Racconti nella Rete®

25° Premio letterario Racconti nella Rete 2025/2026

Premio Racconti nella Rete 2012 “Una domenica” di Caterina Salerno

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2012

Domenica tipo, pensò, mentre il corso si perdeva dietro le rotaie: cinema alle diciassette con Anna, l’amica più puntuale in senso affettivo, e poi discussione sul film, accompagnata dall’ennesimo caffè.

E poi ancora sarebbe stata sera ed altre sigarette fumate con rabbia per l’impotenza di un giorno buttato via.

Le domeniche erano per Marta buchi neri, occhi che vegliavano sul corso del tempo; di notte rientrava nel corpo che di giorno sentiva estraneo, quasi calamitato in un gigantesco ed assorbente corpo collettivo,

Appoggiata alla finestra fumava ascoltando il ritmo della strada e si colorava delle cose che guardava. All’improvviso il ricordo della lezione delle otto la riportò alla realtà ; chiuse le persiane e si buttò sul letto, spegnendo l’ultima sigaretta.

 

Il mattino seguente il vecchio tram la portò a Palazzo Campana : caffè al bar di fronte, sigaretta e di corsa per lo scalone presuntuoso, verso l’aula di matematica.

Il professore riempiva già la lavagna di segni misteriosi, che due suore riportavano scrupolosamente su  quaderni lunghi come i loro visi: coseni e seni danzavano sul mare nero e riapparivano per magia sul bianco immacolato degli appunti.

Davanti a Marta teste chine e gambe strettamente accavallate stavano in ordine e silenzio; il movimento studentesco si stava sfaldando e bisognava continuare a studiare, ricordava Gramsci, eppure quell’ aria in penombra faceva pensare più ad un santuario che ad una laica e statale università.

Il professore continuava a recitare le sue formule e l’unica alternativa era osservare quell’angolo di finestra da cui appariva la strada, irta di macchine afone. Da metropolitana coatta era affascinata dal movimento dei passanti sotto le arcate del centro storico e lei, immigrata con la famiglia negli anni cinquanta, rivedeva la campagna ed il mare soltanto d’estate.

Finalmente la lezione finì e Marta rifece il solito giro; Via Po, il fiume e la piccola trattoria dove si fermava a mangiare in attesa di riprendere le lezioni. Ai muri erano appesi quadri a olio che ritraevano la città e ai tavoli sedevano impiegati che sorseggiavano il caffè leggendo il giornale. Si respirava l’aria quieta della riservatezza piemontese e dell’ora di pausa dal lavoro quotidiano.

Arrivava il sabato, lunga giornata passata a studiare e a guardare tra le tende i piccioni,  che sui cornicioni  si muovevano come giocattoli a molla mal ricaricati.

Sabato, aspettando una telefonata che non arrivava e che pure riempiva il tramonto in fuga tra gli alberi  e le rotaie del tram.

Invece telefonò Anna, Anna dolce amica che scriveva versi, Anna macerata dalla solitudine, che sbucava da occhi nerissimi, Anna   matta e saggia, Anna da voler bene quando sorride e dice ho paura a gesti , mai a parole .

Anna dunque arrivava da Marta con  nastri colorati  sulla testa corvina, con abiti bizzarri ed ineleganti, Anna trentenne che faceva voltare uomini che mai la capiranno.

Decisero di andare al cinema; dopo la proiezione del film   entrarono in pizzeria e tra i bicchieri di vino Anna incominciò a parlarle  di lui, spianando la fronte alta e ovale: più giovane di lei, giornalista, fotografo e forse un’altra storia da vivere.

Marta fumava nervosa , nonostante l’invito da parte dell’amica, non avrebbe voluto salire con lei a casa dell’uomo. Anna insisteva, desiderava andare a trovarlo in compagnia,  per non rivelare i suoi sentimenti.

Il palazzo era nel centro storico della città ed il portone si  apriva su un cortile a ballatoio dietro un cancello di ferro battuto. L’immagine acuì il disagio di Marta che si passò automaticamente la mano tra i capelli ricci e corti.

Il ragazzo le aspettava appollaiato su uno sgabello e sorrideva divertito, lanciandosi insieme con Anna in una discussione intellettuale che  terrorizzò Marta.

Si sentiva persa, stupida e per darsi un contegno fissava ostinatamente ora il balcone aperto sul cortile ora il tavolo di legno, unico arredamento della stanza insieme alle seggiole.

La voglia di fuggire le immobilizzava il cervello.

Anna e Marta andarono nell’altra stanza  per guardare le fotografie scattate da Carlo e lì successe un fatto che Marta non avrebbe neanche immaginato: l’uomo incominciò ad accarezzare Anna, ma poi si spostò sul suo braccio e lo sfiorò dolcemente.

Il mattino arrivò e li trovò tutti e tre distesi sul letto. Marta era già sveglia, stupita, confusa, arrabbiata con sé stessa e con  acuto senso di colpa nei confronti di Anna. L’aveva tradita così , trascinata dagli eventi e dalle carezze di Carlo.

Bevvero il thé in silenzio e poi nell’aria serena del mattino accompagnarono Anna alla fermata dell’autobus, mentre Marta  e Carlo si fermarono a prendere un caffè in un vecchio bar di via Cernaia, dove lei gli diede il suo numero di telefono.

Carlo andò via e lei decise di andare sul Po a sentire l’odore dell’acqua e delle sue nuove emozioni.

Si sedette sulla panchina: le colline erano chiare e l’aria gonfia del salmastro di fiume. Un ragazzo le chiese una sigaretta e la accese davanti a lei, coprendole il sole. Marta   improvvisamente scattò in piedi e  per non cedere  al desiderio di entrare in acqua fuggì dal fiume salendo di corsa le scale dei Murazzi e rientrò nel mezzogiorno frenetico della metropoli.

 

La voce sottile di sua madre nel corridoio  rispondeva  al telefono nero appeso al muro ; era Carlo che le dava appuntamento sotto l’albero del Castello,  nella piazza più bella della città.

Un’ora dopo era sotto la tonda ombra, fuori dal sole di luglio, e la storia iniziò e proseguì come tante altre, con slanci, dubbi, tradimenti, frasi dilatate all’infinito e finì con l’ostinato amore di Marta e l’incomprensibile rifiuto di lui.

erano stati a Firenze insieme, visitando il ponte vecchio, il museo e mangiando in una trattoria dove Carlo le aveva stretto  la mano dicendole che l’amava.

Lo aveva raggiunto senza avvisarlo a Venezia per la biennale del Festival del cinema , cui Carlo partecipava  come fotografo, aveva trovato  un alberghetto economico e si era presentata a lui con il viso dipinto di colori  , come a un triste Carnevale dell’anima. Carlo le disse che non poteva restare con lei  e Marta delusa  fuggì  un’altra volta , prese il treno e ritornò a Torino.

L’ultimo incontro avvenne in un bar di Via Po all’angolo con Piazza Vittorio, erano seduti davanti alle vetrate e lui le spiegava che l’amava, ma non si fidava di lei, troppe volte l’aveva tradito e in effetti Marta pensava che i suoi atteggiamenti non fossero normali , ma era disperatamente innamorata di lui e non sapeva come dire, spiegarsi .

Quando lui partiva per il suo lavoro Marta  non riusciva più a concentrarsi per dare esami, usciva di casa e frequentava via Po, i suoi bar, le sue bancarelle di libri usati, vagava senza meta e conosceva gente di tutti i tipi, anche strani o loschi, e invariabilmente si ritrovava a far l’amore con uomini appena conosciuti, quasi una coazione a ripetere un gesto  che per lei non significava nulla, non era il dare l’anima, era una sorta di autopunizione inconscia : all’epoca le parve di essere una ragazza libera, anticonformista, una compagna che dal movimento  aveva appreso la liberazione sessuale, la morte della famiglia e la ribellione ad ogni autorità e regola sociale.

Carlo  l’aveva presentata a sua madre e aveva voluto farle conoscere il fratello minore e la sorellina Annalisa, una bimba  incantevole, bionda con due codini infiocchettati di rosa. La frangetta sottolineava due occhi a mandorla sorridenti e strizzati di gioia, labbra da cui usciva una vocina stridula che riportava alla sua diversità.

Carlo voleva sposarla, si era parlato di questo, ma aveva capito che Marta era malata e aveva deciso che non avrebbe potuto aiutarla.

L’ultimo suo regalo fu una sciarpa di seta gialla e viola che conservò per lungo tempo e che ora la strangolava come il sacco di tela di allora: il cortile, le galline urlavano o era lei che gridava per un altro inspiegabile abbandono

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