Racconti nella Rete®

25° Premio letterario Racconti nella Rete 2025/2026

Premio Racconti nella Rete 2012 “Rue Madame” di Toni Ciaramella

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2012

Non so se vi é mai capitato di passare per rue Madame, a quelli di Parigi, voglio dire, o a qualche forestiero,

anche se oggi non ci sono più i forestieri e, quando incontriamo uno che non abbiamo mai visto dalle nostre parti, non ci chiediamo, come una volta, chi sa chi sarà, che fa da queste parti, perché a quel tempo le parti erano proprio separate dal resto e ogni parte aveva i suoi abitanti e quelli che non ci abitavamo ci venivano raramente e quando ci venivano erano forestieri e allora ci si poneva quelle domande, mentre adesso non ci si può sbagliare, anche perché quelli che hanno preso il posto dei forestieri di una volta collaborano e allora i turisti vanno in giro da turisti e i migranti da migranti, anche se qualche volta potrebbero evitarlo, ma ormai i ruoli sono stati assegnati e quelli che una volta erano  forestieri oggi sono turisti oppure migranti, difficile però capire di primo acchito se si tratta di un migrante irregolare, un sans-papier, oppure ce l’ha il permesso di soggiorno, anche se alla fine  la cosa non fa grande differenza se a uno di questi è capitato di passare per rue Madame, andando da boulevard Montparnasse ai giardini del Luxembourg, lo fanno in molti quel percorso, parigini, turisti e anche migranti, che vanno a sdraiarsi sui prati del Luxembourg e lasciano le sedie di ferro con la seduta in legno, sbiadito e consumato, ai parigini, ma qualche volta anche i turisti stanchi di camminare e di fotografare si siedono su quelle sedie, titubanti, quelli che sono a Parigi e al Luxembourg per la prima volta, specialmente gli inglesi di Londra, che non sanno se debbono pagare qualcosa come succedeva per le sdraio di Hyde Park,

e di alzare lo sguardo verso un balcone verde, molto verde, una tinta tanto accesa da sembrare uno sgarbo alla facciata, grigia, in pietra serena, e di rimanere colpiti da questa bizzarra veranda, perché a voler essere precisi non si tratta di un balcone bensì di una veranda,

strana, come veranda, con la parte bassa aperta e protetta dagli arabeschi in ghisa di rami e foglie di acanto, tutto verde, mentre la parte alta, sopra la ringhiera, è chiusa da pesanti finestroni dall’intelaiatura laccata verde, perché tutto questo verde è lucido e brillante

e avere la sensazione che quel colore così acceso possa avere un significato che di solito non si scarica su una veranda, perché in fondo una veranda è soltanto un modo per stare fuori, quasi in strada, senza muoversi da casa, un affacciata più significativa di quella che si ha da una finestra

perché da una veranda ci si mostra e se lei è bella si possono vedere molte cose, come accadde il giorno che ad Antibes cercavo una libreria antiquaria, che poi era chiusa e da fuori sembrava una merceria di paese, sulla sedia c’erano degli effetti personali, forse del libraio o di un cliente, più probabile una cliente, rapita e frastornata dal ritrovamento di una cinquecentina aldina, perché in quella stradina stretta, molto stretta, contenuta da case alte, molto alte, a una veranda aperta sotto, niente acanto, semplici tondini di ferro, c’era una ragazza, attraente – fumava mollemente appoggiata alla ringhiera – che aveva dimenticato d’indossare qualcosa che le sarebbe stato utile in quella circostanza, ma forse anche in altre, e l’amica che mi accompagnava se ne accorse per prima e me lo fece notare, forse per una strana forma di gelosia a rovescio, ci pensai dopo, quando sarebbe stato più logico tacere per non mostrarmi il sesso di una concorrente, concorrente non proprio, ma insomma io al suo posto trattandosi di un uomo, ugualmente smemorato, la scoperta me la sarei tenuta per me, ma forse la mia accompagnatrice, non occasionale, ma ugualmente alle prime armi, mi riferisco a quelle della nostra amicizia, dagli sbocchi ancora incerti, era curiosa della mia reazione a quella vista, capire se era il caso di portare avanti la conoscenza – l’espressione biblica è di grande aiuto per evitare le crudezze del linguaggio normalmente utilizzato in circostanze simili,

anche se alla veranda in rue Madame non ci ho mai visto affacciato nessuno, non l’ho mai vista aperta, quella veranda, mi riferisco alla parte alta, la parte chiusa dai finestroni, e mi era venuto di pensare che si trattasse di una casa misteriosa,

in tal caso, mi sembrerebbe un grave errore esporre quel colore che attira l’attenzione di chi passa e che, se si doveva custodire un segreto, nascondere qualcuno o qualcosa, escludere dal giro delle cose che si sanno o che si possono sapere, quelle che qualcuno non voleva che si sapessero, perché ignobili oppure preziose, indicibili o deliziose, tanto da volersele tenere tutte per se, insomma se non si voleva che qualcuno ficcasse il naso nella casa, quella della veranda verde, sarebbe stato molto meglio colorarla di grigio quella veranda e poi farla aprire ogni tanto da qualcuno, un complice del segreto, forse lo stesso misterioso individuo che si nascondeva nella casa, un piccolo gesto e la maniglia del finestrone avrebbe aperto la veranda all’aria e al sole di rue Madame e allora nessuno si sarebbe chiesto che mistero si celava dietro a quella veranda sempre chiusa e per di più verde, dando così l’impressione che si trattava di una casa come tante altre,

seppure, nel mio caso, l’interesse più che dal mistero della veranda chiusa nasce da quel colore così acceso, per me più acceso che per gli altri, perché io non vedo il verde, di solito, mai, cieco al verde, un daltonico classico come Dalton, anche lui un daltonico classico che non vedeva il verde, e questa della veranda é soltanto la seconda volta che, in vita mia, riconosco il verde e per questo la cosa mi colpisce tanto, credo, anche se la prima volta, in effetti, avrei dovuto essere più sorpreso, e in effetti lo fui, era la prima volta che lo vedevo quel colore e mi resi conto che il vestito doveva essere effettivamente verde soltanto perché si trattava di un colore che non avevo mai visto prima e dato che sapevo di non riconoscere il verde ne dedussi che si tratta proprio del verde,  il verde acceso del suo vestito, il tramite, curioso certamente, con una lei che tenne un concerto a quattro mano con un amico di Ginevra, a Ginevra, era lui che mi aveva fatto avere un incarico alle Nazioni Unite, uno studio sul processo produttivo dell’orologio svizzero, anche se non ero, e non lo sono nemmeno oggi, un espero di orologi, ma alle Nazioni Unite, a quel tempo, forse ancora oggi, a queste cose non ci badavano, e lei suonava, ma i tacchi erano troppo alti, quasi a spillo, e la pedaliera era di competenza dell’amico, che avevo conosciuto a Ginevra, anche se a Roma viveva a due passi da casa mia e forse da piccoli avevamo giocato assieme nel piazzale del Viminale, dove la sera, di estate andavo a sedermi con i miei sulle panchine di marmo dell’esedra che accompagna la scalinata di accesso al Ministero dell’Interno, e la signora, molto bella, troppo bella per quella musica, che pure amavo, ma che mi sembrava mortificare la sua bellezza, anche perché né lei né l’amico erano grandi pianisti, il concerto però si tenne in un vero teatro, la signora ci invitò tutti, non so a chi mi rivolgo dicendo tutti, ma c’erano sicuramente altri oltre a noi tre, e la villa sul lago aveva un accesso stretto tra la casa e una lunga siepe, nessun verde per la siepe, e  soltanto dopo capii perché il viale di accesso fosse così stretto, dato che la villa, un perfetto, elegante parallelepipedo, stava proprio sul bordo del lago con il quale condivideva uno piccolo approdo, e fu durante quell’invito che per la prima volta in vita mia mi apparve il verde, quello acceso del suo vestito, un verde che le gambe di lei infiammavano ad ogni passo suscitando immagini sfavillanti, e il pavimento, complice, un parquet a listelloni larghi e massicci che davano la sensazione di camminare su uno sterrato antico, compresso e indurito dal tempo, contrastava con l’eleganza di lei, ma non con gli aggressivi richiami che seminava andando attorno nel salone, sollecitazioni apparentemente fuori norma in quella casa elegante,

anche se possono avermi condizionato e la mia predilezione per i pavimenti di legno, specialmente quelli di legno grezzo come si trovano ancora nelle baite della Val Gardena o in alcune case dei Grigioni in Svizzere, e la mania, vera mania, per le scarpe, specialmente le inglesi, quelle che durano tanto da apparire nei testamenti degli uomini eleganti, che non le hanno mai portate per più di un giorno, poi a riposare una settimana, in modo da consentire loro di affievolire il ricordo, sudato o meno, di un giorno di cammino, scarpe usate in maniera così misurata da superare i confini di una generazione,

e andava da questo e quello, ma mai da me, tanto che mi feci l’idea che avesse colto qualcosa nella mia attenzione, che le piacessi, forse, anche se la presenza del mio amico, bacchettone o geloso, a giudicare dalla musica che aveva fatto suonare a una donna così bella, la sua presenza mi impediva ogni approccio così che mi vidi costretto a darle  appuntamento per la notte, quando, a casa mia, a Losanna, la sognai a casa sua, sul lago di Ginevra, e lei, in pantaloncini, anch’io ero in pantaloncini, mi indicava il listellone  del pavimento da sollevare e dopo che l’avevo sollevato ci guardava sotto e mi faceva  di no con la testa eppure c’erano alcuni tasti del pianoforte, anche quelli neri, forse una ottava completa, non avrei potuto dirlo, non suono e, così com’erano, mi sembravano tutti uguali, colore a parte, e mi chiesi perché non facessero i tasti uno diverso dall’altro così sarebbe stato facile riconoscerli, magari più grandi i bassi e più piccoli gli alti o viceversa, e a quel punto lei mi indicava un altro listellone e anche lì un mucchietto di tasti e dopo il suo diniego andavo avanti a sollevare perché lei non era mai soddisfatta e arrivati all’ottavo, lungo e massiccio come i sette che l’avevano preceduto, pensai che c’era abbastanza per una tastiera completa ma lei mi costrinse a continuare finché fu quello giusto, lei sorrise ancor prima che lo sollevassi, e, quando vide l’acqua, si mise nuda, con un sorriso malizioso mi disse lui non vuole e scomparve nel lago come una sirena.

Mi svegliai nel pieno della notte, ma il sogno andò avanti per conto suo e fu allora che riapparve il verde acceso, quello del suo vestito – non sapevo che cosa succedesse alla psiche dei daltonici, se l’inconscio fosse affetto o immune da questa cecità – un’impronta profonda, un incavo verde dal quale scaturì, acqua pura, sorgiva, l’esigenza di eliminarlo, la polvere su un vecchio libro, le briciole di un pasto finito, la traccia  che andava cancellata, semplicemente – forse il pensiero era già balenato durante il concerto, la musica  imposta a una donna così bella -, e, in piedi vicino alla finestra, il lago, dall’alto della collina sopra Losanna, appariva rinsecchito, scuro come sangue rappreso, i pezzi da sistemare nel freezer, single, precotti e congelati al microonde, e, rimosso l’ostacolo, sposarla nella sua villa sul lago e lui, seppur servito in pezzi, invitato d’onore al pranzo di nozze.

Al mattino, lo chiamai per ringraziarlo della bella serata. Fu lieto del mio invito e all’inizio pensò che si estendesse anche a lei finché non gli dissi che era meglio tenerla fuori dalle nostre cose di uomini.

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