmarmi e finalmente affronto il fascicolo. Adesso lo sto leggendo, leggo e ricordo chiaramente.
Qualcuno mi aveva trascinato su una sedia accanto alla giuria. Il giudice urlò di dar inizio al dibattimento. Ricordo anche il procuratore e l’avvocato, mi erano parsi affogare di sudore nelle loro toghe e nelle parrucche.
Vidi mia madre. Soffriva nel suo abito scuro, a fianco dell’avvocato, e si sforzava di sorridermi. L’avvocato si soffermava a guardarla. Che se ne fosse infatuato lo sospettavo già, e la cosa mi dava terribilmente sui nervi.
Vostro Onore, oggi non ci saremmo dovuti riunire qui, ma sfortunatamente l’evidenza del caso non è stata riconosciuta nel primo grado di giudizio … mi oppongo, Vostro Onore, è proprio per l’inconsistenza delle accuse che la mia cliente è stata a suo tempo scagionata … si chiama insufficienza probatoria, Vostro Onore, non assoluzione con formula piena, il signor avvocato lo sa bene, e pertanto siamo stati costretti al ricorso, ed esibiremo nuove prove, Vostro Onore, il signor procuratore è giunto alla discutibile decisione di convocare un minore, non chiarirà nulla e solleverà le giuste perplessità della cittadinanza, no, Vostro Onore, la mia è stata una scelta sofferta ma necessaria ai fini dell’accertamento della verità, perché il ragazzo è la prova vivente, oserei dire la pistola fumante dei reati imputati alla madre, mi oppongo, Vostro Onore, respinta, avvocato, lasci concludere il procuratore, vi ringrazio, Vostro Onore, come dicevo, prove schiaccianti lo erano già le dichiarazioni dei figli di prime nozze di Vanderwit, mi oppongo, Vostro Onore, essi non esibirono alcuna prova, le loro erano illazioni da figliastri evidentemente gelosi della mia cliente, non gelosi Vostro Onore, è tutto così chiaro, il ragazzo figlio di seconde nozze è nato, eppure nulla faceva ritenere che fosse prematuro, solo sette mesi dopo il rientro di Vanderwit, quando già era chiara da tempo, secondo le testimonianze … , illazioni, Vostro Onore, … l’illecita relazione adultera della moglie con un giardiniere mezzosangue … , mi oppongo, Vostro Onore, … un bastardo che è il vero padre del ragazzo … , mi oppongo, Vostro Onore, si imputa alla mia cliente la relazione mista con un uomo che non può essere convocato in quest’aula, poiché nel frattempo deceduto, … Vostro Onore, è mio parere che Vanderwit scoprì la tresca e perciò cacciò il giardiniere, ma per amore della moglie e il buon nome della famiglia mise tutto a tacere, cercate di capirlo, dopo anni di guerra e prigionia il suo unico desiderio era vivere il più serenamente possibile gli anni che gli restavano, del resto a casa nessuno avrebbe desiderato turbarlo, ma quando morì, i veri figli hanno sollevato il caso per pura sete di giustizia …, no, Vostro Onore, non per giustizia, ma per la spartizione dell’eredità, … Vostro Onore, a dispetto delle vane argomentazioni dell’avvocato difensore, stavolta dimostreremo pienamente l’accusa convocando, come è nelle mie prerogative, il professor Rufus per sottoporre il ragazzo all’accertamento scientifico di cittadinanza, Vostro Onore, il signor procuratore rischia di coprirsi di ridicolo, nient’affatto, Vostro Onore, ritengo solo che questo caso non debba occupare più a lungo le aule di Giustizia e chiedo il permesso di poter procedere, tre raffiche di martelletto in rapida successione, silenzio in aula, signor procuratore potete procedere.
Entrò quel Rufus e io sussultai L’avevo già visto. Qualche notte prima. In quella casa dove eravamo andati a stare, mia madre ed io, da soli. Non riuscivo a dormire, ero andato alla finestra e avevo visto mia madre aprire il cancelletto all’avvocato e a quel Rufus. Erano entrati guardandosi intorno e senza dire una parola. Mi ricordai anche della sera prima dell’udienza. Mia madre mi aveva versato una lozione sui capelli, ingiungendomi di trattenerla. Quella roba puzzava da far schifo, il tanfo mi rivoltava lo stomaco, ma avevo ubbidito e dopo un po’ mia madre mi aveva sciacquato la testa. Poi mi aveva abbracciato, mi aveva detto bambino mio non dar retta alle cattiverie che sentirai, domani sera sarà tutto finito e un giorno ce ne andremo da questo posto. Mi sorrideva e piangeva, le avevo detto mamma non piangere, anch’io voglio andarmene da qui.
Rufus si schiarì la voce, indubbiamente il ragazzo presenta labbra carnose, una mandibola e arcate zigomatiche tendenzialmente pronunciate, narici allargate, occhi e capelli neri, caratteristiche differenti dal fu signor Vanderwit, ma talvolta l’espressione dei caratteri ereditari potrebbe saltare intere generazioni, spiegatevi meglio professor Rufus, ehm, la signora Vanderwit da nubile era Lacroix di cognome, chiara ascendenza ugonotta, il suo diritto di cittadinanza è stato accertato sino alla quinta generazione prevista per legge, e mentre Rufus parlava io pensavo.
Pensavo al pubblico.
Erano in tanti, e non erano lì per sostenerci.
Rufus tossicchiò, perdonate, intendevo dire che le popolazioni del mezzogiorno francese possono risentire di remoti incroci gitani, latini o saraceni, la cui verifica, oltreché impossibile, non può certo essere prevista legalmente, e pertanto professor Rufus, il diritto di cittadinanza del ragazzo non può essere dimostrato? Mamma, perché mi hai fatto diverso? Certo, signor procuratore, abbiamo un metodo scientifico che la Corte Suprema dell’Unione ha stabilito probante, lo potrebbe illustrare alla Corte? Mamma, io non voglio essere diverso! Il test è basato sulla chiara differenza strutturale dei capelli, in termini di spessore, porosità e contenuto adiposo, tra le popolazioni ammesse e quelle escluse per legge dal diritto di cittadinanza … Mamma, perché non posso essere come loro? … un semplice pettine dirimerà la questione, comprendo i sorrisi del pubblico, ma il test è scientifico e ha valore legale … Ehi tu! Ciccione barbarossa in terza fila! Che ho di diverso da voi? … il pettine deve avere denti sottili e ravvicinati … E tu, signora biondotinta col cappellino a fiori, ascoltami! Il mio sangue è uguale al tuo! … e per provare il diritto di cittadinanza deve scorrere sui capelli senza intoppi … Non sono diverso! Ve lo dimostrerò, a tutti quanti! Ve lo giuro !
Ricordo che avvertii un vago fetore alcolico e subito dopo mi apparve una grassa faccia paonazza. Rufus, la fronte madida, gli occhialini cascanti sulla punta del naso, con una mano esibiva il pettine e con l’altra mi indicava di avvicinarmi, cosa che feci. Tremava e ansimava leggermente, penso che io solo, standogli così vicino, potessi notarlo. Appoggiò il pettine sulla mia fronte, a lato di una frangia che mia madre mi aveva faticosamente acconciato poche ore prima. Il pettine partì, scorrendo lentamente sui miei capelli, poi improvvisamente sembrò arrestarsi. Tutto in un istante, Rufus impallidì e la sua mano diede uno strappo. Uno strappo che il pubblico non vide, ma che io avvertii chiaramente. Avvertii il dolore. Ma trattenni, trattenni molto bene la smorfia. E mantenni perfettamente immobile la testa.
Il pettine riprese a scorrere, stavolta quasi dolcemente.
E mi sollevò delicato una ciocca di capelli sulla nuca.
L’archivista sta fumando. Sigarette nazionali, quel tabacco da quattro soldi che ho sempre detestato. Però a questo punto non me ne frega nulla. Ora mi alzo e gliene chiedo una.
Nota: l’identificazione razziale col test del pettine era realmente praticata nel Sudafrica dell’apartheid.
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