Racconti nella Rete®

25° Premio letterario Racconti nella Rete 2025/2026

Premio Racconti nella Rete 2012 “Indecisioni” di Andrea Salvatori

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2012

Mi girai un attimo e non c’era più: “ Oh, Robbè, Robbèèèè…”

Francesco, intanto, con le mani nel cespuglio davanti al muretto di cinta del giardino, stava per tirare fuori il pallone che si era incastrato tra i rovi, e tra qualche istante avrebbe battuto il fallo laterale.

Non potei fare altro che sganciarmi dalla mia posizione ed avanzare qualche metro per coprire il buco che aveva lasciato Robbertone. Oltre la grata di ferro verde arrugginito del giardino, tra due cespugli incolti, riuscivo a scorgerlo con la sua maglietta a righe orizzontali bianche e arancioni, la stessa di sempre, mentre attraversava la strada con le ginocchia alte e con il petto e la pancia traballanti. Poi lo persi di vista, ma di sicuro era già arrivato alla fontanella. Per andare a bere ci aveva lasciati in due contro tre quel deficiente, e ora mi toccava fare il portiere volante.                 “Lo sapevo… lo sapevo”, dicevo ad alta voce, e infatti lo faceva sempre. Tutte le volte che giocavamo, ad un certo punto, senza avvertire nessuno, prendeva e usciva fuori dal giardino e correva a bere alla fontanella che stava dall’altra parte della strada. A dire la verità correva più in quei momenti che per tutto il resto della partita.

Era abbastanza pesante, Robbertone, e la sete l’aveva sempre sofferta, fin da bambino. Ma quel giorno, non so perché, che potesse andare a bere da un momento all’altro non lo avevo minimamente considerato. Fino a quel momento era stato impeccabile, qualche minuto prima aveva addirittura segnato, e per tutta la partita sembrava leggero come non lo era mai stato. Io dalla porta gli urlavo “fai questo” e “fai quello”, gli dicevo “bravo” oppure “stai attento”, e lui correva, duettava con Francesco e non sbagliava un passaggio. Dall’altra parte, malgrado continuasse a fare il superiore, per quello stronzo di Sandrino si stava mettendo male, proprio male.

Lo faceva apposta Sandrino a mettersi in porta, ne ero certo. Lo faceva perché non si voleva sprecare a darci lezioni di calcio, lui che era il “signor stocavolo” dei giardinetti, il più bullo e il più bravo. Allora quel giorno pensai va bene, tu sarai anche il più forte ma giochi sempre da solo, noi invece siamo una squadra e adesso ti mostro quello che significa: mi metto in porta anch’io.

Eppure, Sandrino, nonostante quella valanga di tiri che gli era piovuta addosso, compreso il goal che aveva fatto Robbertone con il quale eravamo in vantaggio, non sembrava essersi accorto di nulla. Fino a quel momento se ne era stato in porta con un piede appoggiato alla ringhiera della pista a mangiarsi le unghie e a pensare ai fatti suoi. A volte non guardava neanche il gioco, sapeva lui quando alzare lo sguardo. Neanche aver fatto sega a scuola sembrava averlo elettrizzato più di tanto: forse perché ci era abituato.

Noi invece, con quel sole di Aprile che finalmente ci aveva messo a mezze maniche, eravamo tutti gasati. Perfino Robbertone, che sega vera e propria non l’aveva neanche fatta, sembrava il più entusiasta di tutti.

“A giocare vengo, ma a mia madre l’avverto lo stesso”, mi aveva detto la sera prima mentre lo accompagnavo sotto casa.

“Come sarebbe che glielo dici?”, gli risposi io ridendo, “e che sega sarebbe?, ma dai su…”

“No no”, fece subito lui senza tentennamenti, “che poi lo so che sto con la coscienza sporca e mi si rimpone tutta la giornata; tanto domani c’ho due ore di collettivo, una di religione e una di inglese che tanto già mi ha interrogato: pure se non vado non succede niente…”

Nel dirmi cose del genere, Robbertone, quando eravamo da soli io e lui, con quel faccione ancora imperlato di sudore e gli angoli della bocca punteggiati del pomodoro della pizza che si mangiava puntualmente ogni sera prima di andare a cena, non solo esprimeva una convinzione ostinata, ma anche una  tenerezza che mi disarmava. Quei momenti, così nostri, erano quelli in cui, nonostante in apparenza me ne facessi beffe, più che il suo migliore amico, io mi sentivo quasi suo fratello maggiore.

Sistemato il pallone a terra, Francesco rimise in gioco passandomelo lateralmente con il piatto destro. Sandrino sembrava improvvisamente essersi calato nella partita e aveva messo su in ghigno che non mi piaceva. Forse mi sfidava.

Ero un portiere volante ma, data l’inferiorità numerica, e badando bene a non sbilanciarmi troppo, avevo anche licenza di sorpassare il centrocampo e tirare: mi sentivo tutti gli occhi del mondo addosso. Appena ricevuta palla avanzai un paio di metri oltre la mediana. Sentii Francesco suggerirmi qualcosa, forse “passa” oppure “aspetta”, invece avanzai ancora da solo a testa bassa e caricai il destro. Il pallone al quale avevo impresso tutta la forza che potevo ma poca potenza, impattò i pantaloni larghi e goffi di Marcello che mi si era messo davanti e non l’avevo neanche visto, smorzò la sua corsa, cambiò traiettoria, e si apprestava a diventare una palla persa in fallo laterale.

E invece… TINNN…

Il pallone rimbalzò sulla ringhiera della pista di pattinaggio che delimitava il nostro campetto, e quando, come fece, rientrava dentro lo si riconsiderava ancora in gioco: TINNN…

Quel rumore accese un lampo nello sguardo di Sandrino che si svegliò del tutto. Quando vidi lui e quella palla innocua guardarsi negli occhi, capii subito di essere nel mezzo di un dilemma molto più simile ad una trappola: andargli addosso, o indietreggiare velocemente verso la mia porta. Quell’attimo mi fu fatale. Vidi Sandrino andare incontro al pallone in due passi, coordinarsi, e colpirlo al volo di prima intenzione senza neanche guardare, di destro: e pensare che quello stronzo era anche un mancino puro. Scalciai due passi impacciati all’indietro come fossi immerso nelle sabbie mobili, seguii la traiettoria del pallonetto fino a che non intercettò il sole e poi abbassai la testa. Sentii soltanto la sfera di gomma tamburellare un paio di volte, rimbalzando impazzita tra il mattonato e la traversa di ferro, e alle mie spalle, la risarella da iena di Sandrino e qualche altro urletto di stupore degli altri. “Mamma mia!!!, Mammmma mia!!!”, dicevano tutti. Ma tra quelle voci ne sentivo una provenire dalla parte opposta, come un coro di risposta fuoricampo: e fuori dal campo c’era proprio Robbertone.

Era ritornato tutto trafelato dalla sua consueta bevuta alla fontanella giusto in tempo per gustarsi la prodezza di Sandrino, e ora esultava e gli batteva le mani neanche fosse stato un suo compagno di squadra: “Mammmma miaaa…”

Proprio lui, il mio amico, mio fratello, il mio compagno di squadra più fidato, il mio alleato, si prendeva gioco di me e della nostra squadra in quel modo.

Rimasi di ghiaccio. Così sconfitto ed umiliato da un goal da antologia e dai gridolini del mio migliore amico, mi sentivo incapace di opporre la minima resistenza, incapace di pensare di nuovo alla partita che era ancora tutta da giocare, incapace di rincorrere Robbertone per tutto il quartiere allo scopo di linciarlo. Con quel goal negli occhi, qualsiasi cosa avessi fatto, di fronte agli altri mi sarei ricoperto ancora più di ridicolo. E poi a che scopo correre dietro a Robbertone se perfino ammazzarlo mi sembrava poco?

Andai a prendere il pallone con tutta la dignità che potevo. Infilai la testa sotto la ringhiera senza tradire alcuna reazione, avrei voluto prendere a calci lo zaino con i libri con cui avevo simulato di andare a scuola ma dovevo assolutamente trattenermi. Presi il pallone e lo lanciai verso il campo con insofferenza, come se non fosse più affar mio, poi sputai per terra e mi pulii le mani strofinandole rabbiosamente sui pantaloni. Mi risistemai in porta e mi rinfilai fa felpa che avevo legato alla ringhiera in prossimità del palo.

In quell’istante mi venne in mente la scuola e il fatto che l’avessi saltata, ma era strano: era come se lo scoprissi soltanto in quel momento. Mi sentii svuotato.

Mi resi conto che, per un attimo, avevo provato qualcosa di simile già la sera prima mentre parlavo con Robbertone, ma non gli avevo dato peso. Avevo fatto sega e ora capivo che mi dispiaceva, che non mi andava, che non era cosa mia. Tra l’altro, anche se non l’avevo detto a nessuno, io non l’avevo mai fatta, era la prima volta, e vedere Robbertone che invece aveva fatto tutto alla luce del sole, e a differenza mia si era anche confidato con me, adesso mi faceva sentire ancora più in colpa. Ma che cosa avrei dovuto fare? Come mi sarei sentito il giorno dopo, o magari il pomeriggio stesso, ascoltando i racconti degli altri? A fare la parte del bravo ragazzo davanti a Sandrino forse mi avrebbe scocciato lo stesso. Anzi, sicuramente.

“Esci Andrèèè…”, mi gridò all’improvviso Robbertone, risvegliandomi di soprassalto. Fabietto si era involato verso la nostra porta ma per fortuna avevo fatto in tempo ad anticiparlo.

“Quasi quasi, quando torno, glielo dico anche io a mia madre che oggi a scuola non ci sono andato…”, pensai subito dopo, aspettano il calcio d’angolo.

 

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6 commenti »

  1. TINNN… e dire che il calcio non mi è mai piaciuto… troooppo simpatica questa storia!

  2. Bel racconto! Scritto bene, divertente, mi è piaciuto e questo è il calcio che mi piace di più.

  3. E’ scritto con l’animo puro di un ragazzo che vive o rivive dei momenti in cui ci ritroviamo in molti. E poi la spontaneità, la descrizione di certi particolari infantili, tipici di chi ha vissuto in modo sano e giusto quel periodo hanno fatto centro e lui…TINNN mi ha colpito veramente! Bravo

  4. Chi di noi non è stato su un cappetto del genere, quattro giacchetti per porta, una palla e tante sudate. Bel racconto, una sequenza di immagini che sembra di partecipare

  5. Attraverso la descrizione dei piccoli particolari mi sembra di riuscire a vivere in prima persona la storia raccontata…e questo non mi succede con tutto quello che leggo. Complimenti

  6. che dire….per un attimo ho rivissuto i periodi spensierati della parrocchia quando bastava un pallone e la polvere del campetto per renderti felice

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