Racconti nella Rete®

23° Premio letterario Racconti nella Rete 2023/2024

Premio Racconti nella Rete 2024 “Le sue mani” di Demetrio Bacaro

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2024

Ancora una volta non riesco a staccare lo sguardo dalle sue mani.

Mi hanno sempre affascinato, dotate di un potere più che ipnotico su di me. Le vedo muoversi e sembra come se l’universo trovasse una sua armonia definitiva, un’entropia sigillata.

Non sbagliano mai un movimento; non una flessione delle falangi, un divaricarsi non necessario tra il pollice e l’indice… Gesti essenziali.

Hanno dita lunghe e affusolate, innestate su una mano armonica, grande e aggraziata.

Credo che siano state la prima cosa a colpirmi di quest’uomo. E ancora oggi, dopo quasi vent’anni, esercitano il loro dominio sulla mia volontà di affrancarmene.

«Ti sei imbambolato ancora, Abee?», mi scuote la sua voce.

«No, Prof, ci sono, la sto seguendo.»

«Non direi, Abee. Cristo, sto praticamente annegando nel sangue e non vedo niente! Con quell’aspiratore devi stare più vicino e aiutami a tenere divaricato in questo punto.»

«Scusi Prof, ha ragione, dico io, eseguendo immediatamente i suoi ordini, camuffati da esortazione.

«E non chiamarmi Prof, quante volte te lo devo dire? Saranno trent’anni che mi aiuti e ancora mi dai del lei. Pietro non ti piace? Dammi del tu, perdio!»

«Sono meno di quindici anni, Prof, che lavoriamo insieme e a darle del tu non ci riesco, lo sa.»

Lui alza il viso abbronzato, nascosto in gran parte dalla mascherina, illuminato dalla luce intensa e diretta della scialitica, sembra quasi ieratico mentre mi lancia uno dei suoi rari sguardi con quegli occhi azzurri, intensi, volitivi e feroci, annacquati da una malinconia invincibile.

«Siete proprio strani voi ghanesi, Abee.»

«Abeeku, Prof, mi chiamo Abeeku.»

«So come ti chiami, ma a me piace di più accorciarlo in Abee. Ora ti dispiacerebbe aiutarmi con quella pinza sollevandomi quel foglietto peritoneale? Dobbiamo ancora farci strada in questa giungla di aderenze.»

Lo chiamano il ‘Nureev’ del tavolo operatorio per la sua eleganza del gesto, per la grazia con la quale riesce a estirpare masse anche ostinate con una leggerezza da far sembrare tutto facile.

Oggi stiamo intervenendo su questo caso disperato di un quarantenne, già operato di carcinoma del colon, che ha sviluppato una serie di noduli metastatici un po’ ovunque nella pancia, adesi al suo peritoneo. Nessun chirurgo ha accettato di metterci le mani, consapevole dell’enorme rischio operatorio e del probabile insuccesso tecnico. Ma lui no. Pietro Mugnacci non solo ha accettato di eseguire l’intervento, ma anche promesso al paziente di guarirlo.

Ambizione smodata, fiducia cieca nelle sue capacità tecniche, temerarietà e un certo grado di spavalda arroganza lo rendono uno degli uomini al contempo più idolatrati e detestati di Italia.

Non avrei mai pensato, poco più di vent’anni fa, quando ci incontrammo per la prima volta, che sarei diventato un suo collaboratore, oggi il più fidato.

Da una parte io povero ghanese immigrato su un barcone, con il nome datomi senza troppa fantasia perché nato di mercoledì, innamorato della forza guaritrice della medicina e della chirurgia, capace di studiare per ore e giorni quasi senza mangiare né dormire, con il solo scopo di diventare chirurgo e aiutare la gente. Dall’altra parte lui, già un nome all’epoca nel campo della chirurgia, guidato solo dal desiderio di dimostrare agli altri la sua bravura, la competenza tecnica, il suo sapere.

Ma ciò che ci divide in assoluto è questa sua totale indifferenza verso la sofferenza altrui. Pietro, il Prof per me, non guarda mai oltre il traguardo del successo chirurgico, non si occupa mai delle storie umane dietro alle malattie. Non dispensa guarigioni o salva vite: lui accresce solo il suo smisurato ego, coltivando la sua fame di infallibilità.

Non riesco a trovarci ancora, dopo ormai più di dieci anni nei quali sono diventato il suo aiuto chirurgo di fiducia, un briciolo di umanità, uno spunto di empatia. Nulla mi piace del suo carattere.

Ma la sua figura la adoro e le sue mani in movimento mi ammaliano. Senza scampo.

Sono passate quasi cinque ore e finalmente riusciamo a terminare l’ultimo punto di sutura sulla cute e ci accasciamo sulle poltrone del salottino della sala operatoria dell’ospedale.

Mi sento sfinito fisicamente, però euforico; forse abbiamo dato un domani a quel poveretto. Magari vedrà crescere ancora per molti anni quel suo figlio avuto da poco. Ho assistito e sono stato in parte artefice di un ulteriore miracolo chirurgico, un’esibizione tecnica da incanto.

Le sue mani non hanno sbagliato nulla, si muovevano in quell’addome come se ne fossero le padrone.

Le sue mani archetipo ed essenza della sapienza e della forza.

Lui è spossato. Ha dato tutto su quel tavolo operatorio; cinque ore di concentrazione spasmodica non sono uno scherzo.

Lo conosco e so che ora comincerà il suo tunnel del dopo.

«Ce l’abbiamo fatta anche oggi, Abee.»

«Sì, Prof, è stato incredibile oggi come sempre, un vero genio chirurgico. Anche se il domani di quel poveretto sarà costellato da una lunga fase di sofferenze e di dolori intensi prima di riprendersi.»

«Immancabile come sempre la tua filosofia e umanità, eh Abee? Non riesci proprio a capire che del dopo a me non frega niente? Io, noi, siamo chiamati a fare al meglio il nostro lavoro. Dimostrare che sono il più bravo è tutto quello che mi interessa. Nessuno lo voleva operare: “Impossibile riuscire ad essere radicali e risolutivi” – dicevano i grandi professoroni. Ebbene una volta in più ho dimostrato che si poteva fare, bastava esserne capaci. Io sono un artigiano, Abee, a me interessa che la mia opera sia fatta con maestria e precisione. Di quello che accade dopo, dell’utilizzo che la gente vorrà fare della propria vita, delle loro sofferenze e dei loro patimenti, non mi interessa. Io opero, risolvo, determino la riuscita dell’atto chirurgico. Solo questo mi importa, Abee.»

Inutile rispondergli, sarebbe stato lo stesso copione letto e recitato più volte.

E resto io qui a preoccuparmi di come accompagnare al meglio le persone nel percorso di ripresa. Mi preoccupo di assisterle, di fare il medico, e non solo il chirurgo. Lui, invece, già chiuso in sé stesso, è pronto a immaginare nuovi limiti tecnici da superare.

Aspetto. So che non mancherà molto alla metamorfosi. Mi sorprenderà come sempre vederlo diventare un’altra persona, fragile e persa nei suoi fantasmi. Ma sono pronto. Come sempre mi illudo che stavolta riuscirò ad accettarlo.

Passa la sua incredibile mano, quella mano che mi domina la mente, lentamente davanti agli occhi, con una stanchezza che mi trasmette lo sfinimento cosmico che lo sta già impregnando.

Si sta arrendendo.

«Ora però, ho bisogno di riposo e di riprendermi – dice come ogni volta – e tu sai che adesso tocca a te, sai cosa fare.»

«Sì, Prof.»

 Siamo in macchina ora, nella mia auto e con me alla guida. Lui, il più grande chirurgo che conosca e che forse sia mai esistito è afflosciato sul sedile passeggero. Non c’è più traccia del fuoco ardente dei suoi occhi. Ora ha uno sguardo annacquato, debole, quasi da drogato. Le sue mani non perdono fascino, nonostante il momento, ma sono mollemente appoggiate ai braccioli.

La sua mente, lo so, vaga nell’insondabile labirinto dei suoi dubbi esistenziali, del suo vuoto umano fatto di solitudine affettiva e di grandi imprese chirurgiche. Si sta interrogando sulla validità di un’esistenza votata al raggiungimento della perfezione tecnica, con il deserto intorno delle amicizie e degli amori. Lui vive per recitare sul palcoscenico della sala operatoria, per essere il migliore. Intorno a questo, ovunque si volti, vede solo il vuoto.

Ma l’ambizione è una droga e dubito che Pietro Mugnacci riuscirà mai a disintossicarsi.

Siamo arrivati nella sua bella casa, opulenta e deserta, senz’anima, ma abbondante di ogni lusso, arredi eclettici, elettrodomestici dell’ultimo momento. Sono trecento metri quadri di eremo dorato dove solo io ho accesso da ormai più di dieci anni. Solo il Prof e i suoi domestici a ore alterne calpestano il pregiato parquet in rovere sbiancato quando non ci sono io a riaccompagnarlo.

Ormai è come un involucro inerte; della sua possenza, del suo furore, della sua energia, rimane poco o nulla: solo le mani sono ferme ed eleganti, come sempre.

Si lascia aiutare a spogliarsi, come in trance. Gli tolgo tutti i vestiti e lo metto a letto nudo, coprendolo con il piumino.

Mi spoglio anch’io e lo raggiungo sotto la coltre.

Niente di erotico ci attende.

Lui ha solo bisogno che io lo abbracci con tenera decisione e che gli canti quella dolce ninna nanna insegnatami la prima volta che ha preteso questo servizio da parte mia.

In dieci minuti si è assopito, finalmente di nuovo quieto, con la sua incredibile mano destra avvinghiata con dolcezza alla mia coscia. Ne avverto tutta forza, il potere che ne emana.

Dovrò restare così a lungo a rassicurare il guerriero che gli incubi non verranno e poi, prima che ritorni il sole, vestirmi per andarmene.

Domani ci attende un altro intervento temerario e lui, svegliandosi da solo, studierà ancora e come sempre la tecnica più efficace per realizzarlo.

Di quanto accaduto qui non se ne parlerà, mai, come sempre da dieci anni.

Anche perché domani, dopo l’impresa, precipitato di nuovo nel suo vuoto esistenziale, avrà bisogno di un altro abbraccio e di un’altra ninna nanna.

Domani e ancora e ancora per chissà quante volte.

Dopo un paio d’ore stacco la sua mano dalla mia coscia e la bacio, teneramente. L’unico momento erotico di pura passione che ho deciso di concedermi in questa mia strana vita, al fianco di un uomo che detesto e che adoro.

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