Racconti nella Rete®

25° Premio letterario Racconti nella Rete 2025/2026

Premio Racconti nella Rete 2012 “Parole” di Paolo Aveta

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2012

E Pasquale parlava, parlava. Giorno e notte, con il caldo e con il freddo, il vento o la pioggia, gli occhi fissi nel vuoto alla ricerca di qualcosa da guardare. La sua voce metallica era inconfondibile, emetteva con precisione suoni inarticolati, incomprensibili per un normale orecchio umano, accompagnandoli con un gesticolare delle mani, come se stesse arringando una folla. Come un fiume in piena, senza sosta e senza senso le parole gli uscivano rapide e sconclusionate di bocca, ogni tanto era possibile distinguere qualche imprecazione. Erano ormai dieci mesi che si era stabilito in quel vicolo, retrostante una delle vie più centrali della città. Di statura alta, segaligno, età incomprensibile, il suo aspetto risentiva della sua condizione di vita. Una barba ispida, bianchiccia più tendente al grigio sporco che di un colore ben definito, faceva da contorno ad un volto affusolato e scarno. Due occhi spiritati, nei quali si poteva leggere tutto e nulla a seconda dei casi, e, che però, specie al tramonto, sapevano assumere un’espressione malinconica e triste.

Quando Pasquale parlava tutti ridevano di lui. Era un vero spettacolo per gli altri, vedere quell’essere mentecatto, sporco e miserabile lasciarsi andare a discorsi sconclusionati, a parole che si susseguivano senza posa e senza una logica. I ragazzini del quartiere accorrevano a frotte per deriderlo, quando lo spettacolo cominciava. Lo insultavano, gli lanciavano pietre, ma Pasquale, senza curarsi di loro, si alzava di scatto e voltandosi continuava con calma il suo sermone. A volte si udiva un lamento, prima flebile, poi sempre più forte e costante; per ore continuava a penetrare nei timpani della gente “normale”. Era Pasquale che, raggomitolato su se stesso, disteso sul lastrico stradale, urlava al mondo la sua condizione di dolore. Alla polizia lo conoscevano bene,  perché spesso qualche rappresentante dei benpensanti, telefonava al competente distretto e chiedeva l’invio di una “gazzella”. Le prime volte la polizia accorreva e, vincendo un normale senso di disgusto, caricava Pasquale, riluttante, sull’auto e, non sapendo dove portarlo, letteralmente lo scaricava al più vicino centro per poveri. Passavano al massimo due giorni e di nuovo potevi ascoltare in quello stesso quartiere, la sua voce metallica e roca. Sembrava una bestia, un cane che ritorna sempre da colui che riconosce il suo padrone, anche se questi ha cercato di metterlo alla porta.

“ La colpa è tutta della 568, che ha consentito di aprire i manicomi riempiendo le nostre strade di matti. Non bastavano quelli che già avevamo! Ah! Se io potessi fare le leggi!”

“Avete proprio ragione. Ieri ho telefonato alla polizia, ma non sono venuti.”

In tono concitato:” Io sono un onesto cittadino, pago le tasse e poi …non posso riposare perché un pazzo continua a disturbarmi con le sue inutili litanie. Ma mi sentiranno. Ah! Se mi sentiranno. Ora telefono nuovamente alla polizia.”

Così sentenziavano due persone oneste che, affacciate al balcone della propria abitazione, assistevano all’osceno spettacolo che Pasquale recitava, turbando la loro quiete.

Pasquale era solito recarsi a trascorrere la notte nel vicino parco pubblico dove, per pietà, il gestore di un piccolo ristorante fronteggiante il parco gli forniva pasti caldi. Normalmente quello che era avanzato in cucina dopo aver servito i clienti. A suo modo Pasquale ringraziava, e, sempre continuando il suo infinito discorso, accettava il dono dell’amico.

Nel parco c’erano un’infinità di cose belle. Il laghetto artificiale, l’albero sotto cui trascorrere la notte, il cane che, conoscendo gli orari di Pasquale, si accucciava ai suoi piedi, seguendo con sguardo attento i suoi movimenti, pregustando il pasto che gli veniva offerto dall’amico. Di buon mattino il cane era sempre lì, pronto a dargli la sveglia con un abbaiare continuo, a ricevere le prime e forse uniche carezze della giornata e ad attenderlo festoso quando la luce del sole scompariva.

“ Tieni Pasquale, c’è il caffè”. Era Antonio, il gestore del piccolo ristorante, che come ogni mattina gli portava il caffè e Pasquale, sempre senza mai interrompere il suo discorso, ringraziava con un rapido cenno della mano e, poggiando in terra il bicchierino contenente il caffè, lo osservava per qualche secondo. Poi, sollevatolo, cominciava a bere e lo porgeva al cane che scodinzolando guardava con attenzione Pasquale.

Un giorno Pasquale si svegliò e vide i fiori nel prato, gli alberi intorno a lui, ascoltò…Era il cinguettio di alcuni uccellini. Uno si posò a pochi metri da lui. Lo guardò negli occhi; Pasquale raccolse delle briciole di pane sudicio accanto a lui e con il palmo della mano aperta gliele porse. L’uccellino gli si avvicinò e beccando piano, mangiò dalle sue mani, subito volando via. Il cane che ogni giorno di buon mattino veniva a svegliarlo con il suo abbaiare per dividere un pasto maleodorante, si avvicinò, lo guardò fisso per alcuni secondi, abbaiò innervosito, emise un ululato ed andò via fuggendo al tentativo di Pasquale di accarezzarlo.

Era un fresco mattino primaverile. Pasquale si alzò. Si guardò intorno, tutto gli sembrò diverso, strano. Fece qualche passo. La luce del sole, adesso che era uscita dall’ombra dell’albero sotto il quale solitamente Pasquale dormiva, lo investì in pieno volto. Istintivamente socchiuse gli occhi. Guardò le sue mani: erano sudice; le unghie nere, i suoi pantaloni un tempo bianchi, adesso erano piuttosto grigio scuro; toccò il suo volto : era pieno di peli ispidi; sentì un peso sulla testa, era il berretto con visiera. Lo tolse, vide che era anch’esso sporco, zeppo di incrostazioni. Lo osservò, poi lo gettò di fianco al laghetto artificiale. –Pensò:”Ma sono io? Io mi chiamo Pasquale A. Questo lo ricordo.” Era fermo: osservò un vecchio con bastone che si dirigeva verso di lui; non appena lo vide, il vecchio, spaventato, fece qualche passo di fianco cambiando repentinamente direzione. Avrebbe voluto corrergli incontro, fermarlo, parlargli, rassicurarlo ma era come paralizzato. Si era da poco risvegliato e non riusciva né a muoversi, né a parlare, poteva soltanto restare immobile.

<<Hei Pasquale! Cosa mi dici questa mattina? Ma dov’è finito il tuo cappello? Vieni ti ho portato il caffè.>>

Voltandosi di soprassalto:<< Tu…tu mi conosci?>>

Antonio in tono meravigliato:<< Per tutti i santi in paradiso! Ma tu parli normalmente!>>

Pasquale continuò:<< Senti, non so tu chi sia. Sono confuso, molto confuso. Mi sono svegliato poco fa e tutto mi è sembrato strano, diverso. Non so neanche se sono io che ti sto parlando in questo momento. Chi sono? Tu chi sei?>>

<< Te lo dico io chi sei>> fece Antonio. Poi, proseguendo in tono sempre più concitato e quasi urlando :<<Un impostore, un bugiardo, un lurido impostore ecco quello che sei…Ed io, noi che credevamo che fossi soltanto un matto da rinchiudere. All’improvviso esce fuori che Pasquale, il pazzo del quartiere, ha  soltanto finto in tutto questo tempo per approfittare della situazione. Ma io ti denuncio, ti faccio arrestare, quanto è vero che mi chiamo Antonio.>>- Scostandosi di scatto:<< E non provare a toccarmi.>>

<<Aspetta…>> disse Pasquale. Ma Antonio, ritraendosi al tentativo di Pasquale di afferrargli un braccio, era fuggito facendo cadere il bicchierino di plastica che conteneva il caffè che poco prima aveva portato all’amico. Pasquale si ritrovò solo. Si mise a sedere sul bordo del lago artificiale, ed osservò le anatre che, calme, nuotavano verso di lui.

“Adesso cosa faccio?” pensò. Osservò se stesso. “ Cerchiamo di vederci chiaro. Mi chiamo Pasquale. E’ già qualcosa. Io ricordo di essere Pasquale A. Ricordo di avere un fratello. E poi…” sforzando la propria mente” Quella signora con i capelli bianchi…anche lei ricordo…deve essere mia madre. A quanto pare sono un pazzo. Anche questo è qualcosa.” Osservandosi nuovamente e continuando il suo pensiero:”E…piuttosto un mendicante. Ma perché sono ridotto così?… Aspetta, ma io abitavo in via G. …si lo ricordo- Devo tornare, mi spiegheranno” Allora alzatosi di scatto, con passo svelto si diresse verso l’uscita del parco.

<< Pasquale cos’ hai stamattina, non parli?>> Era Franco, il custode del parco. Pasquale, senza neanche voltarsi, uscì dal parco e, quasi correndo, traversò la strada. A quell’ora del mattino, erano circa le nove e trenta, la via cominciava a popolarsi: automobili, pedoni che camminavano velocemente, autobus, tram. Pasquale si fermò per un attimo appoggiandosi alla balaustra sotto la quale si stendeva, ad una distanza di un centinaio metri, la distesa d’acqua del mare. La testa cominciò a girargli vorticosamente, costringendolo a fermarsi.  Era quasi abbagliato dalla luce del sole: a quell’ora il mare assumeva riflessi dorati e seducenti.

<<Signore, signore …ecco per voi una moneta.>> Una sensazione improvvisa di freddo lo distolse dai suoi pensieri. Era la faccia di una moneta, che un bimbo gli aveva messo nel palmo della mano.

<<Lascia stare immediatamente. Non vedi com’è sporco? Non lo toccare >> tirandolo per mano energicamente:<< vieni via, su, andiamo.>>

<<Ma mamma, volevo soltanto fargli l’elemosina!>>

<<Andiamo, non discutere!>>

Pasquale non ebbe il tempo di dire nulla, si ritrovò solo nella mano la moneta che gli aveva dato quel fanciullo, la osservò , la strinse nel pugno della mano, la mise nella tasca dei pantaloni. Sentì che i suoi occhi stavano per cominciare a lacrimare, allora subito ricominciò il suo cammino con passo spedito. Voltò per una via laterale molto stretta e dopo un centinaio di metri si ritrovò in una larga piazza. Si fermò. “ Adesso devo imboccare via R. che, se non sbaglio, è quella lì in fondo a sinistra.No aspetta…è l’altra , via C. che devo prendere. O no?Non ricordo più…No, no è via R.sono sicuro”.

Riprendendo a camminare si diresse con passo svelto verso via R., la imboccò risoluto e senza mai fermarsi percorse per tutta la sua lunghezza la strada che misurava circa tre chilometri ed alla fine si trovò ad un incrocio da cui si diramavano tre vie molto larghe. Su di una poté leggere Via G. “Ecco sono arrivato, quello è il portone, lo ricordo bene.”  Si fermò dinanzi ad un piccolo palazzo in stile coloniale, alto circa una decina di metri. All’ingresso c’era una targa con la scritta –FAMIGLIA A. Fece per entrare.

<<Hei tu! Dove credi di andare?>> Un uomo in divisa blu dai folti baffi bianchi si diresse verso di lui: era il custode del palazzo.

<<Abita qui la Famiglia A.?Io…io sono Pasquale A.>> sforzando la memoria <<Anzi credo di essere il dottor Pasquale A. Devo assolutamente vedere Michele A. o la signora, è di vitale importanza.>>

<< Si. Ed io sono Napoleone. Cerca di andare altrove, povero pazzo. E non ti azzardare ad entrare, altrimenti chiamo la polizia. Questo è un palazzo abitato da signori, veri signori. Và via, hai capito? Sei solo uno sporco accattone e puzzi pure come una bestia. Vattene.>>

A queste parole, pronunciate in tono minaccioso,Pasquale era andato via voltandosi, limitandosi a dire<< Va bene vado via >>. Aveva attraversato la strada alberata e si era seduto per terra, ad un centinaio di metri di distanza, sempre guardato a vista da quel Caronte minaccioso.

Per circa tre ore era rimasto seduto in quella posizione, ma in quegli attimi pensava. Vedeva le cose intorno a lui, le persone camminare. I ricordi ancora non ben definiti, cominciarono ad affollarsi nella sua mente. All’improvviso, in lontananza, vide una figura alta, ben vestita, dirigersi verso di lui. Guardò con attenzione sforzando gli occhi. Il suo cuore cominciò a battere forte. Si , era M. il fratello, proprio lui. Questi gli passò accanto e, fermatosi dinanzi a lui lo osservò per alcuni secondi attentamente, poi, riprendendo il suo cammino, gli lanciò una moneta. Pasquale si alzò, la raccolse, avrebbe voluto chiamarlo, urlare che era lui; si limitò a seguirlo per qualche metro, il fratello, intanto, con passo svelto era entrato nel portone recante il civico “7”. Pasquale, giunto dinanzi all’ingresso del palazzo, osservò la scritta “Famiglia A.” Ebbe un attimo di esitazione. Indeciso se proseguire sui suoi passi oppure fermarsi a citofonare, si fermò, si voltò indietro e subito continuò il suo cammino. Era stato un attimo, ma adesso si sentiva liberato da un peso, fece a ritroso il cammino che lo aveva condotto in via G., con passo svelto quasi correndo. “Devo andare, non ho più tempo ormai.”, pensò. Si fermò solo per un istante nella grande piazza, che immetteva nella via che costeggiava il mare. Guardò il campanile alla cui estremità era posto un orologio; in quel momento rintoccarono sei colpi. “Il tempo passa in fretta “pensò e si diresse risoluto verso la strada che da un lato fiancheggiava il parco e dall’altra il mare. “ E’ l’ora giusta per morire” pensò. Si sentì come un eroe. A chi sarebbe mai importata la sua morte? A ben riflettere a nessuno. Inutile fardello di una società, che condannandolo aveva dichiarato la sua sconfitta. Si voltò indietro, per un attimo osservò con aria sgomenta il ritmo caotico ed incessante di quell’assurda ed incomprensibile realtà, chiuse gli occhi, scavalcò il parapetto e si lasciò precipitare.

In quel preciso istante un gabbiano volava rasente il mare, confondendosi nella luce crepuscolare.

 

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1 commento »

  1. racconto con un ritmo serrato, che si legge d’un fiato, mi piace

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