Racconti nella Rete®

23° Premio letterario Racconti nella Rete 2023/2024

Premio Racconti nella Rete 2018 “Quella notte (proprio) davanti alla Bussola” di Claudio Orsi

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2018

Nel 1968 avevo 19 anni, non avevo la patente, con le ragazze combinavo poco, in compenso giocavo a pallone, avevo una bici gialla e una Vespa 50, portavo capelli lunghi e suonavo in uno di quelli che allora si chiamavano complessi beat. Suonavo il basso, il basso elettrico. La mia passione veramente sarebbe stata la batteria, ma per quella c’era già Ugo detto il Biondo anche se era rosso dalla testa ai piedi, Ugo che a differenza di me di batterie ne aveva già una, una batteria vera, con cassa, rullante, tom, timpano, charleston, piatti compresi. Mica fatta con i fustini Dixan su cui mi esercitavo io! In quei tempi di magra, per gli studentelli squattrinati tutto valeva come per il gioco del calcio, la stessa regola: chi porta il pallone, un pallone vero, da Serie A, se lo porta lui quel pallone, anche se gioca male, non puoi lasciarlo fuori squadra, magari lo fai pure capitano. Così fu per me la batteria. Quella vera non ce l’avevo e allora mi misero in mano un basso. In prestito. Il basso aveva quattro corde, come tutti i bassi, anziché sei come le chitarre. Anche oggi è così. A quel tempo però era diffuso un luogo comune: chi non sa suonare la chitarra suona il basso. E chi non sa suonare il basso, canta. Allora era facile suonare il basso. Due colpi in battere per i quattro quarti, due accenti in levare per i tre quarti: Cià tun tun per i tempi pari. Un cià cià per i tempi dispari. Semplice: non c’erano scale pentatoniche, giri armonici, riff da studiare. Non c’erano le dodici battute e le blue note. Cioè c’erano ma noi non si sapeva. Suonare il basso era facile e io lo suonavo: mi chiamavano Mandarino, non per il noto agrume a spicchi, ma per una particina da solerte funzionario della Cina imperiale assegnatami in occasione di una recita parrocchiale. Da allora quel Mandarino me lo sono portato addosso fino a che non ho lasciato il paese. Lo suonavo, il basso elettrico, insieme a Ugo il Biondo che era tutto rosso, alla batteria, Angelo il Ghiaccio alla chitarra, Roberto Bicché alla cornetta e Marcello, figlio di Pollo e Cesira, all’organo Farfisa. Tutti dello stesso paese e tutti bene affiatati: le canzoni erano semplici e orecchiabili, la new wawe del beat aveva aperto le porte ad una nuova epoca musicale diffusa e partecipata: la contestazione musicale, culturale e politica sarebbe passata anche da questi incontri, fusioni ed effusioni, ma anche questo noi non si sapeva. Quando ci chiamavano a suonare nelle sale da ballo facevamo la nostra figura. Per quello, per trovare i locali dove suonare, ci pensava il nostro impresario, un pisano di nome Furio Abenaim. Una sera, mentre si stava provando Piccola Katy con un falsetto niente male, il Furio entra in sala prove e ci fa: “Bimbi, il 31 vi faccio guadagnà un bel po’ di soldini: vi faccio sonà in uno dei locali più prestigiosi di tutta la Versilia”. “No! Alla Bussola?” “Ora un v’allargate, via. Alla Bussola per l’urtimodellanno c’è nientepopodimenochè Fredde Bongusto con Scirli Bassi. Mica seghe o nini! Ma comunque è come se ci foste anche voi perché vi faccio sonà proprio lì davanti: al Bisio. Proprio lì davanti che se alzate il volume magari vi sente anche Fredde e vi ingaggia come gruppo d’appoggio”. Per noi andava bene anche il Bisio, l’importante era suonare e mettersi in tasca un po’ di soldini. Così continuammo le prove e dopo prove su prove, con qualche scarto e qualche scazzo, alla fine il repertorio fu pronto, vasto e completo, compresi valzer di mezzanotte e trenini brasileiri.

Si arriva così al Santo Silvestro: con gli strumenti caricati sul furgone della Idraulica R.A.M.A. guidato dal dipendente Ghiaccio e messo in moto necessariamente a spinta dagli altri quattro, ci si invola verso la Versilia. Ormai siamo in zona già da un po’, ma questo Bisio, nonostante le indicazioni di Furio, proprio non si trova, finché Bicché, già in tremito d’ansia, legge con la sua esse sibilante per la tipica conformazione labiale del trombettista, un’insegna che in qualche modo può foneticamente richiamarlo: “Hotel Bixio”. Ma non sarà quello lì? Forse si, anzi certo che si: il locale dove suoneremo è proprio quello. Proprio lì, proprio davanti alla Bussola.

Manovra, parcheggio, scarico, trasporto strumenti e amplificatori, poco potenti, molto pesanti, ingresso. Ci siamo. Un portiere elegante, piuttosto indaffarato, ci riceve con fare sbrigativo ma cortese: “Mettetevi lì. Alle otto deve essere tutto pronto per far partire la musica. Durante lo spettacolo non potete mangiare, bere o fumare” e ci ammicca un palchetto ricoperto da un tappeto finto persiano. Montaggio, prova microfoni, sah sah si uno due tre prova sah! Tutto bene, si può iniziare. Alle venti si attacca puntuali e si fila lisci per un paio d’ore. I clienti si abbuffano sul cenone terramare mentre il barman mette in riga le bottiglie di spumante ghiacciato da servire ai tavoli qualche minuto prima della mezzanotte. Siamo digiuni da mezzogiorno. Seguiamo la raccomandazione del caposala: pezzi calmi e volumi bassi almeno fino alle undici. La serata procede bene: i camerieri sfrecciano davanti al palchetto con alzate di vassoi stracolmi di vitel tonné in salsa di capperi e acciughe, penne panna e funghi, verdurine al cartoccio, arrosti misti con patate al forno. Siamo digiuni da mezzogiorno. I bambini sono già stufi di stare seduti e sguizzano tra i tavoli inseguiti dalle grida a bocca piena e unta dei genitori. Il più piccino, scatenato, vuol suonare la batteria insieme a Ugo il Biondo. Vola anche un ceffone, ma l’atmosfera rimane festosa. Manca ancora più di un’ora alla mezzanotte: una coppia in fregola chiede un liscio e si mette a ballare cheek to cheek proprio di fronte all’imbarazzo del Ghiaccio… Han spento già la lucee, son rimasto solo ioooo…

 All’improvviso la sala si ferma: un giovane entra correndo e corre, corre trafelato per tutta la sala e mentre corre si sbraccia e grida: “Correte, correte… fuori succede il finimondo… ci sono i contestatori… una massa di scalmanati spacca le macchine… se avete la vostra parcheggiata lungo il viale venite con me… bisogna spostarla subito e metterla in salvo… presto, presto, venite con me!” Porco cane! Una diecina di commensali si alza per seguire il capocordata, non prima di aver rassicurato la moglie e baciato i figli “Tranquilli, penso a tutto io, non vi preoccupate, non succederà niente, la nostra macchina non la rompe nessuno! Continuate a mangiare, torno subito”. Tra i componenti il gruppo metti-la-tua-macchina-al-sicuro c’è anche il padrone dell’hotel che ha lo stesso nome dell’hotel: il signor Bixio. E’ un sessantenne ancora in forma, nonno da pochi mesi (questo lo sapremo poi): ora lo vediamo uscire dalle cucine in maniche di camicia rimboccate, fisico atletico, sudato da strizzare, paonazzo. Forse ha qualche problema con la minima oppure ha esagerato con gli aperitivi, sicuramente è di molto incazzato. Qualcuno vuole rovinarci la festa, ma non ci riusciranno! Voi non interrompete. Continuate a suonare! E noi continuiamo a suonare… Batti in aria le mani… e poi lasciale andaaar… se fai come Simone… non puoi certo sbagliar… Fermi! Fermi! E’ successo un casino! I primi che rientrano dalla missione seminano voci drammatiche C’è stato un parapiglia… spaccano i marciapiedi… tirano i sassi ai carabinieri… s’è sentito sparare… lui poi si è sentito male… è cascato per terra proprio davanti a me… è arrivata l’ambulanza… ora è all’ospedale!

Qualcuno vuole rovinarci la festa, ma non ci riusciranno! Voi non interrompete. Continuate a suonare! E noi continuiamo a suonare… Pugniii chiusiii per tutto e per sempre… in me c’è la notte più neeraaa… Lentamente torna una provvida calma che ci prepara al canonico brindisi della mezzanotte: botti dei tappi delle bottiglie, botti dei fulminanti, auguriiii auguriii, cinciiin cinciiin, cappellini, coriandoli, stelle filanti, baci con la lingua sotto il vischio, manate sul culo, trenini lalalalalalalaaabrigitti bardò bardò… brigitti begiò begiò… E’ la baldoria scomposta e liberatoria che ti aspetti e che rispetti, ma che osservi con distacco, come se non fossi tu con la tua musica a provocarla e ad incitarla. La baldoria però dura poco: a mezzanotte e venti la moglie del proprietario ci chiede un microfono. Deve fare un annuncio e lo fa, salendo sul palchetto, come una consumata presentatrice di festival. “Signore e signori, ci dovete scusare, ma dobbiamo interrompere qui questa bellissima festa. Mio marito ha avuto un grave malore e stiamo pregando per lui. Uscite con calma vi prego. Il personale ha già preparato i vostri cappotti e un piccolo presente per ciascuno di voi. Grazie a tutti. Buonanotte”.

“E il dolce? Io ballavo e non l’ho mangiato! Cameriereee” “Via che figura mi fai fare, prendi il cappotto e andiamo, ma non hai sentito: un cameriere ha detto che quello è già bello che morto. Che impressione! E te pensi al dolce?”. “To’ ma avevo pagato anche quello… o no?”

In pochi minuti la sala si svuota. Tutto l’hotel si svuota. Restiamo solo noi cinque: Ugo il Biondo, Angelo il Ghiaccio, Roberto Bicché, Marcello, Mandarino. Soli! L’Hotel Bixio è nelle nostre mani. La prima cosa da fare che ci viene in mente è trovare le cucine: siamo digiuni da mezzogiorno. Scendiamo una scala e… il Paese della Cuccagna si spalanca difronte a noi. Vassoi di antipasti misti e insalate di mare, pignatte di tortellini in brodo di cappone, tegami di lasagne ancora calde, teglie di arrosti con patate, carrelli di dolci al mascarpone, bottiglie di spumante ancora sigillate, assediate da cupole di panettone e piramidi di ananas: la nostra festa di capodanno comincia ora!

Si mangia e si stappa, si ride e si gode, ci si riempie la bocca e la pancia di tutto e di più, contenti come primini in gita, ma con ordine, senza far casino, senza lasciare pattume in giro. I ragazzi di paese serbano ancora una certa timorata educazione e buone dosi di rispetto altrui. “Vedi Ghiaccio però, se nel nostro complesso ci s’aveva anche un bel corettino di bimbe, ora la festa sarebbe stata veramente perfetta!” “Ma che dici! Per la nostra musica le donne non sono adatte” “Però per tromballe si!” replica gallaccio il Biondo. Si va avanti per un paio di ore, poi, finito il nostro cenone privato, e brindato a più sorsate al nuovo anno millenovecentosessantanove, non avendo il coraggio di profanare il piano delle camere (sarebbe stato veramente troppo!) ognuno di noi si sistema alla belle e meglio sui divani e sulle comode poltrone del piano terra, in attesa che arrivi qualcuno che cacci i soldini e ci permetta così di rientrare a casa. Nessuno però arriva e tutti si dorme profondamente.

Di prima mattina ci svegliamo uno ad uno per costatare che siamo ancora soli, ancora nessuno dell’albergo si è fatto vivo. Che si fa? Ugo il Biondo deve assolutamente bere un caffè, ma le Cimbali dell’hotel sono spente. Lui si fa così insistente e insopportabile che per accontentarlo decidiamo di uscir fuori per cercare un bar. Poi rientreremo. Usciamo: ci accoglie un’aria fredda, gelida aria che penetra i pochi abiti che portiamo indosso: sono gli stessi che avevamo durante lo spettacolo e con i quali abbiamo sudato e dormito. Freddo cane. Allunghiamo il passo seguendo il lungo viale a mare in direzione Forte. Per scaldarci proviamo a correre: si gioca a chi fa uscire più vapore dalla bocca. Nessuno di noi conosce la zona e nessuno può sapere dove sia possibile trovare un bar aperto a quell’ora di primo mattino del primo giorno dell’anno. “Attenti a chi vedete per primo. Se è una donna sarà un anno eccezionale!” “Veramente la prima che ho visto è la tua faccia di culo” “Quella non vale, bischero!”

Camminiamo in fila indiana sul pavé del marciapiede: all’altezza di un piccolo distributore della FINA ci accorgiamo come per un breve tratto alcuni sanpietrini sono mancanti, mentre altri sono ammonticchiati disordinatamente lungo strada. C’è anche un grosso tondino di ferro, una specie di piede di porco: potrebbe essere servito come leva per scalzare i cubetti di porfido dal marciapiede. Quello che colpisce però è il vetro di protezione del distributore di benzina: la vetrata in alto è andata in frantumi: fatto recente visto che i vetri rotti sono ancora lì per terra al suo interno. Nella parte bassa invece sono ben visibili due fori che solo due proiettili possono aver provocato. “Ma qui hanno sparato” dico agli altri “Guardate bene, questi sono fori di pallottole! E poi tutti questi sassi smossi. Qui c’è stato davvero il casino che diceva quello ieri sera. Una vera battaglia!”. Guardiamo, ma non troviamo altro da commentare. Il bar non si trova, il freddo è sempre più insopportabile: decidiamo di rientrare all’hotel. Qui un nuovo portiere, giunto nel frattempo, ci informa che il proprietario, il signor Bixio Donati, è deceduto per infarto, mentre per i soldini che ci spettano si scusa ma ci chiede di ritornare tra qualche giorno, quando le cose si saranno sistemate. Smontaggio, carico, partenza. La festa è finita. Si torna a casa, ognuno alla propria: la piccola comunità musicale si scioglie per darsi appuntamento alla prossima prova e al prossimo spettacolo.

Una volta a casa ripenso alla scena del marciapiede e al distributore: da una parte qualcuno che lanciava sassi, dall’altra qualcuno che ha sparato. Ma ha sparato per uccidere, penso io! Perché l’altezza dei fori visti chiaramente su quella vetrata può essere stata di un metro, un metro e mezzo da terra, non di più. Hanno sparato “ad altezza d’uomo” !

E’ mezzogiorno, mamma ha fatto le lasagne, ma non ho fame e allora esco: nel primo pomeriggio gli altri si ritroveranno in piazza per andare al Naviglio. Io resto in paese, quanto tanto mi piace fare musica quanto niente mi piace andare a ballare, anche se questo vorrà dire che anche per oggi rimarrò da solo. Al bar infatti non c’è anima viva: tutti rintanati in casa a riprendersi dopo gli stravizi del cenone. Chiedo al Gobbo se può accendere la televisione per il telegiornale delle tredici e trenta. In risposta mi tira un paio di moccoli sul muso perché in sala ci sono solo io che per di più non consumo. Poi l’accende il televisore: il TG apre con un lungo servizio sui festeggiamenti di San Silvestro, ma dei fatti della Versilia non dice niente. Strano. Forse non è successo niente di così grave e importante che meriti la notizia. Eppure continuo a pensarci.

Come continuo a pensarci la mattina dopo, giovedì 2 gennaio. Biscotti e caffelatte e poi al bar per leggere LA NAZIONE. L’unica copia se la dividono in tre che sventolano la prima pagina commentando: “Ma che ricconi e ricconi, ci volevo andà anch’io a sentì Bongusto poi la mi’ moglie un’ha voluto… O matto! E dove li trovavi tutti que’ soldi, lo sai quanto ci voleva per entrà?… Però guarda qui, chi fa queste cose qui enno proprio teppisti criminali… ni darei io vai.. hanno sparato anche a uno di loro… legge qui! Legge, legge… Meglio andà alla Casina Rossa, almeno lì non ti sparino!” Si toccano, si spintonano e ridacchiano, da puri mangiatori di pane e volpe. Finalmente si spostano al banco per un altro quartino e lasciano libero il giornale: ora posso leggerlo io. Titolo a tutta pagina: “Selvagge violenze alla «Bussola». Qualcuno spara: un giovane ferito. I contestatori scatenati nella notte di fine d’anno contro uomini e donne inermi. Coppie di pacifici cittadini assalite, donne insultate e picchiate”. E poi sotto: “Escluso che il colpo di pistola sia partito dalle forze dell’ordine la cui azione molto cauta e circospetta non ha saputo garantire l’incolumità fisica dei passanti e di chi voleva entrare nel locale”. C’è una foto con “I resti di un’ostruzione stradale rimossi da un carabiniere” Più sotto: “Vergognose menzogne comuniste, indignazione in Versilia”. Qualcuno spara, ma qualcuno chi? Chi ha sparato? E quali sarebbero le menzogne comuniste? Per saperlo bisognerebbe conoscere almeno un’altra versione, magari quella dei comunisti, ma l’unico giornale che la può riportare è l’Unità e qui in paese quel giornale non arriva. Allora mi decido, prendo la Vespa e vado a Pisa. Nonostante il freddo che mi ingessa le orecchie e accartoccia le mani strette alle manopole, in meno di un’ora sono nell’atrio della Stazione ferroviaria: lì c’è un’edicola dove sono esposti i quotidiani nazionali. Tutte le prime pagine parlano della notte della Bussola con titoli a caratteri cubitali. Compro l’Unità, ma prima di uscire mi soffermo su un titolo de La Stampa “Un albergatore colpito da sassi muore di infarto”. Parla di noi! Prendo una copia e leggo: “Durante uno degli attacchi dei contestatori usciva dal suo albergo, situato vicino alla «Bussola». anche il signor Bizio Donati, di 60 anni. Colpito da sassi e da sabbia lanciati da un gruppo di giovani, rientrava barcollante in albergo. Ammalato di cuore decedeva poco dopo per infarto”. Veramente non mi sembra che le cose siano andate così: mi dispiace per Bixio (e non Bizio come scrivono) ma chi era con lui ha detto che è caduto da solo, lontano dagli scontri, poi in albergo non è rientrato, di questo sono sicuro, l’avremmo visto. E’ morto d’infarto mentre lo stavano portando in ospedale, l’ha detto anche la moglie: perché dare la colpa ai contestatori per una morte di cui non possono avere responsabilità? Forse si vuole coprire qualcuno. Proseguo nella lettura: “Barricate, auto in fiamme, cabine balneari distrutte. Il ragazzo in fin di vita (16 anni) è stato colpito da un proiettile di rivoltella. Secondo il Questore di Lucca gli agenti non hanno usato armi. Gli spari sarebbero partiti dal gruppo di manifestanti o da persone che hanno reagito alla provocazione.” Ma chi è che va armato ad una contestazione? Io sapevo da Franco, che sicuramente quella notte ci sarebbe andato a contestare alla Bussola, che i ragazzi avrebbero solo lanciato uova e pomodori sulle pellicce delle signore e gli smoking dei signori. Giusto per contestare il lusso e lo spreco che offende la povertà, diceva lui. Poi quei fori che abbiamo visto sui vetri del distributore: chi ha sparato aveva la Bussola alle spalle, come se la dovesse difendere e non attaccare. Qualcosa ancora non mi torna.

Lascio La Stampa e finalmente leggo su l’Unità una versione dei fatti che mi sembra assai più convincente: “LA POLIZIA SPARA A VIAREGGIO. Basta con la violenza di Stato! Disarmo della polizia! Un ragazzo di 16 anni gravemente ferito. L’aggressione armata nella notte di Capodanno per soffocare una forte manifestazione di operai e studenti che protestavano davanti a un locale di lusso della Versilia. In Parlamento la mozione per il disarmo della polizia”. Nella colonna di fianco viene riportato il racconto di un testimone che non ha dubbi su come sono andate le cose: Hanno smesso di sparare solo quando i giovani hanno cominciato a gridare AVOLA AVOLA. I poliziotti erano una sessantina: il primo a estrarre la pistola è stato un ufficiale di Ps che ha sparato in aria un intero caricatore. Poi un ufficiale dei carabinieri che ha sparato cinque colpi. Ma la pistola era abbassata e i colpi passavano sopra le nostre teste. Avevamo fatto una barricata con un carro agricolo, barche, alberi, cartelli stradali, per evitare di essere assaliti dai poliziotti. Mezz’ora dopo è iniziata una seconda sparatoria e due giovani sono stati feriti: uno alla schiena e uno alla caviglia. La polizia con le sue cariche arrivava a colpire operai e studenti anche con bastoni. Uno è stato trascinato per metri per un orecchio e i capelli. Gli incidenti sono iniziati verso le 22,15 mentre i giovani lanciavano uova e ortaggi.”

 Nel centro pagina c’è una foto: da un letto di ospedale spunta solo il viso di un ragazzo: “Soriano Ceccanti ricoverato all’Ospedale Santa Chiara”. Sotto si parla di lui: ha sedici anni, di Putignano, studente del Professionale, il padre è un operaio della Piaggio e “proviene da uno dei miseri comuni della Valdera”. Dovrà essere operato perché ha ancora il proiettile conficcato nella schiena, ma già i medici hanno detto che non potrà più camminare. Lui questo ancora non lo sa. Ha rischiato di morire per sbeffeggiare i signori che volevano solo divertirsi. Allora penso: ma ne valeva la pena? Cosa lo ha spinto ad andare? Non poteva restare a casa a divertirsi con gli amici? Una dichiarazione dell’Ufficio Politico del PCI forse mi aiuta a darmi una prima risposta. “Assistiamo a sempre più frequenti forme di contestazione e protesta nei confronti di manifestazioni clamorose e intollerabili di sperpero, prodotto di un regime che genera sempre più stridenti sperequazioni sociali, che condanna allo sfruttamento grandi masse di uomini e donne e consente alle classi dominanti l’ostentazione impudente della ricchezza”.  Effettivamente ci dicono sempre che va tutto bene, che stiamo tutti bene, ma se guardi in giro c’è tanta miseria e persone che si ammazzano di lavoro per poter apparire: lo Stato invece di aiutare la povera gente ti invita con la televisione a comprare e a spendere sempre di più. I giornali sono pieni di pubblicità e le case sono piene di cose inutili, è una rincorsa continua all’avere, al consumismo. Almeno, così mi sembra, ma sono confuso e devo sapere. E allora basta con i giornali! Prima di rientrare a casa voglio parlare con Franco. Lui sicuramente c’era alla Bussola tra i contestatori e mi deve raccontare, deve spiegarmi perché era giusto esserci, perché c’è bisogno di contestare e se davvero ne vale la pena.

Arrivo davanti casa sua, alzo la Vespa sul cavalletto e busso alla porta. Mi accoglie la madre con cipiglio storto e muso lungo: “Franco è su che dorme, vallo a svegliare che tra un po’ si mangia“. Salgo le scale, entro in camera. Franco è una massa informe sotto due strati di imbottito: di lui spunta solo la ciuccia andina che gli ha portato il Vecci dal Perù. Lo sveglio, si siede sul letto, cerca il pacchetto e si accende una Gauloises, poi mi guarda come dire: che vuoi? Gli dico e comincia a parlare: “Lo so, è successo un bel casino, ma non doveva mica finire così… Avevamo portato delle ceste piene di uova e pomodori poi invece dei soliti poliziotti con i manganelli ci siamo trovati di fronte cinquanta carabinieri con le pistole. Non si volevano provocare, ma quando hanno cominciato a prendere i compagni e le compagne, trascinarli per terra, riempirli di botte, chiuderli nei cellulari, la situazione è degenerata.. abbiamo fatto una barricata per impedire che ci prendessero tutti… ma nessuno di noi aveva una pistola, nessuno di noi ha sparato. Intanto però una cinquantina li hanno presi e sono in carcere. Quelli rischiano grosso… e poi quel povero ragazzo, dicono che non camminerà più. Io sono andato sulla spiaggia e ci inseguivano anche lì, ma ho fatto finta di passeggiare a braccetto con una e questo mi ha salvato…” Franco comincia a parlarmi di autoritarismo, di repressione, di lotta al sistema e ancora di società dei consumi, di capitalismo, di imperialismo, di proletari, di sfruttamento e di un tale Marcuse che non so chi sia e allora non lo seguo più e mi sento sempre più in confusione e cerco di interromperlo perché ora basta mi dico e voglio andare via. Poi una parola dentro una nuova dichiarazione programmatica mi accende la speranza di poter entrare in sintonia con lui, perché in fondo in fondo Franco mi piace e mi da fiducia. La parola è: Utopia! “Lo sai cosa gridavano gli studenti francesi durante i cortei del maggio scorso? Gridavano: Siate realisti, chiedete l’impossibile! Ecco questa è la nostra utopia, questa è la sola via che ci potrà portare ad una vera liberazione, ad un vero cambiamento della nostra vita. Nella famiglia, nella scuola, nel lavoro, nelle istituzioni: pretendere l’impossibile, cambiare radicalmente il nostro stile di vita e lottare contro tutto quello che ce lo impedisce di fare, contro i professori, i genitori, i militari, i padroni, i capitalisti. Noi vogliamo vivere da uomini liberi, questa è la nostra utopia che ci darà la forza di batterci fino alla distruzione di questo sistema ingiusto”.

Ma è così che vorrei vivere anch’io: libero e non soffocato da una scuola che stressa, con professori vecchi e inaciditi che non ti danno fiducia, che ti perseguitano sospettosi e parlano e parlano e parlano senza mai ascoltarti e non vogliono sapere come stai, come va la famiglia, cosa pensi della tua vita, dei tuoi amici, delle ragazze. Voglio vivere libero in un paese dove troppi ti guardano male perché porti i capelli lunghi e vesti strano. Libero da tutti quelli che fanno a gara per dimostrarti che nella vita quello che solo conta e ha valore è il denaro. Da quell’istigazione al consumismo che passa ogni giorno dalle trasmissioni della TV. E poi dalla madre che urla in continuazione, la madre che urla in fondo alle scale “E’ in tavolaaaa!” Questa però non è la mia, è quella di Franco, che allora decide di alzarsi. Prima di vestirsi allunga una mano sul comodino: prende e mi porge un piccolo libro con la copertina grigia. Penso ad un trattato marxista, a qualche scritto di un capo comunista, invece titola: Lettera a una Professoressa. “Leggilo, mi dice, vedrai che tanta ingiustizia, tanti soprusi del potere costituito, tanti diritti negati, l’hai vissuti anche te, che sei figlio di famiglia proletaria. Leggi quello che c’è scritto così capirai di non essere più il solo a vivere male: allora sentirai crescere dentro una nuova forza, una nuova spinta a unirti agli altri che combattono per cambiare questa società. Avrai conquistato una nuova coscienza, una coscienza di classe. Martedì prossimo, il 7 gennaio, facciamo una manifestazione di protesta a Pisa per chiedere la scarcerazione dei compagni: caro Mandarino, te ci devi essere! E’ arrivata l’ora che tu apra gli occhi e ti comporti di conseguenza, invece di continuare a strimpellare nelle sale da ballo. Passa all’impegno militante insieme a noi. Ti aspetto!”

Lo ringrazio e ci salutiamo: scendo giù ed esco con il libro in mano, sotto lo sguardo torvo di sua madre. Poi, carico a mille, rientro a casa, dove mi aspetta la mia: “E’ questa l’ora di tornà a casa? In tavola è tutto ghiaccio” “Mamma, da oggi io sono proletario in contestazione contro il potere e la repressione del sistema capitalista e consumista che vuole lo sfruttamento e l’oppressione totale della coscienza delle masse. Da oggi io sono con l’impegno militante di tutti i giovani che invece di strimpellare nelle sale da ballo vogliono la liberazione per chiedere l’impossibile” “Sarà meglio se vai dal dottore? Oggi l’ambulatorio è aperto…” “Ma che dottore e dottore! Sono proletario in contestazione t’ho detto! Devo leggere questo libro qui, vado su e non mi chiamare fino a stasera… e non urlare!”

Il 7 gennaio 1969, una settimana dopo i fatti della Bussola, mi tagliai i capelli dal Frizza, comprai un eskimo verde foderato di similpelliccetta bianca al banchetto di Piazza Grande e partecipai alla mia prima manifestazione politica di protesta: Franco, con la sua ciuccia andina in testa, una Gauloises puzzolente tra le labbra, e quel libro che conservo ancora, mi aveva fatto aprire gli occhi, mi aveva trascinato sulla strada da seguire per unirmi a tutti coloro che si battevano per mettere in pratica l’utopia di poter cambiare il mondo. Ancora oggi non so dire come sia andata, ma fu lì, a Pisa, in quel del sette di gennaio del ’69, che prese le prime mosse il mio ’68.

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  1. Confesso:mi è piaciuto, anche se…troppo lungo! Perché la giovanile freschezza della prima parte(deliziosa) si perde nella narrazione della crescita e/o presa di coscienza del protagonista.Mi ricorda tanto Virzì, il suo Ovo sodo…Irruenza giovanile che appartiene a tutti i romantici, non solo ai primi sessantottini, idealismo, rimpianto del bel tempo che fu.la descrizione del Capodanno invece mi ricorda quello di Fantozzi! Invece caro Claudio, tutto il tuo scanzonato raccontoi(perché poi in fondo Lui, mica cresce, mica ci crede davvero, gli è tutta una scusa la sua,ovvia!) mi fa riflettere sul tempo che fu.Io , pensa, sono appena un po’più anziana di Bixio, e mi ricordo perfettamente dei fatti della Bussola ed anche dell’ova marce tirate ai signoroni della Scala.Ho conosciuto tanti Eskimo, son passati tanti anni, e guardo al passato con compiaciuti sorrisi saggi.Grazie.Ciao! (Oh bischero! , già perché Son fiorentina!)

  2. Cara Laura, la ringrazio per aver letto e commentato il mio “troppo lungo” racconto. Vorrei precisare che tutto quanto narrato non è frutto della mia fantasia ma è realmente accaduto. Così come le citazioni tratte dai quotidiani sono fedelmente riprese e riportate da quanto scritto sulle pagine de La Nazione, La Stampa e L’Unità in quei primi giorni del gennaio ’69, i cui articoli sono andato a ricercare negli archivi della Biblioteca statale di Lucca. A cinquant’anni di distanza la macchina celebrativa del’68 viaggia già a pieni giri mettendo a confronto le idee e le opinioni di chi esalterà la spinta innovativa e rivoluzionaria di quel periodo con quelle di chi ne trarrà un bilancio negativo. Io ho cercato solo di evidenziare la scossa che, partendo da quell’episodio della Bussola ha scatenato una presa di coscienza in un giovane che fino ad allora aveva pensato ad altro. Un racconto di formazione che lascia comunque ad altri, a chi legge ad esempio, il compito di trarre le conclusioni e non perché non ci ho creduto, ma forse perché ci ho creduto fin troppo.
    Grazie ancora. Un abbraccio!

  3. Mi è piaciuto perché ricrea uno spaccato sociale di quegli anni… Sapere poi che le citazioni riportate sono notizie di cronaca vera conferisce al tuo racconto una marcia in più. Io qui ci vedo le potenzialità di un romanzo!
    Bravo Claudio,
    in bocca al lupo.

  4. Cara Mariangela sei proprio gentile. Fa bene al morale ricevere feedback positivi come il tuo. Il romanzo è in cantiere ed è il naturale seguito del mio romanzo CHICCO DI NASO, nelle librerie da qualche mese. Un abbraccio.

  5. Ho letto il racconto con interesse anche per i riferimenti di cronaca giornalistica che hanno sicuramente arricchito il mio bagaglio culturale. Inoltre è ammirevole e coraggiosa la trasformazione finale del protagonista … si vede che non sei uno scrittore alle prime armi. Quindi complimenti e in bocca al lupo!

  6. Mi è piaciuto. La prima parte scorrevole e accattivante e la seconda necessariamente riportante i riferimenti giornalistici dell’epoca. Dico necessariamente perché, come sai, già per le generazioni immediatamente dopo la nostra gli accadimenti di quei tempi sono avvolti da una nebbia informativa che distorce e confonde. Io ricordo quei fatti e ricordo che avrei voluto esserci. Non credo però che tu non sappia come è andata, Credo che la tua sia una domanda retorica per indurre alla riflessione. Sbaglio? Io, per consolarmi, mi ripeto spesso che utopia non significa che una cosa non può accadere, ma indica un qualcosa che ancora non è accaduto. Scusa la dissertazione e complimenti!

  7. Devo ancora ringraziare Lucia Finelli per le belle parole e i complimenti che mi rivolge e che sicuramente mi fanno piacere, ma al tempo stesso mi fanno meravigliare perché in questi tempi bui ricevere apprezzamenti per quello che si fa, si scrive o si dice, è veramente sempre più raro. Grazie ancora.

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