Racconti nella Rete®

23° Premio letterario Racconti nella Rete 2023/2024

Premio Racconti nella Rete 2012 “Versilia, 1959” di Federico Bianca

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2012

“Che caldo!”, pensava Luigi l’oste, facendosi stancamente vento con il cappello di paglia. L’afa era un diversivo, gli impediva di pensare a Mariuccia, la ragazzina che serviva ai tavoli. Il padre di lei si era accorto di qualcosa, voleva evitare chiacchiere, scandali, ricordi. “Dio santo!”, sbuffò, alzandosi e affacciandosi sulla piazza. Un marcantonio quarantenne, aveva combattuto in Russia, volontario, a Salò, era sfuggito alle rappresaglie rosse ma non alle epurazioni, aveva dovuto lasciare il posto di usciere al comune. Proprio lui, così fiero, rispettato e temuto, impazzire per un paio di gambe adolescenziali…Così elastiche, toniche, di seta…Strinse il mezzo sigaro tra i denti, lo sputò rabbiosamente a terra, insieme al tabacco che gli aveva riempito la bocca. E via alla solita e implacabile ridda di pensieri di odio, commiserazione, vendetta, impotenza: la fidanzata che lo abbandona dopo la sua breve prigionia, il padre morto di crepacuore, i vecchi camerati che adesso si salutavano col pugno chiuso, i sospiri di Mariuccia, la consapevolezza morale di avere peccato…La piazza di quel paesino della Versilia era inondata dal sole impietoso di luglio. Il progresso, la ricchezza, la ricostruzione, la bella vita di quel 1959 erano lontani, sembravano stare comodamente appartati nelle scatole delle televisioni, sulle pagine dei quotidiani, nelle fotografie patinate delle riviste. Il medico condotto aveva comprato l’automobile nuova, così come l’avvocato ed il notaio, ma le usavano semplicemente nei fine settimana, per le gite fuori porta. Erano le dieci del mattino, da un’ora non passava più nessuno attraverso la piazza principale, i vestiti cominciavano a pesare sudati sulle spalle e la schiena. Per stordirsi, Luigi fissava lo sguardo torvo sull’asfalto, sulla facciata della chiesa, sui portoni verniciati, sulla calce dei muri di mattoni: i riflessi del sole, accecanti e dolorosi, lo costringevano a chiudere gli occhi, a osservare con curiosità quei ghirigori fluorescenti, a velocità alternata, che si formavano allegramente sotto le sue palpebre, che dispettosi gli facevano marameo, schernendolo per le sue inutili preoccupazioni sentimentali. Fino al giorno prima, avvertendolo della partenza immediata per Firenze, Mariuccia gli aveva voluto asciugare il sudore col suo fazzoletto. Come sempre, si era alzata sulle punte, canticchiando, il fresco cotone del fazzoletto bianco che passava leggero sulla fronte, sul collo. “Chiudi gli occhi” gli diceva, e nettava rapidamente anche quel poco di sudore sulle palpebre. Nessuno, mai, fidanzate o familiari, aveva avuto quel pensiero così accorto. Nei pochi istanti in cui i suoi occhi erano chiusi, Luigi pensava a Dio. In piedi nella fresca ombra della locanda, aspirava lentamente l’essenza dei lunghi capelli di Mariuccia, immaginava il volto magro concentrato infantilmente ad asciugare il sudore senza premere troppo sugli occhi, per non distrarsi smetteva persino di cantare. Luigi pensava al silenzio della chiesa in estate, al confessionale, ai passi silenziosi del prete o del sacrestano. Dio doveva avere a che fare con quel gesto pieno di amore, grazia, concentrazione, in un’atmosfera di calma, lontano da tutti e tutto. Eppure, Luigi lottava per non perdere la fede ed il contatto con Dio. Sapeva che Dio, in qualche modo, era stato presente nelle distese di neve russe, durante la ritirata, i cannoneggiamenti nemici, i caccia in picchiata che mitragliavano le colonne umane senza più difese, le tormente che flagellavano, uccidevano, nascondevano i cadaveri, come a voler ricominciare il massacro ogni volta con più slancio e diligenza. Luigi sperava che, a pensarci bene, forse, una risposta l’avrebbe trovata, per quanto fuggevole come l’ombra dei piccioni che volavano sulla piazza. Sorrise involontariamente, al pensiero del gelo in cui aveva vissuto, al disperato bisogno di calore, al rimpianto feroce e crudele delle spiagge della sua giovinezza. Si avvicinò alla cassa, contò accuratamente tutte le monete dell’incasso – un paio di bottiglie di birra, una forma di pane fresco – , sfogliò il suo unto taccuino, per le eventuali comande a domicilio, fece somme e sottrazioni, si appuntò un paio di cose da chiedere al suo grossista, rispose educato ma freddo ai saluti che un paio di clienti abituali gli rivolsero, affacciandosi sorridenti all’interno, si ricordò di doversi radere, sfogliò distratto un quotidiano sportivo di qualche giorno prima, dimenticato da un signore di passaggio, accese la radio. Controllò speranzoso l’orologio: era passato un quarto d’ora, la giornata era ancora lunga. “Inutile, inutile”, annuì triste, tanto valeva mettersi comodi e pensare a Mariuccia. Il giorno prima era venuta al solito orario, ma vestita con più ricercatezza. “Ti devo parlare”, gli sorrise sforzatamente. Il padre che non voleva guai, la madre spaventata ma pronta ad andare alla polizia, una possibilità appena venuta dalla città… Luigi non si mosse, annuiva semplicemente. “Ora muoio”, pensava: per quanto tempo ancora il cuore deve smettere di battere? Mariuccia, finito il racconto, lo guardava, aspettava. Ma cosa avrebbe dovuto fare? Aveva sedotto una minorenne illibata, una sua impiegata, affidatagli dal padre, un suo vecchio camerata, uno dei pochissimi che non aveva fatto il voltagabbana, dopo la guerra. Doveva ringraziare che non gli avesse sparato! Mariuccia aveva notato il suo pallore, il silenzio, gli occhi vitrei e vuoti. Come si era preparata a quell’addio? Come aveva trascorso la notte? Cosa faceva, adesso? Lo pensava? Che figura, che figura! Luigi si alzò, non poteva stare fermo, passeggiò avanti e indietro nel locale, incurante dei pochi passanti che scivolavano via veloci, in cerca di un’altra sosta all’ombra. Era così che si comportava un uomo? Anche qua, oscuramente, c’entrava Dio. Durante il periodo di Salò, aveva disprezzato i vili, i traditori, gli imboscati, camminava a testa alta nella sua divisa nera, sicuro di sé. Non temeva un colpo alla schiena, l’agguato nella notte, non frugava negli angoli bui dei portoni o i crocicchi deserti. Non era incoscienza o assenza d’istinto di conservazione. Ne aveva viste troppe, troppi amici e parenti erano caduti, dilaniati, smembrati, assiderati. Cosa aveva in più di loro? La mano di Dio? E perché proprio lui? Si sentiva sicuro, protetto, sereno, la coscienza a posto. Certe volte, riteneva giusta la pallottola che lo avrebbe sorpreso impreparato. E ora, invece, questa viltà, la bassezza da seduttore di una ragazzina. Era sfuggito ai russi, ai partigiani, alle rappresaglie per questi atti d’eroismo? La morte del padre, la solitudine, le lacrime d’addio di Fernanda, il passaggio davanti al comune dove non poteva più lavorare, le visite avvilenti ai casini, la mancanza di lavoro, gli sguardi fissi o inclinati dei passanti che non lo salutavano…La provvidenza, attraverso i suoi sentieri, lo aveva condotto a questo? Sfiancato, Luigi si sedette nuovamente. Mormorava il nome della ragazza. Lo aveva salvato da se stesso, da un uomo finito, che viveva di ricordi, morti, sogni di stragi spettacolari, invidia, piaghe continuamente e gioiosamente riaperte. Com’era stata, invece, la prima volta? A Luigi sembrava di ricordare un sogno, da raccontare bisbigliando, come se la sua voce di baritono potesse svegliare la ragazza che felice si era addormentata sul suo petto. Luigi pensava ai soldati morti da seppellire, ai corpi ammassati nelle trincee ghiacciate durante i bombardamenti, ai camerati che si ammucchiavano con lui nella boscaglia, all’alba, spaventati e speranzosi, prima dell’inizio dei rastrellamenti e delle sparatorie. Il suo corpo ricordava il peso di quello dei caduti, dei feriti, dei ragazzi che sapevano di combattere solo per le loro idee, non per la storia. Mariuccia era magra, ma la sua schiena era forte, il suo fianco premeva deciso sul proprio, il costato e la vita erano sì asciutti ma il ritmo del respiro faceva sentire i muscoli e le ossa sani. La ragazza si era donata a lui, si ripeteva quella notte, continuamente. Si era fidata della sua corte che, da scherzosa e galante, era divenuta seria, sofferta, dolorosa. C’era ancora qualcosa di buono per lui, le sue sofferenze avevano uno scopo, la famiglia, i figli, il futuro non erano più immagini distorte da affogare nella chiassosa sala dell’osteria. “Ho sbagliato, tutto qui”. Si stupì della semplicità della soluzione, il problema non esisteva più. Si tolse il grembiule, chiuse il locale, andò alla stazione, alla volta della città e di Mariuccia. Aveva sete, avrebbe bevuto al suo arrivo. Mentre aspettava il treno, giocò con le monete nella tasca dei pantaloni, dispiaciuto di una piccola macchia di vino nello sparato della camicia.

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