Racconti nella Rete®

23° Premio letterario Racconti nella Rete 2023/2024

Premio Racconti nella Rete 2018 “Restane Kebap” di Crescenzo Zito

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2018

Camminando in via del Corso, in questo tardo pomeriggio di metà gennaio, mi sono ritrovato a sentire i commenti razzisti di cinque ciociari che mi precedono sul marciapiede affollato.

  • Guarda stò neeegro! Ma vedi d’annattene a casa tua.
  • Puzza da pauura……………e venne pure da magnà

Mi sono voltato per guardare il soggetto delle loro parole.

I tratti somatici del giovane mi riportano non ai cittadini dell’Africa ma a quelli del Bangladesh o dello Sri Lanka.

È seduto su un treppiede accanto al carrettino fumante da dove si innalza l’odore dei frutti che si cuociono sulla brace. Questo profumo mi riporta in Turchia, anche allora camminavo per il centro della città che è diventata un punto fisso nei miei viaggi.

 

***

Buyrun[1]…buyrun… kestane kebap[2]

 

Le quattro parole, precedentemente gridate a intervalli regolari, erano per me prive di significato; la prima cui dieti un senso, una forma e un odore fu Murat.

Uscivano tutte, armoniosamente ripetute, dalla sua bocca sorridente.

– Türkçe konu?uyor musun?[3]

  – Non parlo la tua lingua.

Scossi la testa per rafforzare la mia negazione, ma al tempo stesso mi chiesi se il mio gesto, nella sua cultura, avesse l’identico significato.

Con gentile consenso il ragazzo si fece fotografare accanto al suo carrettino fumante, rosso come le sue dita con le quali muoveva, nel gelo di un tardo pomeriggio di gennaio, i frutti che fuoriuscivano dalla buccia dura. Di tanto in tanto spostava quelle cotte dalla griglia e prendeva, dal sacco appeso a un gancio, altre castagne per intaccarle abilmente con un particolare coltellino a serramanico.

Dopo averlo fotografato gli porsi cinque lire turche, ma il giovane rifiutò di prenderle.

Birkaç kestane ister misin?[4]

–  Speak English?

???????? ?? ????????[5]

– No, non capisco, è russo?

 –  ??…yes.

– Parli italiano?

 – hay?r[6]… sono ittaliano, uno ittaliano vero…

Queste ultime parole le aveva pronunciate canticchiando.

  – Perlusconi ricco…eh eh eh  perlusconi…Ruby…

     Si portò le mani al petto e disegnò un paio di grosse tette poi, dicendo qualcosa nella sua lingua, rise forte scuotendo la testa.

Sorrisi ma con un pizzico d’amarezza, perché mi accorsi che, per un motivo a me ignoto, certuni atteggiamenti, si spargono oltre i confini italici e, come un riversamento di petrolio, inquinano la dignità di un popolo.

  – L’Italia è ben altro.

Bloccai subito la frase perché altrimenti sarei caduto in una voragine di frustrazione. Qualsiasi cosa affermassi era fuori luogo per tanti motivi. Innanzitutto ero in vacanza e non volevo rovinarla ricordandomi di che cosa è la politica in Italia; inoltre quel ragazzo non capiva l’italiano e, battute a parte, aveva il suo bel da fare per sopravvivere e non credo proprio che gli interessassero dettagli sulla decadenza di una società straniera.

Ambedue cercavamo un dialogo e la sete di conoscenza che avevo, si scontrava con la mia pigrizia nell’apprendere le altre lingue ma, nonostante ciò, ci prodigavamo in gesti e parole: ognuno nella propria lingua, sconosciuta all’altro.

In meno di un’ora Murat da sconosciuto era diventato un conoscente e da lì a poco sarebbe diventato un simpatico compagno di viaggio.

  – Chissà da dove vieni… sarai turco? Quanto guadagnerai?

Avevo pensato ad alta voce poi, quasi per scusarmi, gli sorrisi scuotendo la testa per comunicargli che non era importante che capisse, invece, ricambiando il sorriso e il mio gesto, mi fece capire che aveva compreso l’essenza di ciò che avevo appena pronunciato e replicò, sempre nella lingua del corpo, che non era importante.

Subito dopo si rivolse ai passanti.

– Buyrun…buyrun… kestane kebap…

Un tono deciso, ma non autoritario, sicuro e gentile nella modulazione di quelle tre parole. A volte, a bassa voce, intercalava qualche espressione in russo e tutte prendevano forma nel vapore del respiro caldo, che fuoriusciva dalle labbra spaccate dal gelo dell’inverno.

Si rivolgeva con simpatia ai passanti e, ogni tanto, si voltava verso di me per strizzare l’occhio destro, come se fossi un suo vecchio compaesano; subito dopo nuovamente alla gente per attirarne l’attenzione.

Nessuno prestava ascolto al suo tono di voce che si modulava su quelle dei compratori e neppure si accorgevano delle lievi increspature dei muscoli facciali che si univano al leggero arricciarsi degli angoli della bocca, lasciando scoperti i denti perfetti ma colorati dal fumo delle sigarette.

In quel bailamme di sconosciuti ero l’unico ad ascoltarlo e, tra i deperibili frutti e l’eterno sorriso, io non avevo avuto dubbi.

    – Kestane yemek ister misin?[7]

Illustrò questa frase col gesto di portarsi alla bocca, più di una volta, la mano chiusa a conchiglia Non aspettò che io rispondessi e mi porse alcune castagne. Feci per prendere il portafoglio ma bloccò il gesto col braccio. Non voleva che le pagassi mentre io avrei speso qualsiasi somma per averle.

Ringraziai e iniziai a mangiare i grossi frutti e, assieme alla sua spensieratezza, ingoiai anche quelle semicrude.  Al suo farmi capire se fossero di mio gradimento, gli risposi con cenni eloquenti del capo.

Ero fermo accanto a lui, quando mi fece cenno di sedermi su uno sgabello poco distante dal muro. Al mio diniego, lo prese e lo accostò alla mia persona invitandomi risolutamente, ma con cordialità, a sedermi. Assecondai la sua fermezza e lui mi ringraziò con quel sorriso caldo e con un cenno della testa, quasi un inchino.

Seduto al suo fianco, iniziai a scrutare le persone che passeggiavano lungo l’ampia strada, la splendida e sfavillante Istiklal Caddesi, a pochi passi da piazza Taksim.

Da questa piazza la massa avanzava tenendo la destra mentre, per ridiscendere, usava la sinistra; come se ci fosse un codice prestabilito. Tutto con molta regolarità, quasi fossero veicoli e non persone. A quell’ora della sera la strada era piena di gente che passeggiava e tutti, ma proprio tutti, si muovevano in gruppo, tre, cinque, sette individui. Gli unici solitari erano i turisti, soprattutto europei, e si capiva dal loro abbigliamento che si completava nell’irrinunciabile zainetto.

Respirai il profumo delle caldarroste mentre mi soffermai su alcuni passanti che erano fermi a chiedere il prezzo dei sacchetti di varia capienza, qualcun altro chiedeva un‘informazione mentre una ragazza, staccandosi da altre quattro, ne rubò una, provocando i commenti in russo, sicuramente osceni, del mio amico; infatti, subito dopo si rivolse a me con un’espressione tra il malizioso e il lussurioso, facendomi intendere subito in che modo avrebbe punito quella giovane donna.

Questo giovanile atteggiamento mi fece pensare che non avesse una ragazza e, mi ricordai di un episodio a cui avevo assistito in un viottolo dell’ex cittadella genovese di Galata, oggi parte del quartiere Beyoglu.

 

***

Ero capitato in quella stradina per caso, alcune centinaia di metri dopo la torre dei coloni genovesi, costruita intorno al 1384, in una stradina in discesa incrociai una lunga fila, da tre, di soli maschi. I giovani chiacchieravano tra loro, qualcuno aveva la testa china, chiuso in un silenzioso imbarazzo; i più grandi, invece, fumavano una sigaretta dopo l’altra nell’attesa di oltrepassare la soglia dell’edificio. Poche macchie di colore nel loro abbigliamento. Predominavano i colori scuri, i grigi e il nero, come le loro scarpe a punta, quasi tutte deformate dall’usura del tempo. Solo ai piedi di qualche giovane c’erano delle scarpe da ginnastica, modello americano e dai colori sbiaditi ed erano soprattutto questi ultimi a interrompere, con un vociare piano e qualche risatina denti stretti, il silenzio che regnava.

Tutti si spostavano di pochi metri per volta, con un portamento di resa ai propri pensieri. Lentamente, ma costantemente, il cordone d’uomini avanzava rasente il muro delle case fatiscenti per entrare in un cancello che dava su una piccola corte.

Dal cancello accanto, invece, altri uomini, uno a uno e in tutta fretta, si allontanavano quasi a volersi distaccare il più presto possibile da quel luogo. Tutti gli uscenti erano intenti a sistemarsi qualche orpello del vestiario o a cercare di dare una parvenza d’ordine ai capelli crespi o ricci, mentre il volto dei giovani maschi, privi di barba, erano pitturati di un roseo primaverile.

Questa scambio, anche di temperatura, tra chi entrava e chi usciva avveniva con molto ordine e nessuno schiamazzo, sotto gli occhi attenti di tre poliziotti fermi accanto alla propria vettura di servizio.

Davvero insolito l’affollamento, scrutai il tetto della struttura per capire se fosse una moschea, non lo era e neppure mi sembrava un cinema, né un teatro. Quell’edificio era piuttosto anonimo e malandato dal peso degli anni. Per quanti sforzi facessi, non riuscivo a capire il motivo di quella silenziosa processione.

Sicuramente era legata al fine del Ramadan, infatti, in tutta la città c’era un’energia esplosiva, fatta anche di numerosi banchi per la vendita di cibi e oggetti tra i più vari; nell’aria si percepiva la festa per la fine del digiuno. Il centro della città era piena di gente vestita a festa proveniente dal circondario e dalle campagne. Per l’occasione tantissimi giovani in giacca e cravatta, chiusi in vestiti da pochi soldi indossati con la fierezza, la spavalderia e la bellezza dei pochi anni.

Mi allontanai percorrendo la stradina fino a incrociare un gruppo isolato d’uomini, da cui se ne distaccò uno. Con fare circospetto avvicinò e, a bassa voce per non farsi sentire dai poliziotti, in un inglese non proprio perfetto mi fece capire che mercificava donne, e ne esaltò le straordinarie abilità e la loro incredibile bellezza.

Fu questo suo parlare a farmi capire che quel caseggiato era un bordello.

 

***

Così come ci ero uscito, rientrai nel presente e salutai Murat per andare a cena.

Mi allontanai anche se avevo una smisurata voglia di restare a parlare in turco, meglio in russo. Mi distanziai da lui con questo desiderio irrealizzabile, ma mi rincuorava il pensiero della sua generosità.

Mi voltai e ricambiai il cenno di mano all’unica e reale risposta che mi sorrideva da dietro il fumo che si disperdeva nell’aria insieme all’odore, un profumo tiepido e antico.

Mi rincuorai nella consapevolezza che soltanto coloro che non posseggono nulla, a volte neppure una casa, ci parlano con un sorriso, che deforma il nostro pessimismo.

Murat era un giovane gentile, nonostante il lavoro umile e sottopagato. Dispensava serenità e calma, anche dopo sedici/diciotto ore di lavoro, infatti, riconsegnava il carrettino non prima delle due di mattina e a volte anche più tardi.

Fermo e infreddolito nel punto assegnatogli dal padrone, tra l’umido e il bagnato di una pioggia sottile, costante e fastidiosissima; spesso in piedi, nonostante quel treppiede che mi aveva così calorosamente concesso.

Questo disagio, ai miei occhi così palese, per lui sembrava non esistere e il suo volto non trasmetteva rabbia o rassegnazione ma amore per il compito che svolgeva. Piccoli gesti che cambiava di continuo, quasi per rendere meno monotona la sua occupazione.

Con un paio di lunghe pinzette allontanava dalla griglia le castagne cotte e spostava quelle calde per avvicinare al calore quelle fredde. Era molto attento e lento quando le raggruppava; faceva gruppi di sei per lato, poi riempiva lo spazio vuoto con nuove castagne e, su queste, appoggiava altre quattro per lato e, ancora una volta, colmava lo spazio vuoto con ulteriori frutti cotti. Alla fine, come un compiaciuto architetto, ammirava le sue commestibili piramidi turche.

Quei minuscoli monumenti di castagne, nella scelta precisa delle dimensioni del frutto da collocare, erano delle raffinatissime combinazioni.

Con quella continua ricerca d’armonia, generata da un impeto inconscio, Murat, forse, cercava soltanto di allietare le lunghe giornate inermi. Improvvisamente alzava gli occhi dalle costruzioni per gridare con quel tono tanto piacevole ai miei sensi.

– -Buyrun…buyrun… kestane kebap…

Tra piazza Taksim e lungo la via Istiklal molti carretti fumanti, simili a quelli che nei mesi successivi avrebbero accolto i frutti tipici della stagione in divenire. C’erano anche quelli della vendita del Simit, il tipico pane al sesamo a forma circolare. Sparsi lungo tutta la strada, i giovani venditori stagionali; per lo più stranieri assoggettati a un unico padrone.

La mattinata successiva, nonostante la pioggia, passeggiai per Sultanahmet e fotografai, come tutti i turisti, i vari scorci e diverse moschee.

Quel pomeriggio stesso, prima del ritorno in albergo, cercai un negozio di foto e feci stampare quelle del giovane.

A sera ritornai dal mio amico, quando mi scorse tra la folla, mi salutò con il solito sorriso e agitando vistosamente le braccia. Mi si avvicinò e gli strinsi la mano che lui tirò a sé per baciarmi sulle guance, prima di abbracciarmi calorosamente.

– Arkada?… benim ?talyan arkada?…[8]

–  My friend!     

– Hey, nas?ls?n?[9]  Ok… ok?

– Tutto ok… very well…

–  Kestane kebap?

– No, grazie… guarda…

Dallo zaino presi le foto e gliele porsi, il suo viso s’illuminò di contentezza, forse di gioia, e mi afferrò nuovamente a sé. Il suo abbraccio era carico di energia, aveva gli occhi lucidi e faceva fatica a staccarsi.

– Te?ekkürler[10]…(grazie) thenkhiu.

– Grazie… in italiano.

– Crasie…

Da alcuni giorni cercavamo di comunicare in almeno quattro lingue differenti: turco, russo, inglese e italiano; invece più che la sintassi, che in quel frangente c’era ostile, fu la fisica volontà a funzionare.

La mimica facciale innanzitutto e, poi, i gesti del corpo che divennero più eloquenti della lingua dei segni. Una cascata di cenni, movimenti del capo e degli arti, pacche sulle spalle, occhiatine maliziose, e non.

L’unica realtà oggettiva, per ambedue, era la gioia che provavamo nel ritrovarci ogni giorno alla stessa ora.

Rimasi ancora un po’ di tempo accanto al mio amico come se fossi un suo coetaneo, invece c’era un’enorme differenza d’anni tra noi eppure c’eravamo scelti come interlocutori, come messaggeri di due pianeti diversi.

Allietato, m’invitò a urlare con lui ai passanti, e subito dopo, divertito, rideva vistosamente della mia strana pronuncia, ma continuava a insistere che gridassi con lui.

     –  Byrun…byrun… kastagne chebab…

     – BUYRUN…BUYRUN…  KESTANE KEBAP…

Queste grida in compagnia del ragazzo alleggerirono il peso delle mie problematiche e mi accorsi di gioire per quel niente, che proprio nulla non era.

Era tanto ed io mi sentii veramente appagato come poche altre volte ed ero felice di rivolgermi, con lui, a sconosciuti in una lingua completamente inesatta.

Byrun, byrun, chestane chebab…

Senza rendermene conto erano trascorse più di tre ore, avevo saltato la cena senza che il mio stomaco risentisse la mancanza di un cibo solido.

Mi congedai e lo salutai abbracciandolo mentre riflettevo che sarei stato davvero felice di cenare con lui ma, per intimo imbarazzo, mi arresi, relegando il desiderio al solo pensiero.

Al quarto giorno mi accorsi che comprendevamo quasi tutto quello che dicevamo.

Ancora una volta, ebbi la conferma che la predisposizione verso l’altro annienta qualsiasi barriera, linguistica, culturale e religiosa. Dal primo giorno avevamo percepito un’affinità d’animo e ora, magicamente, iniziai ad accostare i frammenti della sua vita e a ricostruirne l’esistenza.

Non era turco, per questo parlava il russo, era del Turkmenistan. Aveva ventuno anni, anche se ne dimostrava di più, mentre il padre ne aveva quarantanove e la madre quarantuno. La sua famiglia era lontana e composta di due fratelli e una sorella, tutti più piccoli. Viveva con altri tre turkmeni, ma da quanti anni era ad Istanbul, non mi fu possibile capirlo.

Io lo avevo incontrato il giorno dopo l’arrivo a Istanbul,

Ero, appunto, in giro con la macchina fotografica, quando attratto dalle sue grida, notai il suo modo di porsi diverso dagli altri ambulanti. Man mano che mi avvicinavo gli scattavo delle foto poi, quando lo ebbi di fronte, gli chiesi il permesso per scattarne altre.

Mi soffermai subito sul suo volto arrossato, lo stesso che ora mi sorride riconoscente d’essergli stato amico.

 

? notte e gli ho appena donato una felpa, la mattina dopo sarei ritornato in Italia.

– Içten te?ekkürler. (Grazie di cuore?

Il suo abbraccio è carico di energia, ci stiamo salutando ambedue commossi. Ha gli occhi lucidi ed io il cuore in lacrime e facciamo fatica a distaccarci.

Ripercorro i miei passi e faccio ritorno in albergo stringendo in mano il suo regalo per il mio viaggio di ritorno: due sacchetti ricolmi di caldarroste da cui esala un intenso profumo caldo.

 

Ed è stato questo stesso profumo a riportarmi nel presente e ricerco con gli occhi quel gruppo razzista, pronto ad intervenire per controbattere e demolire il loro punto di vista, ma mi accorgo che questo ricordo li ha cancellati completamente dal mio orizzonte.

[1] Prego

[2] Caldarroste

[3] Parli turco?

[4] Vuoi qualche castagna?

[5] Parli russo?

[6] No.

[7] Vuoi mangiare una castagna?

[8] Il mio amico, il mio amico italiano.

[9] Ehi, come stai?

[10] Grazie

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4 commenti »

  1. Racconto a scatole cinesi, dove un suono, un odore, un dettaglio riporta ad un altro. Mi è piaciuta la commistione di lingue e culture e l’idea che per comunicare forse non serva conoscere le altre lingue ma basta aprirsi a ciò che appare diverso. Dietro ogni volto si cela un mondo di storie e a volte basta poco per scoprirle, ad esempio un sacchetto di caldarroste.

  2. Mi è piaciuto molto questo racconto, anche se, a parer mio, avrebbe giovato di una minor lunghezza e di una maggiore cura nella scrittura. In ogni caso, complimenti! Racconto di buoni sentimenti, tenero e duro allo stesso tempo, belle immagini.

  3. Grazie per la lettura attenta e per le parole che hai scritto.

  4. Grazie per la lettura attenta e per le parole che hai scritto.

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