Premio Racconti nella Rete 2012 “Una viareggina qualunque”di Luciana Mei
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2012Eroi, artisti, letterati; ogni luogo, città, nazione ha i suoi personaggi famosi a cui ci si ispira, di cui ci si vanta, a cui vengono intitolate strade e piazze. Sono i personaggi che scrivono la storia. Eppure le caratteristiche e l’ essenza di una popolazione non è determinata dai suoi eroi ma è il risultato, generazione dopo generazione, di un certo tipo di vissuto della gente normale, dal sapere e dalla poesia che nasce dal quotidiano. Ecco perché ho voluto raccontare questa storia, che non ha niente di importante perché è la storia di “una viareggina qualunque.
Si chiamava Rosa, ma a Marco Polo tutti la chiamavano “la Rosina”, abitava davanti alla pineta in via Fratti angolo via Marco Polo. Era andata ad abitarci quando si era sposata e quelle erano le ultime case di Viareggio, poi solo campi fino al Cimitero.
Era una viareggina qualunque di quei tempi, il prototipo forse a cui si è ispirato il Malfatti, con mirabile maestria, negli spaccati della Viareggio di allora.
La Rosinadi luminoso aveva soltanto il nome, per il resto era un tipo cupo, altezza media con tanti chili di troppo, una pelle olivastra e gli occhi “cerchiati” di scuro che la facevano sembrare più vecchia di quello che era.
Un tipo silenzioso, poche parole,forse al momento giusto, tutto nel suo atteggiamento era anonimo, mesto, quasi dimesso.
Una vita passata sempre lì nel suo giardinetto, davanti alla pineta, seduta di traverso su una seggiola impagliata.
Data la sua riservatezza non so se fosse amata dal vicinato, certamente però era rispettata, possedeva una sola foto di quando era giovane, anche in quella sembrava molto più vecchia, però aveva uno sguardo già fiero.
Nonostante la semplicità della sua apparenza qualche episodio che conosco mi convalida una certa proprietà di carattere. Davanti casa, proprio sull’ angolo della pineta, c’ era il chioschetto della “Ida” che vendeva dolciumi e granite.La Ida per tenere pulito intorno al chiosco, allora non c’ era il servizio di spazzatura come ora, raccoglieva foglie, pinugliori e carte in un mucchietto al quale dava fuoco.
A seconda del vento il fumo andava in casa della Rosina e così il vicinato e chi si trovava a passare per anni hanno assistito alla solita scena, la Rosina riempiva una secchio d’ acqua, attraversava decisa la strada e con una secchiata spengeva il fuoco. Tutto avveniva nel più assoluto silenzio da parte della Rosina ed anche della Ida, rassegnata di non averla fatta franca. Un altro episodio riguardava certi “piatti”, che quando era più giovane, erano volati dritti sulla testa del marito che a differenza della Rosina pare che fosse stato in certe occasioni un po’ troppo allegro.
La Rosina non usciva quasi mai di casa, anche la spesa, prima per una esigenza, poi per abitudine la faceva il marito.
In tempo di guerra era stata sfollata a Bargecchia, e poi appena la guerra era finita era tornata davanti alla sua pineta.
Aveva avuto due figli a notevole distanza di anni, quello più grande si era arruolato presto in “Marina”, così era rimasta con quello più piccolo, anch’ esso diventato il tipico bamboretto viareggino di quei tempi, con la fortuna di vivere davanti ad una magica pineta da usare con i coetanei.
Allora non c’ erano i pericoli della droga, dei pedofili e le “bande” dei ragazzi avevano quella libertà che non è più di adesso. I ragazzi non possedevano giuochi, era tutto da inventare ed il figlio della Rosina era un maestro in questo, quando la “lippa”, classico gioco di allora, non bastava più riusciva ad inventare giochi di tutti i tipi e tutti i ragazzi del suo gruppo lo seguivano.
Fra loro ce n’era uno che era già un predestinato, si chiamava Antonio Filippini, e lui voleva fare sempre il solito giuoco, si metteva e faceva mettere agli amici dei rami sulla testa e alle braccia, poi come se la pineta fosse un grande palcoscenico, si muovevano lentamente mimando i mascheroni del carnevale.
La Rosina, un po’ perché non voleva uscire di casa, un po’ perché non ce n’ era bisogno, si affacciava un paio di volte al giorno sul terrazzo ed urlava il nome del figlio e ottenuta risposta se ne tornava tranquilla alle sua faccende.
Il fascino della pineta fu eclissato soltanto nel periodo in cui, in quello che ora è il quartiere Don Bosco si cominciò a costruire la chiesa, quella zona era una distesa di dune sabbiose ricoperte dai caratteristici cespugli che adesso si vedono soltanto in fondo al vialone della Darsena.
I ragazzi del Marco Polo si sbizzarrivano in quel periodo a fare marachelle nascosti provvidenzialmente proprio dalle dune e da quei cespugli.
Solo un giorno ci fu un episodio che rischiò di cambiare queste abitudini o le cambiò davvero al figlio della Rosina e anche ad altri suoi amici. Per ogni battaglia delle bande del Marco Polo, conquistata la vittoria o subita la sconfitta, c’ era sempre la possibilità della rivincita. Solo per una non ci fu la rivincita, fu perché il gioco quella volta si fece troppo pesante e la pausa che ne conseguì, il figlio della Rosina la ricorda, anche oggi, come un cambiamento, come la fine di un periodo, qualcosa che si spezzò e non tornò più come prima,…forse fu la fine dell’ infanzia.
Quel giorno era stata organizzata una partita di calcio nello spiazzo che c’era di fianco al teatro all’ aperto che allora c’ era in pineta. Il capitano della squadra Marco Polo lato Ospedale (la divisione era proprio la via Marco Polo) era il figlio della Rosina, il capitano della squadra Marco Polo lato via Zara era un certo Giovanni Ghelardoni.
Erano due gruppi che di solito giocavano separatamente e quelli lato via Zara erano anche più grandicelli.
Fatto sta che ad un certo punto della partita un giocatore della squadra avversaria, un certo Alfonso, diede un “cazzotto” in piena faccia a “Loli”, uno della squadra del figlio della Rosina e gli fece saltare di netto un dente davanti. La partita fu sospesa e ne seguì un subbuglio, gli amici del Loli protestavano con Alfonso mentre il Loli girava spaventato con il dente in mano, ad un certo punto, chissà dove, trovò un mattone di quelli pieni e senza che nessuno potesse fermarlo lo spaccò sulla testa dell’ Alfonso che rimase tramortito con la testa rotta. I ragazzi spaventati, temettero che fosse morto e lo portarono a braccia dallo zio Petrini che aveva il negozio di “barbiere” davanti all’ attuale farmacia.
La gravità dell’ episodio, anche se non finì drammaticamente, segnò per sempre i ragazzi.
La Rosina non aveva apparentemente nessun interesse particolare, non si era mai entusiasmata per nessun avvenimento, sembrava che le vicissitudini della vita le scivolassero addosso, non si sa se per una forma di rassegnazione o per ancestrale saggezza. Solo per tre cose si animava, diventava umana, fibrillava ed erano “i bagnanti”, “le cee” e “il carnevale”.
Le “cee” erano un lusso che pretendeva. Quando era la stagione, un paio di volte all’anno ordinava al marito di comprarle, qualsiasi prezzo avessero, era un rito, le cucinava in bianco con la salvia o ci faceva la pastasciutta, come le cucinava lei non le ho mangiate mai nemmeno nei ristoranti.
Affittare la casa in estate e coabitare con i “bagnanti” in quei tempi era per tante famiglie una esigenza, un introito economico che a volte permetteva proprio la sopravvivenza. Ma la Rosina questa esigenza non si era limitata a subirla o a tollerarla, ne aveva fatto negli anni un’arte, tanto che era diventata una sua gratificazione personale, un suo orgoglio, una sua ragione di vivere.
Allora non c’erano le agenzie ma le “sensale” che stavano sedute sugli angoli della città, al Marco Polo lungo il marciapiede della pineta e a tutti quelli che passavano e pensavano fossero forestieri chiedevano ad alta voce “ cerca casa ?” .
La Rosina invece i “suoi” bagnanti, diceva orgogliosamente, se li era procacciati, scelti e mantenuti negli anni da sola.
A primavera alle prime giornate di sole scattava l’ operazione “materassi”. I miei bagnanti, diceva, li hanno sempre avuti rifatti di fresco, difatti i materassi venivano portati sul marciapiede, scuciti e aperti, “sciorinati” al sole, la lana battuta con una canna e districata e poi rimessa nel guscio, come si diceva, ben lavato e poi ricucito.
Aveva imparato negli anni tutto quello che c’era da imparare per farla funzionare al meglio questa convivenza. Sapeva farsi piccola, quasi trasparente nello svolgere le attività di casa tanto che i bagnanti facessero la loro comodità.
Il marito al lavoro, il figlio in pineta coi ragazzi, quando i bagnanti erano al mare la Rosina, nel suo giardinetto, seduta sulla sua sedia impagliata trascorreva ore a godersi l’aria della pineta.
Finiva l’estate, la Rosina non si sentiva più utile, anzi indispensabile, i bagnanti se ne erano andati e lei piombava in una cupa monotonia, fatte le sue faccende passava le giornate a guardare la televisione, a leggere il quotidiano ed a fare il solitario appoggiata di traverso al tavolino del salotto.
Questa sua maniera di stare, quando era seduta, sempre girata da una parte aveva influito anche sulla sua postura e i vestiti le pendevano sempre un po’ da un lato.
L’ inverno era lungo e lei era sempre più malinconica, neanche le feste di Natale miglioravano il suo umore, invitava i figli a mangiare la domenica, ed era anche una buona cuoca. Badava ai nipoti se li lasciavano qualche volta a casa sua, era attaccata ai nipoti, ma a modo suo, senza slanci, e faceva tutto lo stretto necessario solo se le veniva richiesto.
Poi arrivava il Carnevale ed allora la Rosinasi metteva il suo cappottino, una spilla d’ oro sulla rovescia del colletto e da sola attraversava la pineta, entrava nel “corso”, si metteva sulla curva dell’ “Astor” dove allora i carri giravano per tornare indietro e guardava tutto il carnevale. E così faceva per tutte le domeniche che si svolgeva il corso mascherato.
Voleva andare da sola al carnevale, per goderselo alla sua maniera, e difatti non c’ era niente che gli sfuggisse, dal minimo particolare alla scritta più piccola dei carri grandi o dei mascheroni.
Nelle settimane del carnevale leggeva tutte le notizie, tifava per il D’Arliano, ma conosceva vita, morte e miracoli di tutti i carristi, le classifiche, faceva le previsioni, confrontava i risultati con quelli degli anni precedenti.
La Rosina si trasformava, uscendo dall’abituale apatia, parlava, infervorandosi, raccontando tutti i dettagli che agli altri erano sfuggiti. Sembrava il miracolo di San Gennaro quella trasformazione tutti gli anni all’ inaugurazione del carnevale, per tornare poi al suo stato normale appena si ammainava la bandiera.
Gli anni passarono e le sensale sparirono dalla via Fratti per lasciar posto alle agenzie.
Sparì anche l’usanza di coabitare dei viareggini e dei bagnanti. Per la Rosinal’estate perse il suo fascino e diventò improvvisamente più vecchia anche se vecchia lo era sempre sembrata.
Continuò a passare il tempo seduta di traverso sulla sua seggiola impagliata davanti alla pineta. Poi dovette cambiare casa, anche se di poche centinaia di metri, e fu un duro colpo, diventò ancora più silenziosa, ancora più mesta.
Le rimanevano soltanto le “cee” e il carnevale.
Nel vederla così intristita attendevo anch’io che arrivasse presto il carnevale proprio perché una sferzata di vitalità la scuotesse dalla sua apatia.
E così fu, anche quell’ultimo anno della sua vita. La ricordo ferma davanti all’Astor, col cappotto che pendeva un po’ da una parte, la spilla d’oro sul colletto, sola, seria e attenta a viversi ed assaporare a modo suo, intensamente come forse nessun altro, lo spirito e l’essenza del carnevale.
N.B. Le “cee” sono gli avannotti delle anguille che provengono, dopo due anni di percorso attraverso le correnti atlantiche dal mar dei Sargassi, per ripopolare alcuni laghi e lagune del nord del mediterraneo (Francia e Italia tirrenica). La pesca, ora vietata, era particolarmente faticosa,
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Aver cura dei colori,delle figure,dell’architettura del mondo che ci appartiene è segno di grande talento e sensibilità umana. Dia seguito alla Sua narrazione;il Suo racconto breve
mi ricorda un’ Italia umile e dignitosa che io ho conosciuto e che ancora oggi ci può insegnare molto.
Complimenti! … e in bocca al lupo!
f.m.graucis_ lucca