Racconti nella Rete®

23° Premio letterario Racconti nella Rete 2023/2024

Premio Racconti nella Rete 2010 “Il giorno prima di ferragosto” di Emanuela Faiazza

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2010

Era giù in giardino, la sentivo urlare. Non afferravo quello che diceva, ma stava urlando. Dopo un po’ ha smesso, ma più tardi ha ripreso più forte di prima. Ho poggiato il libro di Jhon Fante sul comodino e sono scesa dal letto. Pensavo che avrei potuto mangiare pane e nutella per merenda. Da tanto non ne mangiavo e per quel giorno non mi avrebbe fatto certo male mandare giù roba dolce. 

Mi sono messa in ascolto avvicinando l’orecchio alla porta. Non me ne frega niente, ho pensato poi. Che urli pure quella cagna, e sono tornata a letto a leggere Chiedi alla polvere. Me lo aveva regalato mio fratello per il compleanno, quel libro. Lo aveva rubato a casa di un amico. Tanto non lo avrebbe letto nessuno lì, mi aveva detto. Avevo finito il capitolo dove Arturo Bandini si innamora di una barista messicana, ma lei poi se ne esce di testa per un altro. Quella storia era almeno tre volte che la rileggevo. Mi piaceva.

Dopo un po’mia nonna mi è venuta a cercare in camera. Aveva una faccia balorda, non so bene.

Vai a vedere che cos’ha tua madre, ha detto. Sta dando uno spettacolo, e restava impalata vicino alla scrivania. La nonna me lo aveva ripetuto un sacco di volte che lei voleva rovinare la famiglia. Non avevo mai voluto darle retta.  Le passerà anche questa volta, le ho fatto. Non ti preoccupare, e con le mani stringevo il libro aperto davanti a me. Volevo che lei se ne andasse in fretta, così avrei potuto continuare la mia lettura.

Sulla porta si è fermata e ha afferrato la maniglia. Sembrava volesse dire qualche altra cosa. Però non ha detto niente, ha tirato dritto. Non avrebbe cacciato fuori di nuovo la faccenda di mia madre. Ormai cominciava a farci il callo pure lei. Quando è tornata ad affacciarsi, mi ha lanciato un’occhiata e si è tolta una forcina dai capelli. Me ne vado un po’in camera a riposare, ha detto.

Avevo ancora il libro aperto davanti a me. Ho girato la pagina. Poi ho guardato la copertina. Poi l’ho chiuso. Non avevo più tanta voglia di leggere. Ho aspettato finchè la nonna ha attraversato il corridoio e sceso le scale. Allora sono saltata dal letto e sono uscita dalla camera. Sono rimasta in ascolto finchè l’ho sentita sbattersi alle spalle la porta della sua stanza. Allora, passando per la cucina, sono andata in giardino a vedere di che si trattava. Pensavo che avrei potuto cantargliene quattro a mia madre, magari si sarebbe sentita in colpa e l’avrebbe piantata di urlare come una cagna.

 

Fuori faceva caldo. Era il giorno prima di ferragosto. L’aria era secca e odorava di letame. Si diceva che era un ottimo concime per gli alberi da frutto e la nostra casa era tutta circondata da frutteti. Perciò, andava bene così. Certe volte poi, passando lì in mezzo, si vedevano anche le quaglie gironzolare lungo i filari. Chissà dov’erano scappate in quel momento.

“Bastardo!” urlava mia madre. Aveva una voce da folle, non so bene.

Era ferma al centro dello spiazzo ghiaioso del giardino, vicino alle uova che aveva sbattuto a terra la sera prima. Erano ancora lì: i gusci spezzati, i tuorli e gli albumi spiaccicati sui sassolini. Nessuno le aveva raccolte quelle uova.

“Bastardo! Guarda che parlo sul serio”, urlava mia madre.

Litigava con mio padre che doveva essere tornato dai suoi giri da poco. Esco a sbrigare alcune faccende, aveva detto dopo pranzo. Ed era andato via, sfoderando un grande sorriso. Ma adesso era accanto a lei nella sua tuta da lavoro blu e appianava la ghiaia con un rastrello super accessoriato. Nessuno dei due aveva fatto caso a me.

“Dovresti stare attenta a come parli”, ha detto lui. “Ci sei andata giù pesante oggi”.

“Non insultarmi, capito?”, ha urlato lei.

“Dio mio, come ti sei conciata”, ha detto lui. “Sei fuori di te”.

“Non scherzo! Ti dico che lo faccio sul serio”, ha urlato lei.

“Senti, non ficcare il naso in questioni che non ti riguardano”, ha detto lui.

“Ah! Non mi riguardano?”, ha urlato lei. “I miei figli non mi riguardano?”

“Ma che ti canta quella testa?”, ha detto lui. “Lascia stare i ragazzi”.

“Ah, sì? E allora perché l’hai portato qui?”, ha urlato lei.

“Per farli divertire un po’”, ha detto lui. “Non ce la fanno più a vederti ogni giorno così”.

Allora lei s’è messa a piangere. Lui si è acceso una sigaretta e si è rimesso a rastrellare sotto il sole. Gli pareva di averla incastrata.

Ho appoggiato la spalla al pilastro del portico che, come tutto l’arco, era pieno di formiche che correvano avanti e indietro. Mi tremavano le gambe. Riuscivo a malapena a stare dritta. Ho provato a pensare a qualcosa da dire. Erano due anni ormai che ci provavo, da quando avevo stanato mia madre per la prima volta.

“Mamma!”, ho soltanto detto alla fine, appena lei mi ha guardato.

Non mi veniva in mente più niente da dire. Allora ho iniziato a fissare la sua divisa: un grembiule scolorito a fiorellini rosa. Da un sacco di mesi era sempre o sullo stendino ad asciugare o lavato in lavatrice o stirato in cucina. Te lo ritrovavi sempre tra i piedi, quel grembiule scolorito.

E pensavo che magari avrei potuto dirle: Cos’è che ti fa urlare come una cagna, eh? Quel vino rosso che ti piace tanto? O quella grappa che hai nascosto nella credenza del salotto?

Ma non avevo neanche il coraggio di guardarla. Aveva un aspetto strano. Sembrava un rospo. Però era tutta rossa. Non l’avevo mai vista così, prima. Aveva gli occhi gonfi e rossi, la faccia rossa e anche il collo era rosso. Del colore del papavero, quel tipo di rosso lì. Era come se fosse stata avvolta da mille papaveri per un sacco di tempo e ne avesse assorbito il colore.

“Nina”, mi ha detto dopo un po’, “vieni! Vieni a vedere!”.

Allora mi sono avvicinata. Respirava affannosamente con la bocca. Sentivo sulla faccia lo spiffero alcolico che veniva da quel buco. Quell’alito puzzolente aveva coperto anche l’odore del letame.

“Guarda!” ha detto. “Guarda che bel regalo ci ha fatto tuo padre. Eccolo là!”. Aveva uno sguardo feroce e minaccioso, non so bene.

Ho guardato dove indicava lei e il cuore mi ha fatto una capriola.

Era un camper nuovo di zecca. Di marca francese.

“Oddio! Che bello”, ho detto.

Non riuscivo a staccargli gli occhi di dosso. Era parcheggiato davanti al cancello del giardino, sotto l’ombra di un grande abete. Uno CHAUSSON fresco di fabbricazione: sei posti, mansarda, veranda e porta-biciclette. Era enorme: bianco laccato con disegni geometrici gialli e verdi sui fianchi. Un vero spasso.

“Bello, sì”, ha detto lei. “Ma perché l’hai comprato?”

Erano di nuovo uno di fronte all’altro. Lei si rigirava il cordoncino del grembiule tra le dita. Lui stringeva ancora il rastrello e la bloccava con lo sguardo.

“E non guardarmi in quel modo”, ha urlato lei. “Dimmi che cosa te ne vuoi fare di quel coso lì”.

“Non ricominciare”, ha detto lui.

“Dimmelo! Che hai intenzione di farci?” ha urlato lei.

“Te l’ho detto prima quello che ci voglio fare”, ha detto lui.

“Riportalo indietro!”, ha urlato lei.

Io allora ho provato a dire : “Ma mamma, guarda. Guarda com’è bello”.

“Non voglio guardare proprio niente!”, ha urlato lei.

“Riesci sempre a rovinare tutto”, ha detto lui.

“E tu vuoi rovinarmi la vita in tutto!”, ha urlato lei.“Non portarmeli via in questo modo i miei figli”, ha urlato più forte.

“Ma che diavolo dici?”, ha detto lui. “Ti sei bevuta il cervello?”

“Non portarmeli via, capito?” ha urlato lei.

“Senti Anna, perché non provi a calmarti un po’?” ha detto lui.

“Mi calmerò quando l’avrai riportato indietro”, ha urlato lei. “Altrimenti lo faccio sul serio”.

“Ok, adesso basta! Mi hai scocciato!” ha urlato anche lui. “ Vai a farti un goccio così ti passa”.

Allora lei si è azzittita di colpo. Ci ha guardato ma era come se stesse pensando ad altro. Poi è sparita in fretta sotto il portico. Aveva una camminata strana, non so bene.

Mi sono data un’occhiata intorno. Non c’erano macchine sulla strada e nemmeno passanti. C’era solo un elicottero che ronzava nell’aria e Gilda, la nostra vicina, che si era affacciata al balcone.

Aveva l’aspetto di un grosso tasso o qualcosa del genere. Cioè, aveva i denti sporgenti, le gambe tozze e una tunica marrone tutta macchiata, troppo stretta per lei.

Era una schifosa guardona, quella Gilda. Sempre lì, in balcone, a spiarci. Però, appena si è accorta che l’avevo stanata, è rientrata in casa, quella guardona balorda.

 

Mio padre ha sospirato. Ha poggiato il rastrello super accessoriato sulla ghiaia e mi ha guardato. Era un uomo sulla quarantina. Alto e slanciato, con capelli ricci e brizzolati. Aveva il volto e le braccia abbronzate perché faceva il muratore. Quando si prendeva cura di me e mio fratello, i suoi gesti e i movimenti erano sempre attenti e scrupolosi.

Andiamo Nina, mi ha detto. Ti faccio vedere il camper da vicino, e mi ha sfiorato le guance con le dita, sorridendomi. Allora gli ho preso la mano nella mia. Era ruvida, le unghie nere e mangiucchiate, un bel po’sudata. Abbiamo girato attorno alle uova spiaccicate ancora sui sassolini e ci siamo avvicinati al camper. Pensavo che avrei potuto preparare pane e nutella più tardi e magari mangiarcela lì dentro. Insomma, fare una specie di pic-nic davanti casa.

Eravamo vicino alla porta e mio padre mi diceva che voleva portarci in vacanza al mare dopo ferragosto. E io lo ascoltavo. Nella via un cane randagio ha preso ad abbaiare forte. Ma nessuno di noi due gli dava retta. Gli aghi dell’abete avevano iniziato a strusciarsi sul camper, mossi da un piacevole venticello. L’aria odorava di nuovo di letame e il sole pomeridiano era il nostro caldo spettatore. Chissà, potevamo essere in un posto incantato. In un posto lontano.

Allora mio padre ha srotolato la veranda a righe con un uncino attaccato a una lunga asta bianca. Poi ha aperto la porta. Poi  ha tirato fuori gli scalini con una leva. Sono rimasta lì ferma a  fissarlo e a pensare a quello che avrei dovuto dire. Mi venivano in mente un sacco di cose in quel momento. Ma ho soltanto sferzato l’aria con le braccia e ho cacciato due o tre urla. Urla di gioia. 

 

 

 

Loading

1 commento »

  1. Uno spaccato familiare in un giorno pre festivo, dove il clima della festa si avverte solo nelle ultimissime righe del racconto. Un rapporto di coppia consunto, caratterizzato dalle coazioni a ripetere da parte dei coniugi che litigano oramai in modo sfiancante ed uguale. Il racconto evoca più di una tristezza e ci comunica tutto il rassegnato pessimismo della figlia circa le possibilità di recupero della propria madre. Fatalmente allora si rivolge al padre quale unico interlocutore affidabile. Mi ha interessato

Lascia un commento

Devi essere registrato per lasciare un commento.