Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2012 “Da dove vieni” di Andrea Lepretti

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2012

Avevamo parlato a lungo. Del paese dove era cresciuto, dei suoi amici, di quel giorno non troppo lontano in cui sbarcò a New York. Di quanto era stata difficile per lui l’America e il suo idioma (mi farebbe comodo un laminato d’acciaio al posto della lingua, disse), dei suoi progetti, delle sue prossime mosse, di come avrebbe agito nei giorni a venire. Voleva tentare la sorte, voleva anche diventare Rimatore. Disse che aveva avuto un colloquio con Martin Amis, a Oxford, anche se in quell’occasione non avevano parlato né di poesia né di endecasillabi. Sarebbe diventato romanziere (in questo si mostrò più convincente). Mi raccontò nei minimi dettagli le idee che aveva partorito per le sue storie, dalla presunta fuoriuscita d’intestino di un impiegato delle poste dell’Illinois, a come potesse c’entrare tutto quel visceralismo con gli extra-terrestri e i cerchi nel grano. Oppure come una serata stellata, con il termometro che registra l’incredibile temperatura di trentotto gradi, come la febbre, potesse trasformarsi con il passare delle pagine e di interminabili descrizioni paesaggistiche del Midwest, in una serrata invettiva contro il sistema sanitario statunitense e le sue assicurazioni. Non so bene come ci avvicinammo l’un l’altro. Le poche cose che ci accomunavano erano gli occhiali (tondi con la montatura colorata) e forse anche una lieve miopia, e il fatto di ordinare sandwich all’uovo. A sentir lui, era rimasto affascinato dal mio torace a imbuto che si vede sotto la camicia, e io dissi ma che cazzo stai dicendo? e lui disse che si vede sotto la camicia il mio torace a imbuto. E allora si era avvicinato al bancone la prima volta, si era seduto vicino a me e aveva ordinato una tartina all’uovo. Non diedi retta al mio essere guardinga, gli chiesi subito il suo nome e mi presentai. Poi me ne dovetti andare, giusto il tempo di un paio di morsi; mio figlio aveva avuto un imprevisto sulla settima, una roba da teenager, una scazzottata da niente in una Manhattan ancora da meno, e non lo rividi più per due settimane, fino a ieri notte. Quando entrai nel pub era sdraiato su una panca che scriveva, lo riconobbi subito perché riuscì all’improvviso a scaldarmi il petto. Quello che ho da dirti commuoverà l’intero stato, gli interi Stati Uniti d’America e forse anche l’America Latina, disse. Caspita. Di cosa si tratta? Avanti racconta. Non qui, a casa mia, e si diede un colpo sul cuore e tossì, come se mi avesse appena invitato a danzare sulla sua pista del delirio. Perché dovrebbe piacermi? Perché dovrei essere attirata da un pazzo squilibrato di un italiano emigrato non si sa per quale fottuto motivo -per di più senza permesso di soggiorno- perché dovrei di nuovo trovarmi qui con il più disperato individuo che la Grande Mela ricordi dal 1919? È suonato più del più assolato e solitario benzinaio di un deserto dell’Arizona. Abito in una stalla, disse lui, a diciassette passi dal cielo. Mangio in uno scatolone per non far briciole. Ti ho telefonato tre notti fa, ma hai subito agganciato; non conoscevi nessun Pietro. Sono alla ricerca di uno dei maggiori scrittori scozzesi, mi disse ormai rassegnato al fatto di dovermi sviscerare tutto lì al pub (sapeva benissimo che non sarei mai andata a casa sua). Gli risposi che a dire il vero non me ne fregava un cazzo del suo scomparso poeta scozzese emigrato alle Isole Falkland, che era tardi e la mattina dopo avrei dovuto portare a passeggio certi turisti, fin sulla Statua della Libertà, e lo pregai ti tagliare corto, che mi sarei dovuta svegliare all’alba, e piuttosto, di raccontarmi come era andata a finire la storia del suo suo permesso di soggiorno. Si trovava infatti alla ricerca di due cose, una era l’opera mai pubblicata di un certo Ed Bambiy delle Isole Falkland appunto, e l’altra era la traccia di un suo antenato, anch’egli emigrato qui in America durante la guerra di secessione per combattere al fianco dei sudisti, e che trovare prove certe di questo Cinaschi suo avo avrebbe significato tanto per tutti, per tutti. Aggiunse anche che questo suo bis- o tris-nonno (non ricordo) aveva preso parte alla battaglia di Alamo nelle fila dei soldati messicani, ma come spia texana. Qualcosa non mi tornava, qualcosa mi puzzava. Avrebbe così potuto chiamare il centro immigrazione e fargliela vedere loro, suonargliele delle belle. Spiegò che avere prove certe dell’esistenza del Cinaschi d’America poteva significare rimanere a lungo a New York, e tante altre belle cose. Di fronte a lui per un istante, non posso nasconderlo, mi immaginai un sequestro. Lo vidi dare l’assalto al centro per l’impiego, lo vidi uscire con l’ostaggio trascinato per i capelli, e lo vidi subito dopo pestato a sangue e trasportato sulla camionetta della polizia, lo intravidi nella mia mente persino perdersi sulle strade polverose ai confini col Messico, con qualcosa che sobbalzava nel bagagliaio (c’è sempre qualcosa che sobbalza in un bagagliaio, di solito sono bagagli), e lo credetti per un attimo assieme alla figlia del benzinaio di un deserto dell’Arizona, sorridente, ma era tutto così confuso, non posso dire di più. Era quasi l’alba, e quell’uomo di cui ancora non conoscevo il nome parlava ancora seduto, inveiva contro il più grande complotto messo in atto dalla CIA ai danni dei viticoltori della California meridionale, narrava per così dire di quando fece l’amore con la barista che stava in quel momento dietro di noi, con la sigaretta spenta fra le dita, ma poi disse che in realtà non ci era mai stato a letto, che voleva un poco prendersi gioco di me, voleva solo farmi ingelosire. Mi disse che ormai mi amava, che con lui sarei stata la donna più felice dell’emisfero boreale. E io gli dissi che c’era un bagno. E mi lasciai trascinare fin dentro al bagno. Ci lasciammo alle sei di mattina, io andai direttamente al lavoro con la mia Ford, senza rientrare a casa, lui si diresse in bicicletta verso il confine.

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5 commenti »

  1. Non so dire perchè, ma mi piace. Questa scrittura veloce e apparentemente distratta, con discorso diretto e indiretto che si inseguono, non è male. Mi ricorda qualche autore che ho letto (forse Wallace? boh) ….. Bravo.

  2. Mi piace questo ritmo..bravo.

  3. Ho letto e riletto Da dove vieni (e lo rileggerei ancora una volta) senza sapere il vero motivo. Non mi piace, mi attira. Una storia nordamericana scritta alla sudamericana. Un paesaggio di frontiera tratteggiato sullo skyline newyorkese. Personalmente credo che D.F.W.sia confinato nell’angolo in basso a destra della libreria dell’autore, altezza calzari.

  4. Sì, direi che torna tutto. Specie il mangiare in uno scatolone per non far briciole. Si vede che c’è del talento dietro e se mai un giorno dovessi incontrarti, vedrò bene di offrirti del chinotto. Te lo meriti.

  5. Bello, bello, bello! Pero’ … perche’ Wallace e non Raimond Carver?

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