Racconti nella Rete®

23° Premio letterario Racconti nella Rete 2023/2024

Premio Racconti nella Rete 2022 “Perché tifo la Samp” di Leonardo Beraldo

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2022

Dedicato a chi l’ha ispirato

Tutti si chiedono come mai io tifi per la Sampdoria. Effettivamente può sembrare strano. Non sono nato né cresciuto a Genova: l’ho vista giusto un paio di volte, due gite fuori porta, ma non è che ci sia particolarmente legato. E anzi, sono molto legato alla mia terra di nascita, un paesino nella parte est della Pianura Padana. Di solito, in questi posti lontani dalle luci della ribalta, la scelta del tifo ricade tra le tre grandi: Juventus, Inter, o Milan. 

Infatti, ad inizio della stagione calcistica 98/99, quando avevo sui sette anni, mi consideravo un tifoso milanista. Mi piaceva l’idea del diavolo, e del rosso e nero, e in più avevano in rosa uno dei miei calciatori preferiti: Bierhoff. Cercavo sempre di imitarne i colpi di testa agli allenamenti di calcio. Non mi venivano granché bene, anche perché non ero proprio un ariete dell’aria di rigore; ero più a mio agio tra linea dei centrocampisti e quella degli attaccanti. In ogni caso, il tifo per il Milan durò poco. Il mio grande amico d’infanzia, Giulio Puppi, è sempre stato interista, un interista di quelli fissati con ogni caratteristica riguardo la squadra e i suoi giocatori e i suoi nemici. Quando annunciai la decisione di tifare Milan, lui cominciò ad additarmi come un traditore, un perdente dal quale tenersi alla larga. Lo diceva scherzando, certo, ma la cosa non mi piacque neanche un po’. Resistetti alle prese in giro e cominciai a nutrire dell’astio nei confronti dell’Inter, anche se -notai in breve- non serviva a molto. L’Inter, tranne nel giro di amici miei, non era considerata proprio un’armata. Mio padre è juventino, e in quegli anni diceva sempre che l’Inter era la squadra adatta a chi si divertiva a “perdere di un soffio”. Questo, oltre alla ormai piccola rivalità nata con Giulio Puppi e ad una sconfitta del Milan contro il Parma per 4 a 0, mi convinse a seguire le orme della famiglia…Forza zebre! Forza bianconeri!

Al solo pensiero di aver messo al collo una sciarpa bianconera mi viene una leggera nausea. Comunque, il problema era che non la sentivo come la mia squadra. Mio padre cercava anche di spronarmi, la domenica pomeriggio e durante i mercoledì di Coppa dei Campioni, ma non c’era niente da fare. Non riuscivo a legarmi ai calciatori, non ne trovavo uno di davvero preferito. Per assurdo, fu proprio grazie al momentaneo tifo per la Juventus che conobbi la Sampdoria e uno dei giocatori a cui sarò sempre affezionato, il grande Ariel Ortega. Era domenica sera, posticipo Juve-Samp, e mio padre mi portò al bar Da Piero, uno di quei bar sport di paese dove si conoscono tutti e si fuma, si gioca a carte, e si guardano le partite sul megaschermo. Ero in mezzo ai tavoli e alla nebbia delle sigarette, in mezzo ai tanti tifosi juventini e ai tanti tifosi antijuventini del paese. Prima di tutto, mi colpì il termine blucerchiato usato da Pizzul durante la telecronaca: c’era qualcosa di davvero unico e originale. Poi, al secondo tempo, arrivò il goal su punizione di Ortega. Non avevo mai visto una punizione così perfetta, una pennellata da venticinque metri infilarsi al millimetro sotto l’incrocio sinistro della porta. Non riuscii a trattenermi e gettai le braccia all’aria. Mio padre mi chiese: “Ehi! Per chi tifi tu?”, come a ricordarmi l’impegno sentimentale verso la Juventus, ma ormai non ce n’era più. Anche se quel giorno perse, tra me e me giurai fedeltà alla Sampdoria. Tanto il campionato era lungo, pensavo.

Quando lo dissi a Giulio Puppi, lui mi prese un po’ in giro, ma senza esagerare. D’altronde la Samp non era una grande Rivale. Potevo ritenermi abbastanza tranquillo; potevo continuare ad avere degli amici senza litigare ogni lunedì mattina, e finalmente seguire con devozione la squadra di Ortega, di cui, ovviamente, provai ad imitare i calci piazzati agli allenamenti. Fin qui non c’è molta differenza con il mio iniziale tifo per il Milan. La cosa dura tuttora grazie o per colpa della penultima giornata di quella stagione del 1999. Mio padre mi portò al bar Da Piero la domenica pomeriggio; sul megaschermo davano proprio il Milan, gli bastava un pareggio per vincere il campionato. Mio padre chiese a Piero, un uomo dai baffi grigi simili a un pennello, se sul piccolo televisore al lato opposto del megaschermo potesse mettere per me la partita della Samp. Piero non fece storie, sintonizzò subito l’apparecchio sul canale giusto, e io, con un bicchiere di aranciata e cannuccia servito al banco, presi a guardare la mia squadra, mentre nel salone si alzavano cori e grida di festeggiamento. Il Milan aveva già segnato un goal. La Samp, invece, si giocava la salvezza. Doveva vincere, e alzai le braccia al cielo quando Montella segnò su punizione l’1 a 0.

A fine primo tempo il Milan era già sul 3 a 0, la Samp invece tentennava sul 2 a 1. In quel quarto d’ora di pausa, Piero, insieme agli altri senatori del bar -tra cui Lele, il re della briscola, Raimondo, la cui testa pelata è ancora oggi l’oggetto più lucido che abbia mai visto, e mio padre- decisero di trasferire la partita della Samp sul megaschermo. Prendemmo a tifare insieme -tutto il bar, tutti gli avventori- per i blucerchiati, e a pregare che il Bologna non segnasse. C’era una sensazione nuova nell’aria, o almeno, nuova per me. Eravamo tesi, preoccupati, e allo stesso tempo speranzosi. Uniti, in questo strano stato d’animo. Al novantaquattresimo minuto, quando ormai pensavo di aver scampato la retrocessione, Sakic entrò duro sull’attaccante del Bologna in area di rigore. Il cuore fece un doppio carpiato e mi si incastrò in gola. Raimondo si alzò in piedi e, a braccio teso, sbraitò contro l’arbitro, che aveva fischiato calcio di rigore. Mi misi le mani sul viso, mio padre un braccio sulla spalla. I lamenti del bar erano tristi ma infuriati. Rimasi così, con le mani sul viso, anche durante l’esecuzione del rigore. Sentii il fischio dell’arbitro, un silenzio veloce e lungo insieme, poi l’esultanza di qualcuno lontano, dal megaschermo. L’intero bar muto. Il fischio di convalida del rigore. Spiai, ma avevo già capito. Il Bologna aveva pareggiato, la partita era finita. La Sampdoria sarebbe retrocessa in serie B.

Piansi, non riuscivo a fermarmi. Ero un bambino ed era la prima grande delusione sportiva. Cercarono tutti di consolarmi, Piero offrendomi non una ma ben due aranciate. Fu Lele a dirmi, mentre mio padre mi dava dei grossi baci sul capo, che prima o poi avremmo festeggiato insieme. Che non era quello il momento, ma che, prima o poi, sarebbe arrivato.

Non che abbia mai festeggiato granché con la Samp, ma quella volta, quella domenica, capii quanto il tifo non fosse una questione personale, o di simpatie, e neppure di vittorie. Riguardava più un momento collettivo, di insieme. Io ero con gli amici di mio padre e mio padre, a sperare di farcela. E io ero con gli amici di mio padre e mio padre, a sapere di non avercela fatta.

Fu in quel momento che divenni un tifoso vero. Un tifoso della Samp.

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4 commenti »

  1. Racconto carino e scorrevole che mostra un percorso nobile per arrivare a scegliere la squadra del cuore. Complimenti

  2. Grazie Andrea, per la lettura e il commento!

  3. Bel percorso, che attinge ai sentimenti più sinceri e genuini, con esempi sempre calzanti; l’epilogo rispecchia la mia personale visione del tifo.

    I bar sport monumenti nazionali ahah

  4. Grazie Nicola!

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