Premio Racconti nella Rete 2012 “La bilancia” di Pietro Pispisa
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2012Tra il centro della città e la Bocca d’Arno ci sono una dozzina di chilometri nei quali il fiume scorre sonnolento ma possente verso il mare. Le rive sono in genere arricchite da canneti che nascondono la bellísima strada Pisa- Marina, un túnnel ininterrotto di platani poderosi che d’estate sono rifugio e refrigerio dei ciclisti che coprono –ognuno col suo passo – la distanza tra i due poli: lo Stradone.
Al lato dello Stradone, corre una ferrovia a scartamento ridotto a un solo binario che raddoppia solo all’altezza delle quattro o cinque fermate del percorso, il cosiddetto Trammino o Trenino.
Nella decade che va dalla seconda metà degli anni ‘50 a metà dei ’60, quando il tempo si ferma perchè vivi nello splendore dei tuoi venti anni, con la determinazione di mangiarti il mondo intero e leggermente stupito perchè ancora non lo hai fatto, e cioè alla fine del Liceo e durante i quattro/cinque anni canonici dell’Università, il Trammino serviva a collegare Pisa con il mare ed a portare a Marina o Tirrenia orde di pisani che, le domeniche durante tutto l’anno e tutti i giorni della settimana, trascurando completamente la realtà metereologica, da fine giugno a settembre, si riversavano sulle spiagge del litorale con i loro bravi frigoriferi di plastica, ciambelle, ombrelloni più o meno pieghevoli, osceni aborti di chaises longues e il resto degli attrezzi necessari ad una famiglia per passare una giornata al mare.
A metà del cammino, tra Stradone e ferrovia, sorge del tutto solitario, il minuscolo, bellísimo eremo protoromanico di San Piero a Grado: Vuole la leggenda che, abbandonando la Terra Santa a bordo di un guscio di noce, l’apostolo Pietro approdasse giusto dove oggi è terraferma ma allora era foce di fiume e, in segno di gratitudine verso l’Altissimo per aver toccato terra senza grandi problemi, promettesse di edificare nel punto di approdo una Basílica a maggior gloria divina. Il passo da Basílica a eremo sta a ricordarci come il tempo, in ogni epoca, abbia saputo ridimensionare fatti, persone, idee e promesse.
Verso la foce, l’intervallo tra strada e fiume si allarga, dando luogo a una serie di costruzioni in legno, piú o meno rustiche, ma tutte attrezzate con un lungo palo inclinato verso l’acqua, che sovrasta il tetto della costruzione e che, a sua volta, culmina con una carrucola che porta una corda che va nel centro di una rete quadrata, tensata da due pali più flessibili e leggeri, incrociati fra loro a X: le bilance.
In posizione di riposo, la rete rimane in verticale come uno scudo donchiscottesco a difesa del palo grande, mentre, quando è in funzione, la corda che passa per la carrucola le permette di abbassarsi orizzontalmente, lambire l’acqua del fiume e, finalmente, immergersi nella corrente raccogliendo quanto, in quel momento, trasporta l’Arno.
In quel tratto –siamo ormai a pochi chilometri dalla foce- la corrente si fa più forte, il fiume si allarga leggermente, e passano a pelo d’acqua rami troncati, canne , resti di materiale galleggianti, ma si addentrano dal mare branchi di muggini avidi, nonchè guatti, qualche rara triglia e, quando è stagione, le piccole, preziose cee che risalgono la corrente nel loro misterioso peregrinare.
Da diverso tempo Fabrizio stava dietro a qualche propietario di una di queste bilance che fosse disposto ad affittarla, una domenica, ad un gruppo di giovani.
Una sera d’aprile, mentre Bruno, Manlio ed io ci trovavamo sul Ponte di Mezzo, e , reduci (almeno io) da una giornata consumata tra lezioni di Diritto Romano, Economia Politica e Filosofia del Diritto –il momento nel quale t’innamori del pensiero del Kelsen e passi in Biblioteca il resto della mattina e, dopo un frettoloso panino al Bar Volpi, l’intero pomeriggio a leggere i suoi scritti – sostavamo neghittosi e indolenti a prendere il calore degli ultimi raggi di un sole tepido ma generoso perchè abbracciava tutte le case dei lungarni dal Ponte Solferino a Piazza Della Berlina e fino alla Chiesa di San Matteo, arriva Fabrizio tutto pimpante e .ci anuncia , entusiasta, di aver concluso l’affitto di una piccola bilancia per la domenica successiva.
La notizia era attraente ma ci causava un qualche problema per trovare quattro ragazze disposte ad accompagnarci per passare una domenica insieme. Tuttavia Fabrizio stesso si era dichiarato disposto a fare un sondaggio tra le sue colleghe per sapere se accettavano la scampagnata con no
Fabrizio era il fattorino-factotum dell’unico “grande magazzino” che, in quei giorni, aveva Pisa: l’ UPIM.
Se oggi pensiamo ad un Grande Magazzino, lo vediamo alla periferia della città, circondato da un parcheggio smisurato e repleto degli oggetti più svariati.
Negli anni ’50, in una cittadina di provincia com’era Pisa, un Grande Magazzino si gestiva in pieno centro città, e lo si presentava con due vetrine con pudichi manichini che vestivano graziosi indumenti , un ingresso ampio, quattro o cinque banconi a pian terreno, uno con oggetti di cancelleria, un altro con camicie da uomo, un terzo con pentolame ed altri strumenti per la cucina ed un quarto con oggetti di ferramenteria. Una stretta scala mobile al fondo del locale, dava accesso, una persona alla volta, al primo piano dove si vendevano calze ed altri indumenti intimi femminili, i vestitini accennati in vetrina, lane da tricottare, biscotti,marmellate e dolciumi in genere, dischi di facile divulgazione, e poco di più.
Nella sua veste privilegiata di fattorino-factotum, Fabrizio aveva accesso se non a tutte le commesse dell’UPIM , certamente ad un numero rilevante di colleghe, alle quali, in qualche specifica occasione, aveva fatto un favore: mingherlino, con un volto da ragazzino appena appena vizioso e con un sorriso accomodante, Fabrizio ispirava certamente un sentimento materno in quel gruppo di signorine, inoltre, la circostanza che introduceva studenti universitari come Bruno e me, o che studiavano fuori Pisa, come il Manlio, gli dava un’arma in più che lui sapeva spendere con acume.
Succedeva così che per le nostre riunioni della domenica pomeriggio come per le scampagnate di tutto un giorno avevamo a disposizione un numero francamente esagerato di interlocutrici con le quali, ogni volta, era necesario rincominciare da capo.
La presentazione, in questi casi, seguiva un rituale ormai consolidato : si descriveva brevemente il proprio status per poi chiedere alla ragazza di turno qual’era il suo cantante preferito, se aveva visto un film recentemente che le era piaciuto, se aveva fratelli e di che etá (non era mai la prima domanda ma era molto opp ortuno chiarire la composizione familiare della interlocutrice), se leggeva le riviste del cuore e che personaggio dei fotoromanzi attualmente di moda le piaceva di più, e poi, quando ci si considerava amici più che conoscenti, se sapeva cucinare o fare dolci, se aveva viaggiato e, per esempio, aveva visto Firenze, dove andava in vacanza e se in quell’occasione aveva letto un libro che le era piaciuto, evitando tuttavia di toccare argomenti più impegnativi come la politica o la religione, per non trovarci davanti ad una esponente accesa di un partito o di una pia congregazione, circostanza questa che raffreddava, talvolta diffondendo un certo malestare a macchia d’olio , la relazione appena intrapresa e che prometteva tanto.
Anni più tardi, all’ultimo piano di un edificio di Fenchurch Street, nella sala da pranzo di un prestigioso broker londinese, dopo una trattativa serrata e senza esclusione di colpi per il controllo di una casa di intermediazione sudamericana, davanti a un roastbeef quasi crudo, con vasellame Wedgwood e dei “placemate” che lasciavano spaziare l’occhio su di una bellíssima e grande tavola di mogano così lucida che ci si poteva quasi specchiare, mi rendevo conto, durante il lunch, che gli argomenti che entrambe le parti esponevamo per rendere l’atmosfera più amichevole o, quanto meno, accettabile, erano praticamente gli stessi.
Fabrizio ci assicurò che trovare quattro colleghe che ci accompagnassero nella scampagnata di domenica, non era per lui nessun problema, e che, secondo consuetudine, le ragazze avrebbero portato il mangiare per tutti, mentre le bevande dovevamo procurarle noi, per l’intero gruppo. Inoltre le previsióni del tempo erano favorevoli perchè si prevedevano giorni di anticiclone e temperature primaverili..
In realtà, non eravamo solo i fornitori di bevande, ma, grazie alla passione di Bruno per i cantanti americani, anche i conoscitori delle ultime novità canore dell’altra parte dell’oceano.: Pat Boone,Ray Charles, Neil Sedaka, Bobby Vinton, e così via.
Valga il vero, chi era realmente il conoscitore sofisticato delle nuove tendenze statunitensi, era Bruno, al quale, in tono minore, faceva eco Fabrizio. Il Manlio ed io eravamo un po’ al margine di questa febbre, anche se ci piaceva ascoltare le canzoni che Bruno ci proponeva.
Quando lo conobbi, Bruno era studente di Ingegneria, credo allo stesso anno mio , al secondo, viveva con i suoi genitori in una casa antica del lungarno Galilei, quello piu in ombra. Aveva un carattere gioviale, non privo di una certa arguzia nel valutare persone e situazioni salvo quando si trovava in prossimità di un esame. Allora diventava progressivamente cupo, parlava poco, si arrabbiava per un nonnulla, non voleva vedere nessuno fino al giorno dopo dell’esame, che gli andava generalmente bene, quando tornava ad essere il Bruno di sempre, capace di restare dietro al Manlio ed a me, sul Ponte di Mezzo, e, presa la rincorsa, di saltare sulle nostre spalle e farsi trasportare tenendo le braccia rigide e penzolando a trenta centimetri da terra, per tutto il Ponte, fino a quando uno di noi due trasportatori cedeva e quasi lo faceva cadere per terra.
Diverso era il rapporto tra il Manlio e me ; da qualche anno compagni di classe, avevamo consolidato la nostra amicizia durante un’estate del liceo, quando ci accorgemmo di essere probabilmente gli unici due della classe a non emigrare al mare, ai monti, dalla famiglia fuori città, alle Terme con i nonni o quant’altro veniva in mente pur di saltarsi quei due mesi in cui l’asfalto delle strade cittadine diventava molle dal calore quasi costante per almeno due- tre settimane e un’ umidità diffusa ci faceva sudare giorno e notte.
Incominciò un periodo di discussioni serrate fra i due, che si prolungò anche al rientro a scuola: ricordo le furibonde diatribe del Manlio che adorava Sir Francis Drake o il suo disprezzo profondo per quel pensatore ambiguo che era Erasmo da Rotterdam: e quando io mi scagliavo contro il pirata inglese o esaltavo l’equilibrio dialettico dell’olandese, mi dava del.polemico che polemizzava per il gusto della polemica perchè chi aveva ragione era lui.
In ogni caso le discussioni su temi storici o filosofici erano assolutamente marginali e dove ci misuravamo di più era su argomenti politici, religiosi e/o di attualità. Io non riuscivo a comprendere come una persona apparentemente calma e posata, assumesse a volte posture così dogmatiche e radicali da sorprendere i suoi più prossimi amici.
Tuttavia il Manlio era anche colui che riuscivo a convincere ad accompagnarmi per un week end sotto la tenda sulle Alpi Apuane,e, portando con fatica uno zaino rigurgitante di maglioni e melanzane, pedaggio che aveva dovuto pagare alla mamma per avere il permesso, affrontava senza batter ciglio quei cammini stretti, scoscesi e ripidi, e, arrivato ai piedi del Corchia, al mio invito di raggiungere la cima, lasciava lì lo zaino, stringeva i lacci degli scarponi (presi in prestito o suoi?) si rimboccava i calzettoni e mi accompagnava affrontando in silenzio quel paio di ferrate che costellano gli ultimi trecento metri,( lui che non si era mai allontanato da quei mammelloni che sono i monti pisani) e arrivati alla croce arrugginita della vetta, mi abbracciava commosso per l’impresa e grato per averlo portato a viverla con me.
Al penultimo anno del liceo il Manlio venne bocciato e, rifiutandosi di ripetere l’anno scolastico nella stessa scuola dove il suo gruppo era andato avanti, optò per una alternativa brillante ed insolita, almeno in quei tempi: si mise a studiare l’inglese presso la British School di Firenze, dove andava quattro giorni alla settimana a lezione, arrivando senza difficoltà, in qualche anno, a conseguire il Proficiency. Questa diversione di programmi non ci allontanò perchè continuavamo a vederci quando era a Pisa ed a fare attività congiunta tutte le volte che si presentava l’occasione. cosicchè siamo rimasti in contatto per diversi anni anche dopo la sua partenza.
Già, perchè finiti gli studi, e dopo aver vissuto per un paio di estati l’esperienza dei “campi di lavoro” inglesi, il Manlio raccolse l’offerta che non so per quale canale gli era arrivata da Pechino, di diventare traduttore ufficiale di e in italiano nell’Ufficio Stampa di quel Paese. Fu così che, mentre io incominciavo nuove esprienze da piccolo emigrato a scala nazionale, mi trovai ad avere un amico intimo a migliaia di chilometri di distanza, che mi scriveva da un mondo, allora, totalmente sconosciuto, per il quale, lo confesso, sentivo sentimenti contrastanti.
Fu cosí che nelle mie prime esperienze di lavoro, fuori casa, albergato presso vedove che mettevano una o piú stanze a disposizione di studenti o impiegati, (come la Signora Leone di triste esperienza, non perchè ruggisse ma perchè ci dava il latte del mattino allungato dalla allora famosa “Miscela Leone”, cicoria allo stato puro), ricevevo con una puntualità impressionante da Pechino, ai primi del mese, la celebre rivista “L’Oriente è Rosso”, trentasei pagine di carta giallastra di cui 34 raffiguravano con fotografie di dubbioso colore il Viaggio di Mao in una regione della Cina profonda, l’arrivo dell’acqua potabile in un villaggio di 200.000 abitanti, il restauro di un pezzo della Grande Muraglia o l’incontro tra l’Ambasciatore di Birmania e il Governatore della Provincia di Sechuan, mentre gli ultimi due trattavano, visti da Pechino, aneddoti e commenti di personaggi o avvenimenti passati o attuali importanti, come l’invasione giapponese della Manciuria, i rapporti tra Pechino e Taiwan, la Lunga Marcia, le scoperte scientifiche sotto la dinastia Ching, il riscatto di terre paludose o desertiche : le uniche pagine che si potevano leggere pur non condividendo l’ideología di cui erano inevitabilmente cariche..
Più di una volta dovetti spiegare alle mie padrone di casa che la rivista mi veniva inviata da un amico fraterno : la mia versione veniva presa come “un cuento chino” e non so il peso che possa aver avuto sulla mia modesta carriera in una grande entità finanziaria questo particolare: in ogni caso non ho mai pensato di interrompere questi contatti anche se so per certo che, in un dato momento, l’Ufficio del Personale della Società era stato informato della mia inconsueta posta in arrivo da una gentile affittuaria.
E finalmente arriva la domenica
Il cielo è terso, come promesso dall’Ufficiale dell’Areonautica, l’aria fresca, come ci si aspetta da una mattina di aprile. L’appuntamento è per le 9:20 davanti alla stazione del Trammino, . il programma: andare tutti in treno fino alla fermata piú vicina coprire a piedi quelle poche centinaia di metri che separano la fermata dalla bilancia. Alle 9:05, quando arrivo io, un privilegiato perchè Via Lavagna è ad un centinaio di metri dalla Stazione, ci sono già Fabrizio, Bruno ed una ragazza: Silvana, carina. Bruno porta un cassone bianco e verde: il suo giradischi “portatile” mentre Fabrizio viene carico di bottiglie di Coca Cola ed altri prodotti simili. Il Manlio arriva poco dopo con i dischi che con cento raccomandazioni gli aveva affidato Bruno, ed un paio di bottiglie di vino.
Insieme al Manlio arriva la Luisa : sono già le 9:25 e mancano due ragazze. Io incomincio a manifestare i miei consueti segni d’impazienza per questo ritardo, e per distrarmi, raccogliendo il denaro dei presenti, vado al botteghino a fare i biglietti : Andata e Ritorno, per favore mi dice a che ora passano da quella fermata i trammini delle 16:30, 17:30 e 18:30? Grazie. Sono previsti treni aggiuntivi per il rientro? No.
Poi, con i pochi spiccioli rimastimi, all’edicola compro Il Mondo (quello di Pannunzio).
Ritornando dai ragazzi e facendo fretta perchè il trammino delle 9:30 , essendo già le 9:40 non può aspettare oltre, mi accorgo che il gruppo si è infoltito di tre ragazze, Maria, Ersilia e una certa Simona, sorella dell’Ersilia.
Guardo Fabrizio, Manlio e Bruno e vedo l’uno costernato e gli altri due tra l’arrabbiato e il divertito “I miei sono stati inflessibili, non ti lasciamo andare da sola, se non viene anche Simona tu non esci di casa!” Allora, facendo di necessità virtù, raccolgo il denaro delle tre, di corsa vado a fare i biglietti mentre la comitiva, si avvia al treno cicalecciando, li raggiungo montando nell’ultimo vagone quando il treno già incomincia a muoversi.
Il tragitto in treno non è lungo e lo impieghiamo per fare la reciproca conoscenza,.dato che mentre alcune ragazze ci sono familiari, altre le vediamo per la prima volta. Arrivati alla nostra fermata, con le fanciulle loquaci e chiassose, scendiamo e ci avviamo verso la bilancia. La descrizione della stessa data a Fabrizio dal proprietario è di una costruzione piccola con un patio davanti e delle canne selvatiche accanto al cancelletto. La bilancia è la terza dopo quella dei Paliodori, ricchi commercianti conosciuti da tutta la città per la loro abilità nell’ acquistare negozi, soprattutto di tessuti e vestiti a punto di chiudere per fallimento e rilanciarli con prodotti di lusso che solleticano una middle class emergente assetata di farsi notare dai concittadini. In effetti, la bilancia dei Paliodori è inconfondibile, la unica o una delle poche in muratura, con un enorme giardino ed un accenno di colonnato davanti e, soprattutto, una enorme bilancia azionata da un motore : l’invidia dei vicini. Meno male che la nostra è sufficientemente lontana da quella dei Paliodori perchè il confronto sarebbe angustioso.
Fabrizio cammina in testa e, arrivato al terzo steccato dopo la villetta dei Paliodori, apre trionfalmente il cancelletto di legno e , raggiungendo con un balzo il pianerottolo antistante alla porta della baracca, la apre senza difficoltà lasciando così intravedere un antro angusto, trasudante umidità, fornito di un mobiliario piuttosto approssimativo: due sedie a sdraio con i colori della tela alquanto sbiaditi, un tavolino con quattro sedie chiaramente consumate dal tempo e dai sederi di almeno tre generazioni, un buffet rustico di legno chiaro, con un sopralzo e due antine semiaperte in basso e, in un angolo, una massiccia sedia scura, di legno pregiato, con uno schienale alto, ampi appoggi per le braccia e un cuscino ricamato che adorna il sedile: deve essere stata, a suo tempo, la sedia della nonna, e, scomparsa la sua padrona, deve essersi trovata improvvisamente orfana perchè nessuno dei nipoti – e soprattutto delle rispettive mogli – era disposto ad accoglierla in casa sua.
Una latrinetta – con una porta che, nel caso in cui si cerchi una certa intimità, va tenuta chiusa afferrando la maniglia- ricavata anch’essa da un altro angolo della baracca completa l’arredamento. Le due finestre –se possiamo così nobilitare due feritoie con vetri – sono ai due lati opposti della costruzione e sono protette da due sbarre di legno all’esterno, mentre mantengono due vezzose tendine all’interno, sicuramente frutto di un gesto di buona volontà da parte della moglie del proprietario quando, lontano nel tempo, decise di arredare la baracca.
Apriamo tutto quanto c’è di apribile tra porte e finestre per cambiare l’aria e depositiamo sulla tavola i prodotti commestibili portati in egual misura dai ragazzi e dalle ragazze. Bruno è tutto intento a montare le pile nel suo giradischi portatile.
Ogni bilancia completa la sua struttura con un breve pontile solitamente di legno, lanciato verso il fiume di modo che un volontario armato di una lunga canna terminante con una retina da cacciatore di farfalle, appoggiandosi a una ringhiera che marca la fine del pontile e che dovrebbe essere il pezzo più curato e di fiducia dell’intero arredamento, raccolga i guizzanti prodotti di questa ormai marginale attività di “hunters and gatherers”. Se esistesse un Ente preposto al Controllo di Qualitá o semplicemente di Sicurezza dei Pontili delle Bilance della Foce dellArno, pur provvisto di forti raccomandazioni, il nostro pontile ben difficilmente avrebbe raggiunto i criteri minimi della normativa dei suddetti Istituti.
Sistemato il giradischi, Bruno, da bravo studente d’ingegneria si avvicina sospettoso al marchingegno della carrucola per vedere come funziona , ma c’è poco da studiare: rispetto alle analoghe strutture delle bilance confinanti, questa è la più semplice e la più primitiva. Sciogliamo la fune e caliamo una bilancia traballante e insicura fino al pelo dell’acqua. Ci arriva quasi una scarica elettrica: la corrente trascina con irruenza l’artefatto, strappandoci dalle mani due o tre metri di fune. Solo questo ci mancava, pensiamo tutti e tre (Fabrizio stava curando l’harem), che gli dobbiamo comprare una bilancia nuova! Impegnando buona parte delle nostre capacità fisiche, che non erano poi tante, recuperiamo i tre metri di fune rubati dal fiume e, dopo una serie di andirivieni perchè il fiume creava vortici inattesi intorno alla rete, oppure passavano rapide canne o cespugli che intralciavano il nostro lavoro, solleviamo la rete.grondante dal pelo dell’acqua. Le mani ci bruciavano ancora quando, minuti dopo, fermavamo la fune al piolo che la teneva ferma mezz’ora prima.
Va da sè che nessun pesce aveva pensato bene di farsi prendere da una rete minuscola gestita da pescatori incapaci: anche se non ce lo siamo detto a voce alta, qui finiva l’esperienza domenicale dei tre intrepidi “hunters and gatherers”.Nonostante l’evidenza, Ersilia viene da noi e, con voce argentina ci domanda quanti pesci abbiamo catturato. Il Manlio, alle volte è un po’ crudo nelle sue espressioni, ma questa volta mi è sembrato che le abbia dato una risposta da chierichetto.
Per evitare ripensamenti, Bruno si mette al giradischi e ci offre uno splendido campionario di musica contemporanea di oltre-oceano: è giusto in questi momenti che si nota l’abilità del disk-jokey e Bruno ce l’aveva. Anche se successivamente ammetterà che in quell’occasione si era già preparato la lista, in quel frangente ci sorprende con una sequela di canzoni l’una piu bella dell’altra.
Il resto della giornata passa senza infamia e senza lode, Fabrizio con le ragazze e noi tre per conto nostro. (io ostinandomi a leggere la mia rivista, il Manlio degustando i vini che aveva portato e Bruno perduto dietro al giradischi). Tutti d’accordo nel ritornare con il trammino delle quattro e mezzo, che alla nostra fermata arriva quasi alle cinque, prendiamo posto in un vagone quasi vuoto, nonostante sia domenica, ma non turbiamo vociando, il dondolante ritmo che culla gli altri passeggeri: noi tre leggermente irritati con Fabrizio per questa geniale scampagnata primaverile e le ragazze parlottando tra loro a voce bassa.
Peccato, Silvana era carina..
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Caro Piero,
non so se devo chiamarti Pietro, visto che così ti firmi, preferisco attenermi al modo con cui ti chiamavo ai tempi del racconto.
Bei tempi
E bel racconto
Mi ha rievocato il profumo di quei luoghi
Ciao, Giovanni
Bene, tramite questo bel racconto entro in contatto, forse, con uno dei protagonisti o comprimari del libro “Il mio 68” che mi ha dato la comune amica Gioia Maestro. che mi emoziona, tanto quanto lo ero quando ho scritto il mio 68. Comunque sentendomi vicino a chi lo ha scritto, o che vi compare, voglio inviare il mio messaggio, augurandomi che susciti interesse ed almeno un riscontro. Non ho altro mezzo per farmi conoscere.
Sono un ragazzo del ‘43, molto schifato dell’attualità politica e sociale, per cui mi sono rifugiato nel mio passato, così ho scritto un libro della mia vita, che è stata ricca di esperienze, attingendo a una sorta di diario, che ho sempre tenuto, con particolare attenzione agli anni 60-70, contestualizzando con i fatti generali.
Chissà che non riporti ricordi alla memoria degli anta, e che non possa dire qualcosa di nuovo ai millennials.
https://gianrelli.blogspot.com/
“Il racconto di una graduale presa di coscienza di un giovane della piccola borghesia attraverso molteplici esperienze formative. Gustoso diario dei giorni di naja (servizio militare); problematiche sentimentali dovute a educazione repressiva; esperienze di droghe leggere; viaggio in autostop e in oriente; il 68 e seguenti; attività varie e amici illustri; vita in comunità; arrivo in Sicilia, il Belice post terremoto…”
“Interessante esempio di romanzo autobiografico, a tratti poetico, con innesti sotto forma di diario, Però, quante ne ho passate! si configura come ottimo prodotto letterario, assemblato con cura dei dettagli, con stile puntuale,chiaro e immediato, con la volontà di pescare dal passato occasioni di riflessione per il presente o il futuro, con abilità nel rendere vivide le immagini evocate, tanto da far vivere empaticamente al lettore le esperienze narrate.
Un uomo che si mette a nudo, che racconta quello che adesso del passato è di moda: lottare per un ideale, crederci, fino all’inverosimile.
Infatti, benché molto personale, ci sembra in grado di raccontare, in maniera appunto originale, un ampio scorcio della nostra storia recente”…
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