Premio Racconti nella Rete 2012 “Lullaby” di Lorenzo Marone
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2012Ti ricordi la ninna nanna che ti cantava mamma? Non mi dire che l’hai dimenticata.
“Stella stellina, la notte s’avvicina, la fiamma traballa, la mucca è nella stalla, la mucca e il vitello, la pecora e l’agnello, la chioccia coi pulcini…”
Quanto ti piaceva, cadevi subito nelle braccia di Morfeo. E io restavo lì a guardarti. A toccarti. A odorarti. E mi dicevo che eri l’essere più bello del mondo. Il più puro.
Tuo padre mi prendeva in giro. Ma lui non poteva capire. Molti padri non lo possono fare. Perché non vi portano dentro. Non vedono il loro corpo trasformarsi per accogliervi.
Il mio cambiò in fretta. D’altronde, quando sei nata pesavi quattro chili. All’epoca sembravi un colosso. Poi col tempo, invece, ti sei rimpicciolita, come un folletto. Sei divenuta mingherlina.
Inizia a piovere. Le gocce cadono sul parabrezza e scivolano via in un baleno. È bello starsene in auto quando piove. Ci si sente protetti, un po’ come sotto le coperte durante un temporale.
Chissà se ti stai bagnando. Chissà se puoi vedere l’acqua che cade. Se ti accorgi di tua madre ferma in macchina sotto un palazzo ad attendere. Credo non mi riconosceresti. Sono cambiata tanto da allora. Tuo padre dice che dovrei mangiare, che mi sto ammazzando. Ha ragione, almeno in questo. Mi sto uccidendo. Ma non voglio parlare di me, voglio parlare di te. Di quanto eri bella a tre anni, con quei boccoli biondi presi chissà da chi. Forse da tua zia, la sorella di tuo padre. Lei ha i capelli mossi, ancora oggi. Ogni tanto le vado vicino e le accarezzo la nuca. Lei mi guarda stranita, forse chiedendosi il motivo del mio gesto. Io le sorrido e proseguo come nulla fosse. Non posso mica rivelarle la verità. Mi prenderebbe per pazza. Anche se ormai lo pensano tutti. Che sono pazza, intendo.
Arriva un signore di corsa nella mia direzione. Cerca di sfuggire alla pioggia. Si ripara con un giornale sul capo. Poi l’auto posteggiata al mio fianco si accende con un beep. L’uomo mi guarda, in attesa che mi sposti e gli permetta di entrare in macchina. Ma a me non interessa se si bagna. Non me ne frega un cazzo. Così lui dopo un po’ si avvicina al mio finestrino. Lo sento urlare ma non abbasso il vetro. Resto lì a guardarlo. Nonostante la faccia contrariata ha dei bei lineamenti. E dei capelli scuri che gli ricadono sulla fronte resa viscida dall’acqua.
Lui smette di parlare e ricambia il mio sguardo. Forse ha capito di avere a che fare con una matta, con una fuori di testa, come ha detto tuo padre qualche giorno fa. Sì, hai capito bene, ha usato proprio queste parole. Fuori di testa.
Lo so, non vuoi sentirci litigare. Quando accadeva te ne fuggivi nella tua camera. Ti ritrovavo lì, stesa sul letto, col cuscino in testa. Non volevi essere partecipe delle cattiverie che ci dicevamo, cercavi di non assorbire il nostro odio. Facevi bene, tesoro. I genitori dovrebbero insegnare a coltivare i sogni, non i rancori. Ma si sa, nessuno è perfetto. E tuo padre e io non lo eravamo. Non lo siamo. Anche se oggi non ci maltrattiamo più come un tempo. Abbiamo altro cui pensare. Dobbiamo affrontare il dolore. Ogni giorno. Ogni ora. Ogni maledetta mattina.
Se ripenso ai litigi di allora mi scappa un sorriso. È rabbia. Vorrei poter tornare indietro per ammazzare quei due esseri spregevoli. Due persone frustrate che non avevano il coraggio di lasciarsi. Forse perché non avrebbero saputo cosa farsene della vita senza il loro odio. E così hanno pensato bene di rovinare la tua di vita. Tu che non c’entravi nulla.
Mi dispiace amore mio. Non sai quanto. Ogni giorno mi pento. Ti avrei potuto dare molto di più. Non solo amore. Non solo attenzione. Non solo premura. Non solo presenza. Ma rispetto. Quello che nella mia vita è sempre mancato. Non mi perdono per questo. Sappilo.
Eppure, nonostante noi, crescevi bene. Eri sempre allegra, solare, piena d’entusiasmo. Io alcune volte ti guardavo e provavo invidia. Adesso te lo posso dire, non ho nulla più da nascondere. Per la tua gioia irrefrenabile, per il sorriso che non si spegneva mai sul tuo volto.
Poi successe quel fatto. Avevi circa dieci anni. Ancora oggi, a pensarci, mi vengono i brividi. Invece tuo padre liquidò la questione dicendo che si trattava solo delle parole di una bambina. Di non farci troppo caso. Fu allora che compresi di odiarlo davvero.
Successe che la tua maestra mi mandò a chiamare e, con non poco imbarazzo, mi lesse il tuo tema sulla famiglia. Avevi scritto che ti sarebbe piaciuto essere orfana. Da quel momento la mia vita cambiò per sempre. Ora lo so. Quella di tuo padre, invece, proseguì come nulla fosse.
Lo sconosciuto picchia contro il vetro. Sembra incazzato. È ancora più bello così. Apro la portiera. Siamo l’uno di fronte all’altra. Lui mi osserva ma non dice nulla, forse intimorito dal mio comportamento. La pioggia mi scivola addosso e cade giù. Anche lei non vuole avere nulla a che fare con me. Con una madre che non ha saputo proteggere la figlia.
Fisso ancora l’uomo, poi mi avvicino e lo bacio. Così, senza dire una parola. Lui indietreggia. Torno in auto, accendo il motore e mi sposto di qualche metro. Lui rimane a fissarmi per un po’, poi si tuffa in macchina e scompare dalla mia vita.
Sono di nuova sola. Sotto a questo palazzo anonimo. In una via anonima. Attendo che lui, il colpevole, torni da lavoro. Come fa ogni sera. Rincasa alle nove, con la sua borsetta di pelle e la cravatta pulita. Con la faccia di chi si ritiene soddisfatto di ciò che ha e di ciò che è. Nei miei sogni vedo la sua faccia impallidire al mio cospetto e provo un’eccitazione crescente. Poi mi sveglio. Tuo padre al mio fianco non c’è. Non te l’ho detto, ma da un paio di anni non dormiamo più insieme. Una sera gli ho fatto trovare le lenzuola e il cuscino in soggiorno. Lui ha capito e non ha fatto domande. Ormai non ne fa più. Mi considera una folle, una che non ha retto l’urto terribile della vita, si è lasciata sopraffare dal dolore. È vero, mi sono abbandonata al dolore. Ma è stato grazie a questo che ho trovato la forza di allontanare un uomo che non amavo più. So che non ne saresti stata contenta. Alla fine, però, col tempo, avresti compreso. Meglio convivere con l’assenza che con l’odio.
Accendo il motore e aziono i tergicristalli. Devo essere pronta quando arriverà il colpevole. Conosco ogni più piccolo e insignificante dettaglio della sua inutile vita. Non ha una relazione stabile, non ha figli. Solo il lavoro. Come molti uomini. Come tuo padre oggi. Crede che sia io a nascondermi dalla realtà. Invece è lui. Lavorare in modo ossessivo significa fuggire da una vita che non piace. Tutto il resto è una menzogna.
Tu ti sei sempre lamentata del nostro lavoro. Dicevi che le mamme delle tue amiche andavano a prendere le figlie a scuola. Io non potevo, lo stipendio di tuo padre non me lo permetteva. No, sto mentendo. Se avessi voluto davvero, lo avrei potuto fare. Al diamine il lavoro e i soldi. Si può vivere lo stesso.
La verità è che avevo paura di diventare oppressiva. Di seguire l’esempio di tua nonna. E poi tuo padre me lo ripeteva di continuo: mi raccomando, falla vivere, lasciala sbagliare, non le stare sempre addosso. L’ho ascoltato. E non me lo perdono.
Dovevi andare in piscina. Trecento metri da casa. Insistesti per non farti accompagnare, tanto c’era la tua amichetta Sabrina con te. Io mi dicevo che in fondo erano pochi passi. Però c’era un attraversamento. Sarei dovuta venire, nonostante le tue rimostranze.
Eccolo. In lontananza. Arriva. Lo stronzo che ti ha portata via. È ancora lontano, devo aspettare che infili le chiavi nella toppa del portone. Che sia di spalle. Lo guardo camminare sereno e sento crescere l’odio. Vorrei scendere e urlare. Dove cazzo andavi quel giorno? Che avevi da fare di tanto urgente nella tua inutile vita? Non potevi restartene a casa?
La giustizia ha stabilito che non è colpevole. La bambina è sbucata all’improvviso da dietro un furgone in sosta. Non c’è stato il tempo per frenare. E il conducente non era neanche ubriaco o drogato. Era semplicemente un commercialista che correva un po’ troppo per non far attendere un cliente. Nessuna responsabilità, caso fortuito. Così è stata archiviata la tua morte. Così ribadì tuo padre una sera. Mi afferrò i polsi e urlò che si trattava di un incidente, che nessuno aveva potuto farci nulla, che dovevo farmene una ragione anziché cercare un colpevole che non esisteva.
Gli sputai in faccia.
Mi dispiace piccola mia. Lo so che odi le nostre urla, ma tuo padre non capisce. Anzi, no, non ha la forza. È questa la verità. Il coraggio di fare quello che c’è da fare. È un uomo che ogni giorno, per lavoro, se ne va in giro con la pistola appuntata alla cintura e non ha le palle di usarla. L’ho presa io l’arma. Tanto a lui non serve.
Sto tremando. Mi devo calmare. Mi ritorna in mente ancora una volta la ninna nanna che ti cantavo. Tranquillizzava anche me. La ripeto ad alta voce. “Stella stellina, la notte s’avvicina…”
Scendo dall’auto. La strada è deserta. Le famiglie a quest’ora cenano e si raccontano le vite. A noi, invece, non è più concesso. Il bastardo che ho davanti ci ha negato questo diritto per sempre.
Lui è di spalle. Sta cercando le chiavi. Lo chiamo per nome. Si gira e impiega una frazione di secondo per capire chi sono. Poi vedo nei suoi occhi ciò che avevo sempre sognato: il terrore. Vorrebbe aprire bocca, forse spiegarsi, scusarsi. Non gliene do il tempo. Non ne merita altro. Ha già vissuto tre anni gratuitamente. Gli sparo in faccia. Il cervello schizza sul portone e scivola a terra insieme al corpo senza vita. La pioggia si mescola col sangue. Avrei voglia di urlare. Mi sento viva, quasi felice. Incredibile. Credevo di non poterlo mai più essere.
Torno in auto. Sento freddo e le mani mi tremano. Ma sono felice. Adesso sì.
Finalmente.
Accendo l’aria calda. Poi intono ad alta voce la tua filastrocca.
“Stella stellina, la notte s’avvicina, la fiamma traballa, la mucca è nella stalla, la mucca e il vitello, la pecora e l’agnello, la chioccia coi pulcini, la gatta coi gattini, la capra ha il suo capretto, la mamma ha il suo bimbetto. Ognuno ha la sua mamma e tutti fan la nanna.”
Tutti fan la nanna.
Bum.
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Bravissimo Lorenzo. Ancora una volta. Hai un senso del ritmo e una padronanza del racconto veramente invidiabili.
Grazie mille Giorgio, le tue parole mi rendono felice. Ricordo ancora con piacere l’anno scorso a Milano, quando ci siamo incontrati. Complimenti, ho visto hai vinto il Premio Elsa Morante. Te lo meriti, mi piace molto il tuo stile. Un abbraccio
Bel racconto, scritto molto bene. La follia che nasce non solo da una tragedia, ma da una grande solitudine e da un passato fatto solo di incomprensione. Complimenti.
Bello davvero
Ciao Lorenzo, che bello ritrovarti qui. Mi è piaciuto molto il tuo racconto, forte, ti trascina dentro il dolore di una madre e nella disperazione che spesso non si può condividere nemmeno con chi soffre accanto a te. Un dolore che come madre non so neppure immaginare, prende allo stomaco, tu lo hai raccontato molto bene.
Se vuoi leggermi qui:
http://www.raccontinellarete.it/?p=8948
e qui peri corti:
http://www.raccontinellarete.it/?p=8951
Intanto a te un grande in bocca al lupo! Lucca è una bellissima esperienza che ho avuto già la fortuna di vivere.Un abbraccio!
grazie francesca, sono contento ti sia piaciuto. Un abbraccio
…e grazie anche a Silvia e Luisa per i loro bei commenti!
Ti entra dentro il dramma di una madre e si avverte distintamente la sua liberazione. Veramente coinvolgente perché smuove i sentimenti di un genitore, che ogni genitore prova se ci venissero toccati i figli. Complimenti Lorenzo.
[…] Lullaby […]