Premio Racconti nella Rete 2012 “Precariato” di Stefano Finzi Vita
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2012Dopo tanti anni di onorato servizio posso affermare che il mio lavoro, anche se duro e un po’ ripetitivo, continua a piacermi, e mi atterrisce pensare che da un momento all’altro possa finire.
Mi sono inserito in questa sede quando l’impresa era ancora giovane. Mi raccontarono all’epoca che gli inizi non erano stati facili. Tutto pare fosse cominciato con l’assunzione temporanea di un paio di giovani, per un lavoro nei primi tempi scarso e poco impegnativo. Man mano che crescevano le opportunità di lavoro, questi erano stati affiancati da altri nuovi assunti, tutti precari in verità. Solo dopo qualche anno, nella prospettiva di un’attività finalmente regolare e duratura, quei giovani erano stati un po’ alla volta sostituiti da altri lavoratori a tempo indeterminato, decisamente più maturi e referenziati (tutti ad esempio conoscevano una lingua), che avevano rapidamente messo radici in quel posto. È proprio in quel periodo che sono arrivato anch’io. Il fatto di esserci installati tutti più o meno negli stessi anni fa sì che oggi ci si conosca quindi molto bene: anni passati fianco a fianco hanno creato tra noi una innegabile solidarietà.
Di cosa ci occupiamo nello specifico io e i miei colleghi di reparto? Riceviamo e trattiamo un’enorme quantità e varietà di materiali, per lo più organici, che poi, ridotti in dimensioni più maneggevoli, vengono inviati ad una consociata specializzata nello smaltimento finale. La potrei definire una grande impresa ecologica di trasformazione.
L’ambiente dove si svolge la nostra attività è un grande stanzone non troppo illuminato. Prende luce (ed aria) da un’unica apertura regolabile, la stessa da cui arrivano i rifornimenti. D’altra parte alla semioscurità dopo un po’ ci si fa l’abitudine: conosciamo così bene il nostro lavoro che siamo in grado di farlo anche al buio.
Può capitare a volte di ricevere senza preavviso qualche quantitativo straordinario da smaltire, ma le forniture principali del materiale da trattare avvengono in genere a orari prefissati, un paio di volte al giorno. Sono momenti di grande trambusto e concitazione, in cui il coordinamento tra di noi risulta essenziale per evitare intoppi e assicurare un flusso regolare di smaltimento. Nessuno può agire da solo, ma soltanto prendendo il ritmo giusto insieme agli altri. La prima squadra che presidia l’ingresso provvede a suddividere sommariamente il materiale grezzo in grossi pezzi disuguali, che vengono poi inviati ad altre due squadre più tecniche che si occupano di ridurli sistematicamente in frammenti più piccoli e regolari. Infine un’ultimo reparto, aiutandosi anche con degli agenti chimici, trasforma il tutto in una specie di poltiglia fangosa che viene convogliata nel tubo di uscita, per essere spedita alla ditta responsabile dello smaltimento definitivo.
È un lavoro delicato, e non sempre tutto fila liscio. Delle volte succede che per fretta o distrazione finisca nel tubo di spedizione qualche frammento non sminuzzato a sufficienza, con conseguenze purtroppo assai spiacevoli. Se lo si scopre in tempo il pezzo torna semplicemente indietro, e per quell’inversione di flusso ci tocca in genere subire una bella sfuriata acida, ma niente di più. Se invece il pezzo parte così com’è, superando indenne ogni controllo, può ostruire il tubo, e allora son dolori: le rimostranze possono durare per ore.
Superate quelle ondate di iperattività però il resto della giornata procede di solito abbastanza tranquillamente: si smaltiscono con calma gli ultimi resti delle lavorazioni effettuate e si rimette tutto in ordine prima degli arrivi successivi. La pulizia nel nostro lavoro è infatti essenziale. Trattandosi di merci deperibili, è fondamentale che le scorie prodotte dal trattamento non restino in giro, magari annidate in qualche recesso nascosto. Le conseguenze sarebbero un pessimo odore capace di diffondersi rapidamente nell’ambiente, la possibilità di contaminare i nuovi arrivi, ma soprattutto quello più serio di provocare danni alla nostra stessa salute. Per questo una ditta apposita provvede senza sosta a rimuovere i residui più grossi, mentre periodicamente vengono eseguiti lavaggi accurati usando spazzole, detergenti e solventi speciali per eliminare anche le più piccole tracce. L’ambiente deve tornare ogni volta il più possibile pulito, fresco e profumato.
Pensate che ogni sei mesi veniamo tutti sottoposti a delle vere e proprie ispezioni generali, e c’è da tremare. Ognuno viene attentamente esaminato, ne viene saggiata la perdurante idoneità a questo lavoro, così come viene controllata la pulizia dei nostri uffici. Non è una pura formalità: uno che una volta non ha superato i controlli è stato cacciato in malo modo tra urli e strilli, e non è stato più nemmeno rimpiazzato. A guardare quel suo posto vuoto là in fondo allo stanzone vengono ogni volta i brividi.
Ma a questi problemi appena inserito in fabbrica non pensavo davvero. Ero orgoglioso del mio ruolo e mi sentivo parte di una solida azienda. Le cose in effetti fino a pochi anni sembravano andare a gonfie vele. Nel momento di massimo splendore l’organico aveva raggiunto più di trenta dipendenti, tutti specializzati. Funzionavamo come una squadra matura, affiatata ed efficiente, in grado di smaltire qualunque materiale, anche quelli più difficili da trattare. Vederci lavorare in perfetta sincronia ed efficienza era un vero spettacolo. I dirigenti erano così orgogliosi di noi, che spesso ci utilizzavano per le pubbliche relazioni, esibendoci schierati tutti in fila, in manifestazioni dove scorrevano in genere fiumi di parole. Insomma a quell’epoca ero convinto che sarei rimasto qui fino alla pensione.
Negli ultimi tempi però le cose sono andate rapidamente peggiorando. Una patina di grigiore è scesa su tutti noi, e molti hanno perso lo smalto di una volta. In diversi ammettono di sentirsi alquanto instabili e temono il licenziamento. Uno che si ammalava troppo di frequente è stato di fatto declassato: oggi sta ancora al suo posto ma ha perso ogni vitalità, e in pratica è relegato a mansioni elementari. In tutti questi anni non ce ne rendevamo conto, ma svolgevamo un lavoro particolarmente usurante, e ora molti cominciano a denunciare malesseri di ogni tipo. A dir il vero alcuni di noi, dotati evidentemente di maggior giudizio, ci avevano messo in guardia, ma li abbiamo ignorati. Quelli di loro che si sono lamentati troppo sono stati emarginati o addirittura cacciati.
Allo stesso tempo c’è però da dire che l’azienda ha risentito della congiuntura negativa. Non so se siano stati i primi morsi della crisi, o semplicemente un’epoca di naturale trasformazione, ma le commesse si sono notevolmente ridotte sia in quantità che in complessità, e ora molti temono la chiusura definitiva. C’è addirittura chi ha sentito dire che ci vogliano licenziare tutti in blocco per sostituirci con delle macchine, delle mole artificiali capaci di svolgere in tutto e per tutto le nostre mansioni, senza problemi di cassa malattia, ferie o scioperi sindacali. È lo stesso problema di tante altre aziende, purtroppo.
In mezzo a tutto questo io poi ho un serio problema in più. Sono diversi giorni che non mi sento molto bene, ho spesso dei forti dolori, e guardandomi sotto il colletto ho scoperto una macchietta nera che non mi piace per niente. Il mio vicino mesi fa ha avuto una cosa simile e si è dovuto sottoporre a cure dolorosissime.
A questo punto sarà chiaro a tutti che le mie siano condizioni innegabilmente… precarie. Soffro una condizione scadente, ho perso mordente, la mia vita è deludente, insomma è del tutto evidente, e niente affatto sorprendente, che io non sia altro che un… dente pre-cariato: in altre parole, sono il molare della favola.
![]()
La “risorsa umana” è comunque soggetta ad erosione, è evidente. Allora si cambia, se no perchè chiamarla risorsa? Il racconto è carino e sicuramente il tema è di forte attualità. Non mi è piaciuta molto la fine con le parole in rima, perchè tende ad una ironia che il resto del racconto non mi sembra che abbia. Comunque è ben scritto.