Racconti nella Rete®

25° Premio letterario Racconti nella Rete 2025/2026

Premio Racconti nella Rete 2012 “Gli angeli giocano a bocce” di Lorenzo della Frattina

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2012

La maschera l’aveva indossata una sapida mattina di tarda primavera. Tra il profumo dei convolvoli, all’ombra del grande faggio del giardino, era suonato il telefono e, laconico, Bortolo, il suo adorato Bortolone, la terra promessa, il cammino verso il solido futuro, dopo un fiume di parole inutili prosciugatosi in un sempre più fetido rigagnolo melmoso, lui l’aveva freddamente scaricata senza tanti ma nè perchè. Bortolo, il pragmatico Bortolo, il compìto industriale bresciano con cui aveva condiviso l’ebbrezza del sentimento, quello più profondo, profondo come lo sono le verdi rive dei laghi di Garda, di Iseo, di Idro, ove erano sfrecciate le loro assolate domeniche verso quella o quel’altra località, Bortolo, tra inutili acrobazie fatte di parole patetiche, insulse, inutili, aveva con fredda matematica logica tracciato un definitivo doloroso perimetro. Le loro vite si dividevano, che sì, che no, che forse, che ma c’era un’altra o non c’era, che sì, forse però era meglio od era peggio, che sì forse però ed allora lei aveva richiuso solenne il telefono, tranciando le parole sospese al galoppo nell’etere, e l’aveva poggiato il telefono lievemente sul bel tavolo in pietra, per alzarsi, poi, senza un gesto, una lacrima od un grido. Lei, scartata bruscamente come nel gioco della briscola, accantonata senza un perchè, senza un preavviso, lei era rimasta lì, imperturbabile nella sua bellezza ancor più bellezza raggelata da quella notizia ferale e feroce.

A pranzo avevano intuito: il padre, la madre, l’austera nonna . Non dissero nulla; lo capirono meglio nei giorni a venire, quando di Bortolo ne restò un ricordo per tutti sgradevole, acido. Divenne l’innominabile creatura maledetta destinata a cadere in un oblìo abissale.

Lei taceva: taceva e continuò a farlo, decisa nel proseguire comunque la sua vita dietro quella maschera che ne aveva freddato il volto ed ogni espressione,una maschera che aveva abbattuto l’anima ed il cuore. Ed iniziarono, a casa, a preoccuparsi in un crescendo di domande silenziose; ma una maschera non parla nè risponde se non a sè stessa . Solo di fronte a quella preoccupazione impetuosa e crescente, sentendosi preda di troppi sguardi e domande, decise di partire qualche giorno per Udine, dalla Lauretta, l’amica di sempre, così spiritualmente vicina e così geograficamente lontana alla quale forse avrebbe detto poco troppo o nulla, alla quale aveva già detto troppo e nulla in uno stringato asciutto algido messaggio compresso in pochi essenziali veloci rabbiosi caratteri.

Arrivò in treno, in Friuli, sotto un cielo grave e plumbeo, un cielo che contrastava con la verdura dei prati e le vette in lontananza che separano la pianura dal mare, con la Lauretta che l’aspettava trepida minuta e fremente sul marciapiedi. I primi giorni, di mezze parole ed altrettanti silenzi, la videro in compagnia o passeggiare sola per il centro della città, sempre più maschera attimo dopo attimo, passo dopo passo, ora dopo ora, maschera tristemente bellissima nel suo silenzioso atroce dolore.
Venne improvvisa l’ora di un temporale, prima del quale l’aria torrida s’era fermata un attimo, un attimo secolare in cui le cicale sulle piante smisero di frinire, e la furia della pioggia la sorprese così, senza un ombrello, lei, un tempo previdente ed oggi incauta,e corse traversando quel muro d’acqua battente verso una pensilina in cerca di riparo, tra i lampi che fendevano il cielo livido seguiti da tuoni secchi come frustate nell’aria, e stranamente sorrise, pensando a suo nonno, che le raccontava che i tuoni null’altro erano il frastuono degli angeli che giocavano a bocce su in cielo.

Sorrise, ma riprese la maschera quando s’accorse che un insignificante lui la stava osservando, con uno sguardo bovino ed un sorriso tanto puerile quanto gentile, un butterato imberbe soldatino fradicio d’acqua come fradicia lo era lei ed i suoi capelli corvini. Glie lo chiese a bruciapelo, quel piccolo artigliere dalle mani callose, perchè avesse uno sguardo triste; lei lo osservò in rassegna come si osserva un cretino che pone una domanda cretina, ad una sconosciuta, poi !

Si scusò, lui, aggiustandosi il basco nero, e nel suo accento cantilenante, forse dell’alto Lazio o della bassa Umbria, le disse con disarmante fragrante sincerità che sì, a lui dispiaceva vedere una bella ragazza così triste e cupa . Con filosofia tutta campestre, in attesa di un autobus che non arrivava mai, le disse che dopo il brutto sarebbe venuto il bello e sciocchezze di questo genere, ma l’acqua che grondava dai capelli ancor più neri si stava mischiando ad un rivolo impercettibile di lagrime chè ,quel’artigliere così insignificante. aveva mirato diritto al cuore con le sue ingenue vere straordinarie parole pronunziate semplici prima di essere inghiottito dal sopraggiunto ruggente arancione grande automezzo fumante , salutandola con deferenza dietro la porta che si chiudeva, inconsapevole d’averne aperta un altra che a lei aveva dato significato a quel pomeriggio tempestoso , come inaspettato fu sentire quella maschera sciogliersi lenta, e lenta inesorabilmente dissolversi dando, tra un lampo e l’altro, una nuova luce a quel volto che credeva perduto per sempre.

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