Racconti nella Rete®

23° Premio letterario Racconti nella Rete 2023/2024

Premio Racconti nella Rete 2014 “La sedia a dondolo” di Alessandro Menchi

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2014

Arturo Gori, per tutta la vita, era stato un vigliacco.

E si sentì esattamente così quando Giuseppe Lorenzini si sedette vicino a lui sulla vecchia sedia a dondolo in veranda. “Un vigliacco, ecco cosa sono”, pensò, mentre il pigro zampettare dei conigli riecheggiava sordo dalle gabbie nella vecchia stalla sul retro.

Giuseppe lo aveva riaccompagnato dal funerale di Maddalena, la moglie di Arturo, e non se la sentiva di lasciarlo da solo in quello stato. Almeno non subito. A parte Maddalena, che adesso non c’era più, lui era l’unica persona a cui importasse qualcosa di Arturo. Lo conosceva da quasi quarant’anni, da quando avevano fatto il militare insieme a Salerno. Si erano sempre voluti bene come due buoni amici. Eppure, fra di loro, c’era come un’impalpabile distanza mai colmata. Giuseppe osservava le pause di mutismo in cui ogni tanto si chiudeva l’amico domandandosi che cosa stesse pensando realmente. E in tutti quegli anni, non era mai riuscito a capirlo davvero.

Anche quella volta Arturo era piombato in uno di quei silenzi prolungati e assenti. Chi lo avesse conosciuto solo quel giorno avrebbe detto che era il cordoglio per la sua perdita ad ammutolirlo. Ma in quel momento, qualcos’altro lo turbava. Qualcosa di imperscrutabile, qualcosa di inconfessabile. Giuseppe, mentre parlava a piccole dosi, come a centellinare l’unico discorso che gli era rimasto, lanciava occhiate furtive all’amico, domandandosi cosa fosse quel qualcosa. Tutto si immaginava, tranne quello che Arturo stava pensando realmente, e cioè che la vecchia sedia a dondolo su cui poggiavano le chiappe rinsecchite del suo amico era quella di Maddalena e che nessuno si era mai permesso di sedersi lì. Mai, fino a quel momento. Come al solito Arturo aveva taciuto, inerme. Non aveva detto all’amico di cercarsi un’altra sedia. Non aveva detto all’amico che quello era l’oggetto che più gli ricordava sua moglie. Non gli aveva detto niente. Aveva voltato gli occhi grigi verso l’orizzonte, e si era ammutolito.

«Ti va un bicchiere di vino?», domandò Giuseppe, rimasto a corto di parole. «Ce l’hai ancora quel Chianti che bevemmo a Natale?», proseguì, alzandosi per entrare in casa. Arturo osservò per alcuni secondi il leggero dondolio impresso alla sedia dai palmi callosi di Giuseppe, poi alzo gli occhi e fece cenno di no. «Ah, peccato», si lasciò sfuggire Giuseppe. «Che ne dici se preparo qualcosa allora?». «Il frigo è vuoto. E anche la dispensa. Sai, stando tutti questi giorni in ospedale…», Arturo non finì la frase. «Non fa niente, vado a comprare qualcosa e ci facciamo una bella mangiata», disse Giuseppe non senza sentirsi un po’ in colpa per averlo detto. Senza aspettare la risposta dell’amico, che del resto non arrivò, Giuseppe salì in macchina e partì sgommando sulla polvere del cortile. Arturo lo guardò allontanarsi lungo quella provinciale che divideva in due la campagna come una cicatrice d’asfalto. Rimase assorto per alcuni minuti, contemplando quell’appezzamento che circondava la casa e che era l’unica cosa che aveva mai realmente posseduto in vita sua. Poi entrò in casa.

Da una piccola credenza di faggio consumata dalle termiti estrasse la bottiglia di Chianti. Ne bevve avidamente due bicchieri. Poi svuotò il rimanente nel lavello della cucina. Mentre quel liquido color sangue si attorcigliava in un piccolo gorgo sullo scarico, Arturo alzò lo sguardo e vide la sua vecchia faccia deformata dal metallo lucido di uno sportello. Il viso smunto seguiva i contorni di una piccola infossatura verticale, come se una pressa gli avesse rimpicciolito la faccia. Le lacrime che gli iniziarono a solcare le guance non si vedevano in quel riflesso ma lui le sentiva colare e pizzicargli l’ispida barba incanutita. Improvvisamente, udì un rumore sordo provenire dal retro della casa. Drizzò la bottiglia e si mise in ascolto. Sperò con tutto se stesso che fosse solo una casualità. Ma poi udì quegli urli, e capì. Nei giorni precedenti aveva trovato due gabbie vuote, ma si era limitato a maledire quel ladro che non aveva mai visto. Ma adesso lo sentiva armeggiare e non poteva ignorarlo. Cercò ragioni valide con cui zittire quella voce interiore che bisbigliava “Io lo so perché non fai niente: perché sei un vigliacco”. Ma a quella voce stridula fecero eco le grida dei conigli. Erano come artigli che si infilavano nelle sue orecchie perforandogli i timpani. Quelle grida avevano il suono di tutta un’esistenza passata in un angolo e che adesso si scavava una via d’uscita con le unghie. Arturo lasciò cadere la bottiglia vuota che si infranse sul pavimento. Andò nell’atrio e, con mani tremanti, aprì il lucchetto che sigillava la rastrelliera porta fucili. Afferrò una doppietta, spinse due cartucce in canna e la richiuse. Poi uscì.

L’uomo stava trascinando un sacco di corda lungo il viottolo che portava dalla rimessa alla rete che delimitava la proprietà. Indossava un vecchio piumino rattoppato e camminava all’indietro puntellando i talloni sull’erba umida. Arturo lo guardava a distanza attraverso la rete che circondava le gabbie dei polli, nascosto, vile. Avrebbe voluto intimare a quel bastardo di fermarsi, di lasciar stare i suoi conigli, di lasciarlo in pace. Una volta per tutte. Invece un grumo di saliva dolciastra soffocò l’urlo che non cacciò mai. Le ginocchia si irrigidirono e le palpebre si serrarono per schermare la vista di quelle spalle robuste che gli portavano via la dignità. E trattenne il fiato, come a soffocarsi, come a togliere ossigeno a quella parte di cervello che rilascia le emozioni.

E desiderò di morire.

Improvvisamente l’uomo inciampò, calpestando per sbaglio un lembo del sacco che racchiudeva uno di quei gracili corpi: le urla dei conigli si fusero in uno strepito straziante, insopportabile. Arturo riaprì gli occhi. L’uomo si alzò di scatto e cominciò a prendere a calci il sacco, grugnendo qualcosa a quei conigli nel tentativo di zittirli. Ma senza riuscirci. Si udiva il crepitare delle costole dei conigli che si spezzavano sotto quella pioggia di calci. Si udivano quelle urla soffocate nel sangue, che a poco a poco sfumavano in gorgoglii rauchi, come il metallo chiuso in una pressa. Il sacco si aprì, alcuni conigli corsero fuori in cerca di un nascondiglio. Gli altri continuarono ad intonare quel grido di morte.

Poi Arturo sparò.

Il colpo si piantò nel terreno umido, a pochi metri dal ladro, mentre un brivido correva lungo tutto il corpo di Arturo. L’uomo si fermò, alzò gli occhi verso quella doppietta fumante e per un breve attimo ci fu silenzio. «Sei impazzito, sono solo dei conigli», disse l’uomo terrorizzato. Arturo sollevò la canna del fucile che adesso sembrava molto più leggero e la puntò al volto dell’uomo. «Lasciali e vattene, o ti ammazzo», disse con voce rauca. L’uomo spostò il peso del corpo sui talloni, ma non ebbe la forza di muoversi. «Vattene!», gridò Arturo, e stavolta la sua voce risuonò imponente in quella campagna assopita. Era come se Arturo sentisse la sua voce per la prima volta, ed era bellissima. L’uomo corse via, senza voltarsi. Arturo rimase a guardarlo, seguendone la traiettoria con il fucile. Quando sparì dalla sua visuale, raccolse il sacco e trovò due conigli con il cranio spaccato.

Arturo si lavò le mani sporche si sangue nel lavello della cucina, il fucile poggiato lì accanto. Stavolta, guardando il proprio riflesso distorto, si vide come non era mai stato: vide un uomo a cui il tempo non aveva solo tolto ma anche donato; vide un uomo che aveva cercato il coraggio per tutta la vita e che adesso sentiva di averlo trovato; vide un uomo. Sentiva di poter ottenere qualsiasi cosa avesse desiderato. Sentiva di essere invincibile. Sorrise, mentre assaporava quella sensazione. Si sedette in veranda, poggiando il fucile sulle ginocchia. La brezza della sera sollevava piccole nuvole di polvere nel cortile. Guardò la sedia a dondolo della moglie. Il vento la faceva oscillare. Pensò che quando sarebbe tornato Giuseppe, gli avrebbe proibito di sedersi su quella sedia. Avrebbe tenuto il mento alzato, la schiena dritta e, guardandolo negli occhi, gli avrebbe detto: «Non sederti lì. Era di mia moglie». Sorrise soddisfatto a quel pensiero, e si mise ad aspettare.

Quando la macchina di Giuseppe entrò nel vialetto, la brezza si era inasprita e faceva sbattere la vecchia porta arrugginita della stalla.

«Bistecche al sangue e cicoria ripassata!» disse invitante Giuseppe sollevando un sacchetto di plastica sotto il naso di Arturo, il quale, per tutta risposta gli rivolse un sorriso a metà fra la provocazione e la condiscendenza. Giuseppe notò con un certo fastidio quella strana espressione, ma passò oltre e si avviò in casa. Arturo fece per seguirlo, ma dall’interno Giuseppe gli gridò bonariamente di starsene ancora seduto per un po’, che gli avrebbe portato una sorpresa. Arturo, rilassò le spalle sullo schienale ed esclamò con voce sicura: «Va bene. Ti aspetto!». Sentì armeggiare dalla cucina, poi il tintinnare di due bicchieri. La porta si aprì e Giuseppe ne porse uno all’amico, mentre con l’altra mano sfoggiò una bottiglia di Chianti, lo stesso tipo che Arturo aveva buttato via. «Da dan!», esclamò Giuseppe, mentre versava quel liquido color sangue nel bicchiere dell’amico. Arturo rimase pietrificato. Sentì che quello era il calice della sconfitta, e capì che niente era cambiato. Giuseppe raddrizzò la bottiglia con gesto abile, senza versare neanche una goccia. Poi riempì anche il suo bicchiere e posò la bottiglia a terra. Infine si sedette mollemente sulla sedia a dondolo. «Alla salute», esclamò sollevando il bicchiere e portandoselo alle labbra.

Arturo lo guardò e non disse nulla.

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5 commenti »

  1. Molto bello e scorrevole. Mi è piaciuto.

  2. @Paolaberti: grazie!

  3. Metafora della difficoltà che tante persone hanno nel farsi rispettare. Nella vita capita davvero di costruire nella mente dialoghi, scene e situazioni in cui prendere il sopravvento…ma tra il dire e il fare…..
    Angela Lonardo

  4. @Angela Lonardo: hai colto in pieno lo spirito del racconto!

  5. Mi è piaciuto tutto il racconto, trovo molte belle espressioni nella ricerca di uno stile; sopratutto il passaggio della faccia deformata nello sportello prima e dopo la scena del ladro.
    Emanuele.

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