Racconti nella Rete®

25° Premio letterario Racconti nella Rete 2025/2026

Premio Racconti nella Rete 2012 “Hamadou” di Benedetta Lenci

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2012

Hamadou si volse verso il prato giallo dietro di loro. Era il solo ragazzo al tavolo, e non aveva più voglia di ascoltare quelle cose insulse che i grandi raccontavano, tipo dove erano stati in vacanza o quel che facevano al lavoro. Al tavolo in fondo c’era quello grasso col Game Boy, ma non si poteva muovere, sua madre lo marcava a vista. E lui, era inchiodato lì. Era caldo e nonostante il canniccio della tettoia il sole si faceva sentire.

Si alzò con fare noncurante. Per avere via libera, attraverso gli occhiali da sole cercò lo sguardo di suo padre. Lui gli sorrise tranquillo dalla parte opposta del tavolo, soddisfatto del pranzo e della bella giornata.

Hamadou si allontanò, costeggiò il prato tenendosi all’ombra del muro e svoltò l’angolo. Arrivando aveva visto un cartello che indicava la piscina, puntato dritto contro un sentiero che attraversava l’oliveto. Doveva vedere tutto di quel mondo così diverso dal suo. L’anno prima, appena arrivato da Dakar, aveva trovato la neve, all’aeroporto di Bologna. L’eccitazione di andare finalmente in Europa era scomparsa di fronte all’imprevisto e aveva avuto paura. Tante cose nuove e sconosciute, quella lingua incomprensibile, e poi non riuscire a fare i compiti, non riuscire a giocare con gli altri ragazzi come avrebbe voluto, comandando. Ma la moglie di suo padre diceva a tutti che lui era bravo, forte e furbo e che presto sarebbe diventato il capetto del cortile. Così, ci aveva voluto credere e da allora aveva deciso che niente lo avrebbe intimorito.

Si incamminò per il sentiero tra gli olivi, in salita fra i poggi. Nell’aria, l’ossessivo frinire delle cicale cancellava ogni altro rumore. Arrivò alla sommità dell’oliveto e guardò giù. Il sentiero continuava ancora per qualche decina di metri e finiva contro una piscina dall’acqua azzurrissima, addossata ad una sporgenza di roccia che forniva come un riparo naturale.

Decise che quello era il posto giusto per lui, molto, molto meglio di quello stupido pranzo sulla terrazza arroventata. E poi, nessun adulto in giro che l’avrebbe potuto sgridare. A passo svelto arrivò alla piscina. C’erano delle sdraio lungo il bordo e qualche ombrellone aperto. La pavimentazione continuava, dopo il grottone, con altre sdraio e ombrelloni a creare una zona di relax in mezzo al verde. Non la degnò di uno sguardo quella zona, buona solo per qualche vecchio sonnacchioso che non sapeva nuotare.

Si tolse maglietta e pantaloni. Rimase un attimo perplesso sulle mutande, ma poi tolse anche quelle: non aveva il tempo di farle asciugare e bagnate avrebbero macchiato i pantaloni come se se la fosse fatta addosso. Si mise a sedere sul bordo della piscina, con le gambe a penzoloni nell’acqua, aspettando il momento giusto per tuffarsi. Il sole gli batteva forte sulla pelle e la scaldava. Gli piaceva soffrire quel caldo, perché sapeva che, appena avesse voluto, si sarebbe immerso in quell’acqua fresca.

-Ciao bimbo.- La voce acuta alle sue spalle lo fece sobbalzare. Hamadou si voltò di scatto. Accanto a lui stava un vecchio grasso e calvo, con la pelle di un bianco innaturale. L’uomo si passò la lingua lentamente sulle labbra, imperlate di sudore, poi disse: –Posso sedermi anch’io?-

Le ombre si erano allungate sul pendio. L’oliveto era  quasi completamente immerso nell’oscurità, solo sul casale lassù in alto ancora splendeva la luce morente del sole. Hamadou alzò lo sguardo e lo spazio che lo separava da quella casa fiammeggiante gli sembrò infinito. Sarebbe stata dura arrivare fin là e subito rinunciò a contare i poggi che doveva risalire. Si avviò non appena riprese a controllare il respiro. Il cuore lentamente tornava al ritmo normale, un passo dietro l’altro, un battito dietro l’altro. Sentiva il corpo pesante e dolorante, ogni movimento gli costava sofferenza e fatica. Le gambe gli bruciavano, e a ogni passo gli sembrava di alzare con il piede una palla di ferro. Si legò bene le stringhe delle scarpe, appena rimesse, che per fortuna non aveva perso. Un passo dietro l’altro, il fiato ritornò a farsi grosso. Odiò quell’oliveto, duro, in salita, quell’erba alta e secca che gli graffiava le gambe attraverso i pantaloni leggeri. Al suo paese non c’erano quelle pendenze così ripide e quegli alberi, storti, piegati, contorti, tanto che gli sembravano cattivi. Alzò di nuovo la testa e di nuovo quella casa gli parve lontana, come se si fosse spostata mentre lui saliva. Riprese a camminare e superò un tratto più ripido. Si fermò per riposare, addossato a un albero nato proprio sul ciglio del terrazzo e che poi, per riconquistare stabilità, si era allungato col tronco tutto indietro, formando una specie di scivolo. Hamadou vi si appoggiò e chiuse gli occhi. Ancorato a quell’albero, si vide il grassone davanti e lui che con tutta la forza che aveva colpiva quel vecchio con un gran calcio e quello perdeva l’equilibrio e cadeva, giù, giù, senza fermarsi, rotolava di poggio in poggio, volando e sbattendo, e quasi rimbalzando, tutta quella ciccia grassa molle bianca che si sporcava di terra, che si graffiava, che si feriva, che finalmente sanguinava. Sangue rosso che spiccava sulla faccia pallida, e che colava sulla pancia lucida di grasso, sulle cosce di maiale. Le sue manine tozze che si tendevano, a cercare disperate un appiglio, che non c’era, no, non c’era.

Hamadou abbracciò quel tronco inclinato e si accorse della sua superficie rugosa, fessurata. Con il dito percorse le incisioni e le sentì morbide e accoglienti, appena increspate dai muschi secchi, gialli, che vi si erano raccolti. Si guardò intorno e notò che tutti gli alberi erano così, vecchi, forse stanchi, segnati.

Riprese a salire, dopo aver tirato un gran respiro, puntando deciso verso la meta. Un piede dietro l’altro, un battito dietro l’altro, un albero dietro l’altro. E poi un altro poggio e un accenno di sentiero che gli agevolava il cammino. Dopo un po’ si decise a scrutare l’orizzonte e questa volta, sì, la casa era più vicina. Brava, non si era spostata. Ormai mancava poco, qualche minuto e sarebbe stato lì. Si fermò per riprendere fiato per l’ultima tappa. Sedette per terra, voltandosi verso il pendio. L’oliveto si stendeva ai suoi piedi placido e largo come una coperta. Guardò giù, verso la piscina, ormai lontana. Lo vide con facilità, quel corpo bianco che spiccava, eccolo lì, ancora rotolava tra gli alberi, più lento, sì, era riuscito a frenare la sua corsa, aggrappandosi ai rami più bassi, all’erba più alta, ma non a fermarsi. Non poteva fermarsi, mettersi in salvo. Hamadou guardò la sua faccia, vi lesse  disperazione e insieme senso di colpa, brutto bastardo, allora lo sai che ti sta bene! Che pensavi… Ora vuoi salvarti eh, vuoi che ti aiuti? Ti faccio crepare, io! Crepa, crepa, crepa!

Un urlo strozzato gli uscì dalla gola, un urlo e un singhiozzo, e non fu capace di trattenersi e urlò forte, sempre più forte, con tutto il fiato che aveva, fino a non   averne più. Poi cominciò a piangere, convulso, il corpo incapace di fermarsi, dominato dai singhiozzi che dalla gola scendevano sulle spalle e sul busto, le braccia strette intorno al corpo e le gambe che sbattevano impazzite, come falene senza ali. Quando il corpo si placò, stanco di dolore, Hamadou sentì calde le sue lacrime, che, scappando via dagli occhi, gli solcavano il viso come un canyon, scivolando giù fino alla bocca. Il suo viso era il tronco dell’olivo, inciso dai segni delle lacrime, e lui beveva quel liquido salato e bevendolo si placava.

Si rialzò, controllandosi, e riprese il sentiero. Arrivò all’agriturismo, scavalcò la palizzata di legno e si avviò verso il ristorante. Sentiva la musica di sottofondo e le voci allegre di chi era rimasto a divertirsi. Aveva ripreso il controllo e sapeva che sarebbe apparso sulla terrazza con il più normale degli sguardi, era bravo a dissimulare. Sì, giurò a se stesso che mai nessuno nella vita avrebbe saputo quel che gli era successo quel pomeriggio.

Si fermò alla fontanella, controllando di essere in ordine. Tolse la maglietta per vederla bene, tutto a posto. I pantaloni erano sporchi sul sedere e in fondo, ma non ci sarebbe stato niente di strano. Che le mutande non ci fossero, sì, era strano, ma era sicuro di riuscire a nasconderlo. Si lavò il viso con l’acqua fresca e si accorse di avere le mani e le gambe sporche di sangue. Il suo sangue. E allora vide quelle sporgenze di roccia bianca che punteggiavano qua e là l’oliveto, e vide che il grassone era riuscito a rimettersi in piedi, barcollando, cercando l’equilibrio per salvarsi e che lui era su un poggio proprio sopra la sua testa e prendeva bene la mira con il piede e giù, gli assestava un calcio deciso e preciso sulle spalle così che lui cadesse, grave, come un sacco di patate, con tutta quella ciccia che pesava, giù di colpo per terra, schiantando la sua grossa testa proprio su quel masso, e vide che la testa si rompeva, si spaccava come un’arancia matura e ne uscivano fiotti di sangue rosso vivo, che macchiavano tutta la pietra e tutta la faccia, dove il bianco non si vedeva più, era solo lo sfondo di quel sangue rosso, vivo, pulsante, che usciva, usciva, usciva come usciva la vita. Sì, così era giusto.

L’immagine scomparve e Hamadou tornò alle sue mani, e poi alle sue gambe. Lì vide il sangue che era scuro, canaletti di sostanza densa rappresa gli segnavano le gambe in verticale, e la sua pelle nera lo confondeva, in qualche misura lo nascondeva. Ma non lo cancellava, non poteva. Lì il sangue, il suo, c’era per davvero.

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2 commenti »

  1. Una scrittura vibrante e vivida! Un racconto da leggere tutto d’un fiato: intenso ed emozionante! Molto molto bello! Complimenti Benedetta!!!!

  2. Ritmo serrato, atmosfera ipnotica e scrittura sferzante. Se si inizia a leggere e’ impossibile interrompersi o distrarsi. Bellissimo.

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