Racconti nella Rete®

23° Premio letterario Racconti nella Rete 2023/2024

Premio Racconti nella Rete 2022 “Lezioni di vento” di Luisa Patta

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2022

«Teo, nun ristari davanti a’porta. Trasi, ca sta arrivannu u malutiempu.[1]» Turi non ha uno zerbino all’ingresso, ma un sorriso che sa di benvenuto e di caffè appena fatto.

Teo si toglie le scarpe, appoggiandosi alla parete. La piccola barca di Turi sta aumentando il rollio e l’acqua inizia a incresparsi tra gli ormeggi.

«Perché sei diventato mio amico?» Irrompe nel silenzio la domanda di Teo.

«Sono io che lo chiedo a te.» Ribatte Turi, senza alzare lo sguardo dalle sue mani, occupate a rammendare una vecchia rete da pesca.

«Sono diventato tuo amico perché la tua barca è l’unica casa accogliente di questo dannato paese.»

«Sai Teo, quando avevo la tua età, questo posto era molto peggio di adesso. Non potevi fuggire, da nessuna parte. Avevi gli occhi degli altri cuciti addosso, ovunque andassi. Vedi questo ago? Ti entravano dentro quegli occhi, come fa l’ago in questa rete, e si insinuavano sotto la pelle con il loro schifo, il loro disprezzo verso di te. In nessun posto ero salvo. Tu sai di cosa parlo, vero?» Turi alza il viso di botto, come avesse una molla sul collo.

Teo lo fissa, con le palpebre sbarrate. Conosce bene quegli occhi, sono anni che se li porta addosso, forasacchi infestanti che una volta entrati nella trama del tessuto non c’è verso di liberarsene. Non senza uno strappo.

«Ho sentito cosa dicono di te, Teo. Sono salito in piazza ieri per delle commissioni.»

«Odio tutti, Turi! Voglio scappare da questo posto schifoso!»

«Fallo Teo, se è quello che vuoi. Tu meriti un mondo in cui riconoscerti, che non ti cucia addosso il suo odio e quello che non sei. L’omosessualità è una parte di te, non rinnegarla mai. Ama chi vuoi ragazzo, ma soprattutto, bada bene, rispetta tutti. Anche quelli che non ti rispettano. Io non sono venuto qui per nascondermi, l’ho fatto solo per proteggermi, ma sono rimasto incastrato. Avrei voluto che la mia casa accogliente fosse al centro del paese, ma anche quando le cose potevano cambiare ho portato troppo rancore e non ho saputo perdonare.»

«Turi, sei sempre troppo severo con te stesso. Io ti ammiro invece e questo posto per me è stato un angolo di salvezza in questi anni.»

«Sbagli ragazzo. Questa barcarola rattoppata è diventata la mia prigione. Non ci finire anche tu. Per te, amico mio, voglio una vita in mare aperto.»

«Vinni ‘ca pi salutariti, Turi. Haiu pinsatu c’haia a partiri, nun pozzu arristari ‘ca.[2]»

«Lo sapevo ragazzo, sei sempre stato in gamba. Questo posto ancora non ti merita. Ma lo farà, dagli un po’ di tempo.» Turi lascia cadere a terra la rete. Ora le sue mani, segnate dai tanti anni in mare, sembrano corde da pesca intrecciate anche loro, impegnate a tirar fuori parole dalla sua bocca.

«Lascia stare i giudizi degli altri. Non recriminare. Porta questo posto nel cuore, ovunque andrai, perché odiarlo non ti servirà a nulla. Un giorno tornerai tra i suoi colori e te ne sentirai parte. Forse ne sarai la sfumatura più bella. So che succederà.»

«Tu non hai paura a restare qui, da solo?»

«Non sono solo. Ho il mio tempo, il mio pensiero libero, il mare che entra ed esce da me, giorno e notte. Ma non è più il momento di costruire. La mia barca sta tornando al porto per l’ultimo ormeggio.»

Il silenzio tra loro si fa denso, come la nebbia che sale la sera dal mare, quando l’aria calda passa ad accarezzarlo.

«Sta cambiando il vento, vero Turi? Stasira nun chiovi, tu dicu iu.[3]»

Turi sorride, i suoi occhi sono lucidi. «Sei pronto, Teo. Hai imparato a riconoscerlo.»

Teo risale a due a due gli scalini in pietra del porticciolo, non gli era mai sembrato così piccolo prima d’ora. Minuscolo, un cono di imbuto che si restringe dietro di lui, fino a sputarlo fuori. Fuori lo aspetta un biglietto aereo per Parigi, quella borsa di studio fatta per caso stava tracciando la traiettoria più lunga della sua vita e lo avrebbe scaraventato al dì là del mare, dove non arriva a indicare neanche la sua bussola.

Tiziana sta chiudendo il negozio, quando Teo le piomba alle spalle. Non si è fatto vivo per tutto il giorno, la partenza incalza e lei si sente per la prima volta in difetto. Pensa di dovergli qualcosa, un alloggio sicuro, una scorta di cibo da portare via, un sostegno economico, delle valide raccomandazioni, ma non fa nulla di tutto questo. Non si è mai comportata da mamma apprensiva, da mamma chioccia e per coerenza non avrebbe iniziato a farlo ora. Teo è cresciuto da solo, lontano dalla sua boutique al centro del paese, lontano dalle sue vetrine perfette e dallo stile sofisticato. Sua madre è la regina di quella piazza, il fulcro del chiacchiericcio delle signore che contano. Riesce a essere ingombrante pur non facendo nulla, pur stando zitta, con tutto il suo strascico invisibile di perbenismo e quieto vivere. Per Teo il negozio è un buco nero, non ci mette piede da quando è bambino, da quando le signore ingioiellate strizzavano le sue gote piene fino a fargli male. L’avrebbe salutata lì, sulla porta.

Si avvicina da dietro, in silenzio. Lei avverte la sua presenza, scrolla le spalle facendo scivolare inavvertitamente una spallina del vestito. È ancora bellissima, una donna sulla cinquantina che avrebbe potuto conquistare il mondo, se solo avesse voluto. Lui non la odia, nonostante le forti incomprensioni, nonostante le profonde distanze. Odia tutti in paese, ma lei no. È sua madre, non avrebbe mai potuto. Ma fugge da lei, il più lontano possibile. Fugge dalla sua perfezione inscalfibile, dal suo punto certo nel mondo, dalla sua paura di graffiare la superficie e andare a fondo. Lì, appena sotto la superficie, c’è Teo. E Tiziana non era mai riuscita a vederlo.

Quando era piccolo gli abbracci erano facili. Teo se li ricorda. Abbracci semplici, perfettamente speculari, leggeri, frontali. Poi era cresciuto ed abbracciarsi era diventato sempre più difficile. Ma non per l’invadenza del corpo, anche se così si è portati a pensare. Piuttosto per l’invadenza dei pensieri, dei vissuti ingombranti, delle diversità.

La abbraccia alle spalle, all’improvviso, intrappolandola con forza, lasciandola orfana di braccia. Gli abbracci dei figli cresciuti sono abbracci da dietro, sono abbracci che hanno girato in senso orario fino a trovare una zona d’ombra dove tutto è concesso, dove non ci sono ruoli da rispettare ma ci si può incontrare anche se in disaccordo. Un po’ come abbracciarsi immersi nel mare, galleggiando, senza il peso della gravità. Gli abbracci da dietro sono abbracci sospesi, senza risposta.

«Fa bon viaggiu, Teo. T’aspetta Parigi.[4]» gli dice sottovoce, sfiorando le labbra sulla sua fronte, nel goffo tentativo di voltarsi per guardarlo negli occhi.

Turi esce in mare quella sera. Fa pesca grossa nonostante il suo cattivo umore, che avrebbe tenuto lontano chiunque.

«È davvero un grande spreco, non avrò visite per molto tempo», gli scappa questo pensiero dalla bocca. Cucinava pesce solo per Teo, ora non sa che farci con tutto quel ben di dio. Lo pulisce con maestria, con gesti lenti e ripetuti. Si lava le mani con il succo del limone appena spremuto e poi riempie il congelatore a pozzetto che teneva nella cambusa. Mangia la porzione di pesce che si era tenuto da parte per cena e guarda il cielo, scandagliando le sue stelle più delle altre sere. Un aereo sarebbe volato in quel cielo, portando altrove la sua parte migliore.

Teo fissa l’oblò, la sagoma della sua isola è ormai impossibile da distinguere, coperta da un manto di nuvole. Teo rimane immobile ad osservare quella realtà andarsene dal suo corpo, come forasacchi infestanti che finalmente si staccano di dosso.

«Un giorno tornerai tra i suoi colori e te ne sentirai parte. Forse ne sarai la sfumatura più bella. So che succederà.» Queste parole gli tornano alla mente, come la calda voce di Turi nelle sere di vento sul pontile, che ora sembrano già lontane.


[1] Teo, non restare sulla porta. Entra, sta arrivando il temporale.

[2] Sono venuto per salutarti, Turi. Ho deciso di partire, non posso rimanere più qui.

[3] Stasera non pioverà, te lo dico io.

[4] Fai buon viaggio, Teo. Parigi ti aspetta.

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2 commenti »

  1. Anche questo racconto, come ” Un giorno buono” è bellissimo e toccante. L’ uso del dialetto lo rende ancora più intenso.
    Sempre commovente il rapporto tra il vecchio e il bambino (cresciuto), struggente la solitudine che lega queste due persone, ma rassicurante la fiducia che in un futuro le cose possano cambiare…”Un giorno tornerai tra i suoi colori e te ne sentirai parte. Forse ne sarai la sfumatura più bella”…commenti davvero!

  2. Mi piace come scrivi, complimenti.

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