Racconti nella Rete®

23° Premio letterario Racconti nella Rete 2023/2024

Premio Racconti nella Rete 2012 “Thomas” di Damiano Battistoni

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2012

Era la primavera del ‘44. Mentre le armate tedesche gradualmente si ritiravano dall’Italia centrale verso il nord, i partigiani ancora combattevano sulle montagne.

Giuseppe, che viveva in una piccola frazione di Castelnuovo Garfagnana, comune della provincia di Lucca, era fuori della porta di casa seduto su una sedia a dondolo non più abile a tal scopo. Davanti a lui una gallina, l’unica, zampettava veloce. Non avendo di che fumare si accontentava di tenere in bocca la sua vecchia e amata pipa, scarica. Sua moglie Ersilia era andata a lavare i panni al torrente. Giuseppe si trastullava sulla sedia che scricchiolava sinistramente. Seguiva il volo degli uccelli che sfrecciavano sopra la sua testa. Quel giorno c’era un silenzio tale che ne sentiva le ali mentre in volo tagliavano l’aria. Con una punta d’invidia pensava al loro impegno per i nuovi nati. Sebbene Giuseppe ed Ersilia fossero sposati da diversi anni, ancora non avevano figli. Mai come in quel giorno, in cui tutto il creato gli appariva in un’esplosione di colori e orgogliosa e pulsante nuova vita, sentiva quella ferita così aperta. Soprattutto in un momento in cui la guerra pareva volgere al termine, e c’era chi, come Giuseppe, nonostante tutto riusciva a guardare al futuro con rinnovato vigore. Un rumore, simile a una nenia, richiamò la sua attenzione. Fin dalla nascita aveva sofferto di una forte miopia, questo sì, ma l’udito era sempre stato ottimo. Ben presto quel continuo lamento s’insinuò dentro la sua testa come un tarlo. Riposta la pipa in tasca dei pantaloni, sistemati gli spessi occhiali, si alzò e s’incamminò. Dietro casa, a pochi passi, c’era una collina. Da lassù giungeva il lamento. Per nulla intimorito, nonostante i tempi che correvano, Giuseppe cominciò ad arrampicarsi su per il pendio. A fatica si fece largo fra la vegetazione inciampando più volte. Giunto nei pressi da dove pareva scaturire il lamento gridò:

“C’è qualcuno là?”, ma non ebbe risposta.

Il lamento continuava. Ansimando si spinse oltre, fino a sfociare in un’ampia strada. Di fronte a sé, su un lato in uno spiazzo a ridosso della collina che continuava a salire, vide un fortino in cemento armato: un bunker, dalla cui feritoia spuntava, rivolta verso l’alto, quella che a stento Giuseppe focalizzò come una mitragliatrice. Adesso era certo: il lamento proveniva da lì dentro e si trattava di un pianto.

“Occorre aiuto?”, gridò ancora Giuseppe: era opportuno annunciarsi.

Ancora nessuna risposta. Il pianto non accennava a smettere. Lì per lì rimase fermo, indeciso sul da farsi. Infine, a piccoli passi, tossendo, si portò sull’ingresso del fortino. Guardingo, si affacciò dentro e vide un milite tedesco che stava piangendo. In mano stringeva un foglio, di certo una lettera, pensò. Giuseppe rimase talmente impressionato da quella scena inaspettata che rivide di colpo l’intera stirpe germanica sotto una nuova luce. Ancor più lo emozionò, dopo che cautamente si era avvicinato al soldato, rendersi conto di trovarsi di fronte a un ragazzo o poco più.

“Posso esserti d’aiuto”, chiese Giuseppe scandendo a fatica le parole e sperando d’esser capito.

“Tu, iutare? …Nein”, fu la risposta data in tono ironico dal ragazzo che dimostrò così d’intendere l’italiano.

Giuseppe, che temeva una reazione peggiore, tirò un filo di sollievo e si pose seduto vicino al ragazzo che intanto continuava a disperarsi. Poi, si chiese se non fosse stato meglio andarsene. Restare era rischioso: se fosse arrivato qualche altro soldato? Ma gli venne spontaneo insistere e scandendo bene le parole gli domandò se davvero non avesse potuto fare qualcosa per lui.

“Potere tu fare tornare me casa, taliano?”, gli rispose con stizza il tedesco mentre, verso Giuseppe, brandiva la lettera. “Mia donna spettare bambino. Io spettare bambino. Capire taliano?”

“Hai paura di non poterlo vedere, vero?”, aveva compreso il timore del giovane. Infatti, detto ciò, il ragazzo riprese a piangere con maggior sconforto.

“Donna mia no padre, no madre. Donna mia sola. Io solo. Capire tu taliano?”

Ma Giuseppe, timoroso di non aver capito bene, preferì chiedere ancora:

“Hai paura di morire e di lasciare soli tutti e due, vero?”

“Ja”, e di nuovo si lasciava prendere dallo sconforto.

“Quindi, vorresti salvare la pelle, magari tornare a casa?”, chiese non potendo fare a meno di deglutire. Vuoi vedere che questo ora mi spara… pensò Giuseppe.

“Salvare pelle…?”

“Voglio dire che hai paura di morire, di lasciare soli la tua donna e tuo figlio, vero?”

“Ja!”, fu la secca risposta del ragazzo prima che riprendesse a lamentarsi.

Giuseppe per un attimo si fece pensieroso. Estrasse la sua vecchia e amata pipa e se la portò alla bocca. Poi la posò a terra, si alzò, sbirciò attraverso la feritoia e uscì dal fortino. Dopo qualche minuto tornò dentro e si avvicinò al ragazzo.

“Ascoltami”, disse usando il tono più autoritario che poteva. “Vuoi davvero tornare a casa sano e salvo? Bene! Mi voglio fidare di te. Però anche tu devi fidarti di me. Capisci quello che dico? Bene. Non ho intenzione di ripetere quello che sto per dirti, quindi stai attento”

“Ja”, rispose ancora il tedesco che da quel momento non distolse più gli occhi dalle labbra di Giuseppe.

“Stanotte, a mezzanotte in punto”, e per farsi capire bene indicò l’ora sull’orologio del ragazzo che con la testa assentì in segno d’intesa. “Ti devi far trovare davanti all’ingresso del cimitero. Hai capito?”

“Ja, ma…?”

“Fammi finire. Da solo, devi venire da solo! Capito? Con te porti anche due pistole. Non ti sarà difficile nasconderle. Fammi finire! E più munizioni che puoi. Capito? Pensi di farcela? Te la senti di rischiare? Certo che ti puoi fidare, non lo sto facendo anch’io con te? Mi potresti denunciare. Se vuoi tornare a casa, fai come ti ho detto”

Finito di parlare diede una sbirciata fuori, e abbandonò il ragazzo, il fortino, la strada. Solo dopo gli venne in mente che del ragazzo non conosceva il nome. La prima cosa che fece fu di passare al torrente e avvisare la moglie che sarebbe stato via tutta la giornata. Poi, si diresse dove sapeva lui.

Convincere i partigiani non fu cosa semplice, ma Giuseppe era sicuro della buona fede del ragazzo e si disse disposto a rispondere in prima persona se qualcosa fosse andato storto. Alla fine fu deciso: si poteva rischiare. Poi, c’era la questione delle pistole e delle munizioni che tanto facevano gola. Quella notte andò tutto bene, ragazzo, pistole e munizioni giunsero nelle mani dei partigiani. Giuseppe apprese che il ragazzo di nome faceva Thomas, e che fu consegnato agli alleati. Solo più tardi si ricordò di avere dimenticato la sua amata pipa nel bunker, ma di ripassare anche solo nei paraggi del fortino era l’ultimo dei suoi pensieri.

 

Dopo la pacifica liberazione di Roma da parte delle avanguardie americane (i tedeschi se l’erano date a gambe levate) del 4 giugno 1944, la liberazione dal nazifascismo in toscana avvenne assai lentamente. Il 14/15 giugno fu la volta di Grosseto, il 3 luglio di Siena, il 16 luglio di Arezzo, il 19 luglio di Livorno e Pontedera, l’11 agosto di Firenze (ma la battaglia durerà in una parte della città per tutto il mese, fin quando il 1° settembre fu liberata Fiesole). Poi sarà la volta di Pisa: 2 settembre, Lucca: 5 settembre, Pistoia: 8 settembre, ma Forte dei Marmi soltanto il 21 successivo. L’avanzata alleata si esaurirà a circa16 kmda Bologna. Nell’autunno 1944 otto capoluoghi della Toscana erano stati liberati, ma non Massa e Carrara che verranno rese libere il 10 e l’11 aprile del 1945; non i comuni della Garfagnana e della Lunigiana, che lo saranno soltanto dal 16 al 27 aprile dello stesso anno.

Nel frattempo, Giuseppe e signora finirono sfollati nella campagna lucchese, ospitati da parenti di Ersilia. Faranno ritorno alla propria casa nell’estate del ’45.

 

Era una tranquilla Domenica in cui l’aria era satura del profumo di gelsomino in fiore. La guerra era finita da qualche anno. Giuseppe, fuori della porta di casa, si cullava sulla sedia a dondolo e fumava la pipa che brillava nella luce del giorno. Intorno a lui un cospicuo numero di polli e galline e pulcini zampettavano per l’aia. In lontananza sentì il rumore di un’auto. Lì per lì non diede importanza a quel rumore. Poi, strizzando gli occhi, intravide, non tanto distante, la sagoma luccicante di un’auto che a quel punto, senz’ombra di dubbio, era diretta verso casa sua. Un colpetto agli occhiali per assestarli meglio, e Giuseppe già stava in piedi certo che si trattasse di qualcuno che si era perso. L’auto si arrestò davanti a lui e ne uscì un giovanotto che a passo lesto e a braccia aperte gli andò incontro abbracciandolo e dicendo:

“Grazie, grazie, grazie, grazie, grazie, taliano, grazie…”, e avrebbe continuato per chissà quanto ancora se Giuseppe, con la pipa che cadeva a terra non lo avesse scosso da sé dicendo:

“Non posso crederci, sei proprio tu, Thomas? Ragazzo mio?”

“Ja”, rispose. “Io dovere portare te questa”. Era la sua vecchia e amata Pipa.

“Grazie”, disse Giuseppe emozionato. “Non so proprio come ho potuto farne a meno fino ad oggi”. E, commosso, la buttò dietro le spalle, e ancora tornarono ad abbracciarsi. Chiamata Ersilia fu la volta di conoscere la donna del ragazzo, Ann, e la loro bellissima bambina di nome Italia. Furono abbracci a profusione. Dovevano fermarsi solo per pochi giorni, ma non partirono più.

Da quel giorno per le galline dell’aia scoppiò la guerra: furono rincorse prima da uno e poi due e poi tre e poi quattro e poi cinque vivaci marmocchi.

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