Racconti nella Rete®

23° Premio letterario Racconti nella Rete 2023/2024

Premio Racconti nella Rete 2016 “La soffitta del nonno” di Marzia Pietrelli

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2016

Lo prendevamo sempre in giro perché non buttava via niente. Le tasche erano piene di corde, sacchetti e fil di ferro. Nel cassetto del tavolo, in cucina, teneva manici o lame di coltelli che furono, vecchi cucchiai, forchette sdentate, pezzi di tappi e di cavatappi. In cantina, c’erano cose di dimensioni più grandi, dalle damigiane spagliate alle paglie senza fiaschi, ombrelli in tutti gli stati – con o senza tela, con o senza manico, stecche di varie lunghezze e dimensioni, tavole e tavoloni, anime di carriole, vecchi bugé ancora incrostati di cemento, mozziconi di candela, piedi di porco, zappe e vanghe arrugginite, con o senza manico, cazzuole, e sbarre di ferro di svariate misure.

Nel baule di suo nonno – andata e ritorno dalle Americhe in gioventù – metteva vecchi giornali, dei Tex dalle pagine staccate, pezzi scompagnati di servizi di porcellana, lacci di scarpe, qualche tomaia, fili di vario genere e natura, attrezzi da barbiere ossidati, fiale e fialette vuote, bottiglie di sciroppo a metà e campioncini di profumi e di liquore.

In una madia in disuso, teneva stoffe, pezze, stracci, cenci, tappeti sfilacciati, tulle dei sacchetti di confetti, una collezione impressionante di bomboniere, vecchi grembiuli macchiati, strofinacci con i buchi, sacchi di juta; in vecchie scatole metalliche di biscotti, aveva aghi di tutte le misure e bobine di filo di mille colori; in un cesto, c’erano fiori finti e orecchini solitari; in un altro, bottoni su bottoni, elastici e bretelle, corde di violino e chitarra, tasti di tromboni e fisarmoniche.

Non conoscevamo nemmeno tutti gli anfratti del suo laborioso vagare. Era vecchio, ma faceva sempre qualcosa, non si lamentava mai e si sedeva solo per leggere. Gli piaceva molto restare in soffitta.

Anni dopo la sua morte, scoppiò la guerra. Noi che gli volevamo bene quando lo prendevamo in giro, abbiamo eretto altari in suo onore nei nostri cuori durante il lungo conflitto: ci aveva lasciato un’eredità che ci ha assicurato il quotidiano e la vita. Abbiamo barattato oggetti per mangiare e venduto altri sul mercato nero per curarci. Ci siamo vestiti e calzati quando stoffe e cuoio erano quotati a peso d’oro. Abbiamo potuto riparare buchi e condutture e rifarci un tetto quando le bombe lo fecero saltare. Ci abbiamo fatto incastrare un carnevale ricavando costumi per i bambini e perfino coriandoli, tagliando per notti intere le pagine colorate di vecchi giornali. Al matrimonio di mia cugina, che capitò in pieno bombardamento, mancarono piatti elaborati e spumante, ma non le bomboniere. Riuscimmo a dare dignità a chi era stato costretto a nascondersi o a fingere un’altra identità: il sarto yiddish, che alla fine della guerra mise una foto di mio nonno accanto all’immagine di Yahvé, suo zio farmacista che seppe sapientemente sfruttare fino all’ultima goccia di sciroppo per tutto il vicinato e pure per i soldati che avevano capito; gli zingari che tiravano i carretti di giorno e suonavano strumenti di fortuna di sera.

Il nonno, che aveva conosciuto la fame, credeva nel valore della piccole cose. La sua filosofia ci aveva garantito il quotidiano e anche un po’ di più; ci aveva fatto vivere degnamente quando sarebbe stato legittimo mettersi la dignità sotto i piedi. Aveva permesso anche a qualcuno di morire degnamente: perfino i fiori finti erano serviti ad accompagnare Leone, il fioraio, al quale quella stramaledetta guerra aveva strappato lavoro e passione. Si era ammalato di tristezza, costretto a coltivare un orto minuscolo in cassette della frutta. Ogni sera, quando accendevamo il lume grande, con lo stoppino ricavato dai metri di corda che ci aveva lasciato e il petrolio barattato contro viti e chiodi, ci sedevamo attorno al tavolo e fissavamo per cinque minuti la fiamma pensando a lui. Il nostro cuore era pieno di gratitudine e batteva come la lancetta del suo orologio da taschino posato sul tavolo.

Quando la guerra finì, era primavera inoltrata e organizzammo una grande festa. Decidemmo di aprire la soffitta, l’ultimo luogo inviolato del nonno. Aprimmo la vecchia porta di legno, chiusa a dieci mandate, e trovammo una sorpresa. Centinaia, forse migliaia di ombrelli di ogni dimensione, ordinati per macchie di colore, come una tavolozza di un pittore. Ombrelli che il nonno aveva riparato nel tempo e che nessuno aveva reclamato. Ombrelli rotti dal vento e rimessi insieme come un patchwork. Ombrelli per ripararsi. Decidemmo di tenere la festa all’aperto, scegliemmo gli ombrelli più grandi e creammo un grande immenso tendone colorato che dall’alto sembrava un paesaggio di minareti arcobaleno.

Fu la festa più bella del mondo. Sentimmo che gli ombrelli ci avrebbero protetto fino alla fine dei tempi.

Lo prendevamo sempre in giro perché non buttava via niente. Le tasche erano piene di corde, sacchetti e fil di ferro. Nel cassetto del tavolo, in cucina, teneva manici o lame di coltelli che furono, vecchi cucchiai, forchette sdentate, pezzi di tappi e di cavatappi. In cantina, c’erano cose di dimensioni più grandi, dalle damigiane spagliate alle paglie senza fiaschi, ombrelli in tutti gli stati – con o senza tela, con o senza manico, stecche di varie lunghezze e dimensioni, tavole e tavoloni, anime di carriole, vecchi bugé ancora incrostati di cemento, mozziconi di candela, piedi di porco, zappe e vanghe arrugginite, con o senza manico, cazzuole, e sbarre di ferro di svariate misure.

Nel baule di suo nonno – andata e ritorno dalle Americhe in gioventù – metteva vecchi giornali, dei Tex dalle pagine staccate, pezzi scompagnati di servizi di porcellana, lacci di scarpe, qualche tomaia, fili di vario genere e natura, attrezzi da barbiere ossidati, fiale e fialette vuote, bottiglie di sciroppo a metà e campioncini di profumi e di liquore.

In una madia in disuso, teneva stoffe, pezze, stracci, cenci, tappeti sfilacciati, tulle dei sacchetti di confetti, una collezione impressionante di bomboniere, vecchi grembiuli macchiati, strofinacci con i buchi, sacchi di juta; in vecchie scatole metalliche di biscotti, aveva aghi di tutte le misure e bobine di filo di mille colori; in un cesto, c’erano fiori finti e orecchini solitari; in un altro, bottoni su bottoni, elastici e bretelle, corde di violino e chitarra, tasti di tromboni e fisarmoniche.

Non conoscevamo nemmeno tutti gli anfratti del suo laborioso vagare. Era vecchio, ma faceva sempre qualcosa, non si lamentava mai e si sedeva solo per leggere. Gli piaceva molto restare in soffitta.

Anni dopo la sua morte, scoppiò la guerra. Noi che gli volevamo bene quando lo prendevamo in giro, abbiamo eretto altari in suo onore nei nostri cuori durante il lungo conflitto: ci aveva lasciato un’eredità che ci ha assicurato il quotidiano e la vita. Abbiamo barattato oggetti per mangiare e venduto altri sul mercato nero per curarci. Ci siamo vestiti e calzati quando stoffe e cuoio erano quotati a peso d’oro. Abbiamo potuto riparare buchi e condutture e rifarci un tetto quando le bombe lo fecero saltare. Ci abbiamo fatto incastrare un carnevale ricavando costumi per i bambini e perfino coriandoli, tagliando per notti intere le pagine colorate di vecchi giornali. Al matrimonio di mia cugina, che capitò in pieno bombardamento, mancarono piatti elaborati e spumante, ma non le bomboniere. Riuscimmo a dare dignità a chi era stato costretto a nascondersi o a fingere un’altra identità: il sarto yiddish, che alla fine della guerra mise una foto di mio nonno accanto all’immagine di Yahvé, suo zio farmacista che seppe sapientemente sfruttare fino all’ultima goccia di sciroppo per tutto il vicinato e pure per i soldati che avevano capito; gli zingari che tiravano i carretti di giorno e suonavano strumenti di fortuna di sera.

Il nonno, che aveva conosciuto la fame, credeva nel valore della piccole cose. La sua filosofia ci aveva garantito il quotidiano e anche un po’ di più; ci aveva fatto vivere degnamente quando sarebbe stato legittimo mettersi la dignità sotto i piedi. Aveva permesso anche a qualcuno di morire degnamente: perfino i fiori finti erano serviti ad accompagnare Leone, il fioraio, al quale quella stramaledetta guerra aveva strappato lavoro e passione. Si era ammalato di tristezza, costretto a coltivare un orto minuscolo in cassette della frutta. Ogni sera, quando accendevamo il lume grande, con lo stoppino ricavato dai metri di corda che ci aveva lasciato e il petrolio barattato contro viti e chiodi, ci sedevamo attorno al tavolo e fissavamo per cinque minuti la fiamma pensando a lui. Il nostro cuore era pieno di gratitudine e batteva come la lancetta del suo orologio da taschino posato sul tavolo.

Quando la guerra finì, era primavera inoltrata e organizzammo una grande festa. Decidemmo di aprire la soffitta, l’ultimo luogo inviolato del nonno. Aprimmo la vecchia porta di legno, chiusa a dieci mandate, e trovammo una sorpresa. Centinaia, forse migliaia di ombrelli di ogni dimensione, ordinati per macchie di colore, come una tavolozza di un pittore. Ombrelli che il nonno aveva riparato nel tempo e che nessuno aveva reclamato. Ombrelli rotti dal vento e rimessi insieme come un patchwork. Ombrelli per ripararsi. Decidemmo di tenere la festa all’aperto, scegliemmo gli ombrelli più grandi e creammo un grande immenso tendone colorato che dall’alto sembrava un paesaggio di minareti arcobaleno.

Fu la festa più bella del mondo. Sentimmo che gli ombrelli ci avrebbero protetto fino alla fine dei tempi.

Lo prendevamo sempre in giro perché non buttava via niente. Le tasche erano piene di corde, sacchetti e fil di ferro. Nel cassetto del tavolo, in cucina, teneva manici o lame di coltelli che furono, vecchi cucchiai, forchette sdentate, pezzi di tappi e di cavatappi. In cantina, c’erano cose di dimensioni più grandi, dalle damigiane spagliate alle paglie senza fiaschi, ombrelli in tutti gli stati – con o senza tela, con o senza manico, stecche di varie lunghezze e dimensioni, tavole e tavoloni, anime di carriole, vecchi bugé ancora incrostati di cemento, mozziconi di candela, piedi di porco, zappe e vanghe arrugginite, con o senza manico, cazzuole, e sbarre di ferro di svariate misure.

Nel baule di suo nonno – andata e ritorno dalle Americhe in gioventù – metteva vecchi giornali, dei Tex dalle pagine staccate, pezzi scompagnati di servizi di porcellana, lacci di scarpe, qualche tomaia, fili di vario genere e natura, attrezzi da barbiere ossidati, fiale e fialette vuote, bottiglie di sciroppo a metà e campioncini di profumi e di liquore.

In una madia in disuso, teneva stoffe, pezze, stracci, cenci, tappeti sfilacciati, tulle dei sacchetti di confetti, una collezione impressionante di bomboniere, vecchi grembiuli macchiati, strofinacci con i buchi, sacchi di juta; in vecchie scatole metalliche di biscotti, aveva aghi di tutte le misure e bobine di filo di mille colori; in un cesto, c’erano fiori finti e orecchini solitari; in un altro, bottoni su bottoni, elastici e bretelle, corde di violino e chitarra, tasti di tromboni e fisarmoniche.

Non conoscevamo nemmeno tutti gli anfratti del suo laborioso vagare. Era vecchio, ma faceva sempre qualcosa, non si lamentava mai e si sedeva solo per leggere. Gli piaceva molto restare in soffitta.

Anni dopo la sua morte, scoppiò la guerra. Noi che gli volevamo bene quando lo prendevamo in giro, abbiamo eretto altari in suo onore nei nostri cuori durante il lungo conflitto: ci aveva lasciato un’eredità che ci ha assicurato il quotidiano e la vita. Abbiamo barattato oggetti per mangiare e venduto altri sul mercato nero per curarci. Ci siamo vestiti e calzati quando stoffe e cuoio erano quotati a peso d’oro. Abbiamo potuto riparare buchi e condutture e rifarci un tetto quando le bombe lo fecero saltare. Ci abbiamo fatto incastrare un carnevale ricavando costumi per i bambini e perfino coriandoli, tagliando per notti intere le pagine colorate di vecchi giornali. Al matrimonio di mia cugina, che capitò in pieno bombardamento, mancarono piatti elaborati e spumante, ma non le bomboniere. Riuscimmo a dare dignità a chi era stato costretto a nascondersi o a fingere un’altra identità: il sarto yiddish, che alla fine della guerra mise una foto di mio nonno accanto all’immagine di Yahvé, suo zio farmacista che seppe sapientemente sfruttare fino all’ultima goccia di sciroppo per tutto il vicinato e pure per i soldati che avevano capito; gli zingari che tiravano i carretti di giorno e suonavano strumenti di fortuna di sera.

Il nonno, che aveva conosciuto la fame, credeva nel valore della piccole cose. La sua filosofia ci aveva garantito il quotidiano e anche un po’ di più; ci aveva fatto vivere degnamente quando sarebbe stato legittimo mettersi la dignità sotto i piedi. Aveva permesso anche a qualcuno di morire degnamente: perfino i fiori finti erano serviti ad accompagnare Leone, il fioraio, al quale quella stramaledetta guerra aveva strappato lavoro e passione. Si era ammalato di tristezza, costretto a coltivare un orto minuscolo in cassette della frutta. Ogni sera, quando accendevamo il lume grande, con lo stoppino ricavato dai metri di corda che ci aveva lasciato e il petrolio barattato contro viti e chiodi, ci sedevamo attorno al tavolo e fissavamo per cinque minuti la fiamma pensando a lui. Il nostro cuore era pieno di gratitudine e batteva come la lancetta del suo orologio da taschino posato sul tavolo.

Quando la guerra finì, era primavera inoltrata e organizzammo una grande festa. Decidemmo di aprire la soffitta, l’ultimo luogo inviolato del nonno. Aprimmo la vecchia porta di legno, chiusa a dieci mandate, e trovammo una sorpresa. Centinaia, forse migliaia di ombrelli di ogni dimensione, ordinati per macchie di colore, come una tavolozza di un pittore. Ombrelli che il nonno aveva riparato nel tempo e che nessuno aveva reclamato. Ombrelli rotti dal vento e rimessi insieme come un patchwork. Ombrelli per ripararsi. Decidemmo di tenere la festa all’aperto, scegliemmo gli ombrelli più grandi e creammo un grande immenso tendone colorato che dall’alto sembrava un paesaggio di minareti arcobaleno.

Fu la festa più bella del mondo. Sentimmo che gli ombrelli ci avrebbero protetto fino alla fine dei tempi.

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5 commenti »

  1. L’ho riletto tre volte. Lo rileggerò nuovamente

  2. Leggere questa “storia” m’ ha fatto inspirare a lungo. Effetto “c’era una volta”:dolci scene, sensazioni di segreti. Delicato e intenso. Brava!

  3. Barbara, Luisa, grazie per aver letto e commentato.
    Quando uno scritto tocca corde profonde in me, lo leggo e rileggo, spesso ad oltranza. O lo riprendo, anche dopo tempo, per rinnovare le emozioni. Spero che sia questo il motivo che ha spinto te, Barbara, a rileggerlo.
    Mi emoziona sapere che qualcuno ha letto e “sentito” proprio quello che volevo trasmettere. Grazie di cuore.

  4. Un racconto malinconico, a tratti perfino struggente, che rimanda alla visione di un mondo in cui gli oggetti assumono la dimensione di elementi narrativi dotati di vita propria e un valore quasi spirituale.

  5. Antonio, grazie di cuore di aver trovato tempo non solo per leggere, ma anche per commentare. Sono due energie ben diverse che si mettono in gioco.
    Ho scoperto quasi un volto nuovo del mio racconto. Mi è molto caro ed ha un valore, oserei dire, di talismano (per me ovviamente). Grazie ancora.

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