Racconti nella Rete®

23° Premio letterario Racconti nella Rete 2023/2024

Premio Racconti nella Rete 2022 “Un giorno buono” di Luisa Patta

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2022

Il citofono suonò. Guido scattò sulla sedia. Non aspettava nessuno, pensò ad uno scherzo e si riappoggiò sul cuscino. Il citofono suonò di nuovo, più a lungo.

«Chi è?» domandò l’anziano, interrogando con curiosità lo schermo dell’apparecchio.

«Sono il corriere, c’è un pacco da ritirare.»

«Un pacco per me? Impossibile!»

«Guardi signore, l’indirizzo è giusto. Glielo lascio qui, il pagamento è già stato fatto. Buona giornata.»

Il citofono si rabbuiò, lasciando Guido interdetto. Era sicuro che il pacco non fosse per lui, ma non si lasciò sfuggire una scusa così ben confezionata per scendere dopo tanto tempo le quattro rampe di scale. La discesa fu più faticosa del solito, anche perché non sopportava di indossare la mascherina. Il respiro era corto e affannoso, le ginocchia già doloranti dopo pochi gradini. Procedeva lento aggrappato al corrimano, come una ruspa arrugginita.

Il corriere aveva ragione, sul pacco c’era il suo nome. Per fortuna non era molto pesante, lo mise in una busta che legò al braccio e cominciò la risalita. La pandemia aveva tolto il traffico anche lì, nessun «Buongiorno, signor maestro» risuonò per la tromba delle scale.

Il pacco non era per lui, doveva essere un malinteso. Uscì fuori uno di quei marchingegni neri, lucidi, di ultima generazione. Sulla confezione c’era scritto “Amico Tablet 10.1 pollici con grandi icone”. Guido si fece una risata stizzita, la parola amico su quella confezione era proprio uno sproposito. Cosa avrebbe dovuto farci lui con quell’oggetto? Sapeva bene che ora il mondo comunicava solo attraverso quei piccoli schermi piatti, ma a Guido bastava la tecnologia del suo cordless, dove c’erano memorizzati tre numeri in tutto: il dottore, l’amministratore del condominio e la scuola, naturalmente. Anche se erano anni che quel nome non lampeggiava più sul display. Perfino la linea telefonica era diventata avara di parole.

Provò a pensare a come disfarsi del pacco indesiderato, ma c’era confusione sul pianerottolo. Un piastriccio di passi, un mormorio di voci sempre più forte, che anche le sue orecchie un po’ ovattate riuscivano a sentire distintamente. Guido si avvicinò al portone e sussultò di spavento quando sentì suonare il campanello. Non era ancora pomeriggio e quella giornata poteva già essere annoverata come la più movimentata dell’ultimo semestre.

La porta si aprì, lo sguardo di Guido scese fino all’altezza del campanello e trovò due occhi nerissimi, come due chicchi di caffè. Il resto del viso era nascosto dietro una mascherina rosa che impediva di cogliere qualsiasi lineamento. Faticò a riconoscerla, ma la porta accostata alle spalle della bambina gli diede un indizio. Era la figlia della nuova vicina, una ragazza peruviana in affitto nell’appartamento di fronte. Erano arrivate lì prima di Natale, con due enormi valigie e poco più. Guido aveva seguito il loro ingresso nel palazzo dalla sua terrazza, con quella curiosità impertinente che si perdona solo agli anziani. Poi pochissime altre occasioni di incontro, la quarantena aveva rinchiuso tutti nelle proprie tane. Anche se quell’appartamento sembrava ancora disabitato, mai nessuna voce o un rumore qualsiasi. A tradire la loro presenza erano solo l’odore di soffritto e le spezie che largamente adoperavano in cucina, che invadevano il pianerottolo e arrivavano allo zerbino senza bisogno di presentazioni.

«Signor Guido, buongiorno. Io sono Luz, vivo qui davanti con la mia mamma. Non ci conosciamo, ma le mie maestre mi hanno parlato tanto di te! Hanno detto che posso chiederti aiuto.» La bambina parlò tutto d’un fiato e le parole sembravano ricamate tra loro, con quella graziosa inflessione spagnola che solo a sentirla faceva viaggiare lontano, senza nemmeno muovere un passo.

«Piacere di conoscerti, Luz. Come posso aiutarti?»

«La scuola ora è chiusa e le mie maestre ci fanno lezione a distanza. Si chiama così perché loro sono a casa, anche noi siamo a casa e ci vediamo tutti dentro il computer. Noi però non lo abbiamo e facciamo con il cellulare… io sono brava con il cellulare, sono brava anche con il computer a scuola… ma il cellulare non va bene signor Guido, mi fa sbagliare i compiti. Ci vedo piccolo e quando la maestra parla si blocca tutto e rimango indiet…»

«Chi sono le tue maestre, Luz?» la interruppe Guido, aggiustandosi la voce per mascherare l’emozione. Si sentì percorso da uno slancio di tenerezza che trattenne a fatica. Riconosceva ancora a colpo d’occhio i bambini in difficoltà, gli arrivavano dritti al cuore con una potenza disarmante. Avrebbe accarezzato il viso di Luz dicendole che non sarebbe più rimasta indietro, ma non sapeva come impedirlo.

«La maestra Lara e la maestra Nella, le conosci vero?» La fresca voce di Luz lo riportò alla conversazione. «Mi hanno detto che anche tu eri un maestro della mia scuola.» continuò la bambina.

«Sì, Luz, sono stato un maestro nella tua scuola per tanti anni.»

Ogni volta che un bambino pronunciava le parole «la mia scuola» nella testa di Guido si apriva un mondo, un’esplosione incontrollabile di empatia. Un bambino che sentiva propria la sua scuola era un bambino felice di farne parte. E questo per Guido era ancora la cosa più importante.

Luz lo fissava attentamente, strizzando i neri chicchi di caffè, per non perdere ogni sua singola parola. Ma lui ogni tanto restava in silenzio e lei non capiva se questo fosse un buon segno.

«Allora mi puoi aiutare con le lezioni a distanza? Mamma è tornata al lavoro e non sa come fare, non può lasciarmi il cellulare perché lo usa per lavorare. Le maestre hanno detto che tu ci puoi aiutare. Quello lì, sul tavolo, è un tablet… è un tablet, signor Guido?»

«Credo proprio di sì. Lo hanno appena consegnato, ma si tratta di un errore. Io non l’ho mai ordinato, sicuramente lo devo dare indietro. Mi dis…”

«Ma le maestre mi hanno detto che tu hai un tablet e che puoi aiutarmi!»

Allora Guido capì. Sorrise, un sorriso sornione, accondiscendente. Ma Luz non lo vide, le mascherine non sorridono mai. «Luz, tua mamma non c’è, è al lavoro ora?»

La bambina annuì.

«Facciamo così: metti il gel sulle mani e vieni con me.»

Guido era emozionato, era da una vita che un alunno non metteva piede in casa sua. Era anche titubante però, la pandemia gli aveva tirato fuori le paure più incontrollabili e viscerali, seminando un vuoto sociale incolmabile intorno a lui.

Quel vuoto per Guido non era una novità, ma in quegli ultimi mesi era diventato insostenibile. Gli aveva tolto anche il suo giro mattutino del quartiere, le chiacchiere con il giornalaio. Gli aveva rubato tutto. A poco a poco il vuoto era diventato letale, più del virus. Era il momento di tornare a riprendersi qualcosa.

Guido riordinò velocemente tutti i dubbi che gli ronzavano in testa: che distanza tenere dalla bambina, sarà sicuro frequentarla, dovrò disinfettare tutto quello che tocca. Poi lasciò spazio all’unico pensiero che si faceva largo con prepotenza: aiutare Luz, con tutti i mezzi e le capacità di cui era in possesso. Di questa decisione, già lo sapeva, non se ne sarebbe mai pentito. La voce della bambina, così musicale e vibrante, aveva già riempito la stanza di speranza e di colore. Aveva rotto un silenzio assordante, anche da sotto la mascherina. Aveva aperto le danze ai ricordi più belli di Guido.

«Hai detto che sai usare questo marchingegno, giusto? Prova ad accenderlo e vediamo cosa possiamo fare insieme. Intanto faccio una telefonata.»

Guido prese in mano la rubrica che teneva all’ingresso e scorse nomi di gente di cui non ricordava nemmeno l’esistenza. Arrivò alla lettera N e si fermò. Compose il numero.

«Ciao Nella. Sono Guido. È bello sentire di nuovo la tua voce. Immagino stessi aspettando la mia telefonata.» Guido cercò Luz con lo sguardo e continuò: «Sì, sto bene e non c’è niente che mi devi spiegare, ho capito tutto. Ricordi quando mettevamo pacchi di quaderni nuovi sotto il banco, quando lasciavamo sulla cattedra astucci di materiale a disposizione per tutti? Non ci siamo mai detti niente, lo facevamo e basta. Un gesto gentile, istintivo, come correggere un’acca o appuntare una matita spuntata. Non lasciare soli i nostri bambini nelle loro difficoltà è il gesto più nobile, il primo. La genesi di ogni nostro insegnamento. Ora tu e Lara non soltanto non lasciate sola Luz… non lasciate solo neanche me.»

La telefonata proseguì, finché Guido appoggiò il cordless e tornò in cucina. Le sue mani avevano bisogno di fare, si mise a preparare la moka. Quei gesti lenti e rituali lo aiutavano a raccogliere i pensieri. Osservò il suo viso riflesso sul coperchio alzato del piano cottura e si disse quello che per anni aveva ripetuto ai suoi bambini. «In un mondo in cui puoi essere qualsiasi cosa, sii gentile. Ogni giorno è buono per ricominciare.»

Dall’altra stanza provenne una musica. Luz era riuscita ad accendere il tablet. Aveva uno sguardo vispo e soddisfatto, i suoi occhi illuminavano la stanza come fosse mezzogiorno.

Guido la guardò e sorrise intensamente. Così tanto intensamente che questa volta anche la mascherina sorrise.

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2 commenti »

  1. Bello, bello, bello! Tenero, toccante, delicato e commovente.scritto molto bene.
    Intramontabile il tema del vecchio e il bambino, nuova invece l’ atmosfera estraniante della pandemia, che svanisce però grazie ad una mascherina che sorride. Brava, complimenti!

  2. Bello e ben scritto, con dialoghi, descrizione di ambienti, persone e altro ancora che lo rendono piacevole alla lettura.

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