Premio Racconti nella Rete 2022 “Dorothy” di Mariarosaria Rossi
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2022 Negli uffici non c’era più nessuno, le stanze erano ormai vuote, anche il salone. A quell’ora solo lei girava ancora per i
corridoi, recuperava pratiche “evase”, altre “da definire”, altre ancora “sospese”, almeno così c’era scritto sui carrelli dove venivano lasciati tutti quei documenti. A lei poco interessava cosa fossero, per lei era
solo il lavoro che faceva ormai da una vita. Era arrivata a Milano molti anni prima. Aveva lasciato insieme al marito il suo paesino alla volta del nord. Erano altri tempi, tempi difficili. Le case non si affittavano ai meridionali. Fu un compaesano emigrato al nord tanto tempo prima, a trovargli un bugigattolo dove vivere. Il marito era un
muratore e trovò lavoro in una impresa edile. Lei cominciò a fare la domestica ad ore finché aveva fatto domanda per fare le pulizie negli uffici della prefettura ed in una caserma di polizia.
La sua richiesta fu accolta e divenne una dipendente pubblica. La sua voglia di lavorare e di farsi accettare era stata la sua carta vincente. Era rispettata e benvoluta dagli impiegati e dai dirigenti prefettizi e dagli stessi
poliziotti che dormivano nella caserma, forse perché la maggior parte di loro era meridionale.
Dopo diversi anni il ministero dell’interno aveva
riorganizzato gli organigramma dei dipendenti civili e aveva bandito delle selezioni interne. Lei aveva solo il diploma di terza media ma aveva tanta voglia di migliorare e di andare avanti. Il sindacato aveva
organizzato dei corsi di preparazione alla selezione. Anche se stanca dal lavoro e dalle faccende di casa, la sera era felice di andare e seguire le lezioni. Era motivata, si sentiva pronta ad andare avanti.
Ottenne la promozione e subito le cambiarono mansione: venne assegnata all’archivio della questura. Il suo lavoro consisteva nel raccogliere le pratiche scaricate dai vari uffici e nel sistemarle secondo il tipo ed in ordine alfabetico. Era felice: ormai non era più la terrona che era venuta dal sud ad insidiare il lavoro della gente del
nord. Erano passati tanti anni, anche il suo accento originario si era ammorbidito e spesso aveva un intercalare tipico milanese, che, quando tornava giù a trovare i parenti, le dava un tocco esotico rispetto agli abitanti del paese di nascita.
Inutile dire che la maggior parte del suo lavoro era dato dalle pratiche dei cittadini stranieri, una moltitudine che ogni giorno, dal mattino fino al tardo pomeriggio, affollava il salone dell’ufficio
immigrazione.
A volte passando con i suoi carrelli, li intravedeva in attesa. Era sempre molto incuriosita quando notava persone che
ancora non si erano “occidentalizzate”, pettinature elaborate, copricapo particolari o vestiti inusuali. Alcuni cittadini africani, ad esempio, vestivano ancora con abiti variopinti fatti nei loro paesi, le donne africane poi erano bellissime, sembravano tutte regine con abiti lunghi e turbanti con balze e volant. Non poteva negare a se
stessa che però aveva una certa ritrosia nei confronti degli stranieri. Sì, l’affascinava il loro vestire ed il loro apparire diversi, però poi a volte le sembravano tanti, troppi, quasi una minaccia per il suo vivere quotidiano. In bus, spesso, le sembrava che ci fosse troppa gente di ogni colore, di sicuro tutti stranieri, e che gli italiani fossero solo una
piccola minoranza. In alcune strade addirittura sembrava di essere all’estero.
Sì, conosceva anche diversi extracomunitari che erano brave persone e che come lei lavoravano duramente per mandare avanti la famiglia, ma a volte aveva dei dubbi anche su di loro, specie quando parlava con le sue vicine di casa che dicevano sempre che gli stranieri erano tutti spacciatori e ladri. Lei non era così perentoria nei giudizi. Però si rendeva conto che era sempre un po’ guardinga nei confronti di chi non le sembrava italiano.
Si riscosse dai suoi pensieri. Quel lungo giorno di lavoro stava per finire. Era veramente molto stanca. Un attimo di
disattenzione e il carrello urtò uno scaffale nel corridoio, le pratiche caddero rovinosamente a terra. Molte erano tenute da grossi elastici e fu abbastanza semplice raccoglierle e rimetterle sul carrello. A terra
erano rimasti una cartellina rosa e tanti fogli sparsi: moduli con foto, certificati dell’anagrafe, buste paga, contratti di lavoro, pezzi di vita sparpagliati su un pavimento. Li raccolse uno ad uno, scuotendoli per togliere il laniccio di sudicio che c’era a terra, forse proprio per non sporcare la vita che rappresentavano.
Rientrò in archivio, ripose i fascicoli tenuti insieme dagli elastici e poi con pazienza iniziò a sistemare in ordine cronologico quello che si era sparpagliato a terra.
Il primo foglio era un modulo di rilascio di permesso di soggiorno risalente a molti anni prima. La richiedente era una giovane donna di nome Dorothy. La foto spillata al modulo sembrava più una foto segnaletica della polizia che una fototessera e mostrava una donna che non sembrava affatto giovane, il volto verso l’alto, gli occhi persi
nel vuoto, i capelli scarmigliati e niente trucco. Il recapito in Italia sulla domanda era l’indirizzo di una associazione che si occupava del recupero ed integrazione delle donne straniere sfruttate sessualmente da organizzazioni criminali.
Ne aveva letto sui giornali, anche in tv ne avevano parlato. Povere ragazze, arrivavano in Italia con il miraggio di un lavoro regolare, ma una volta giunte nel nostro paese, venivano ridotte in schiavitù e costrette a prostituirsi.
Ora capiva quello sguardo pieno di smarrimento e paura. Dorothy aveva ottenuto un primo permesso di soggiorno e poi un altro e un altro ancora. La donna ripresa nelle fototessera spillate alla varie domande di rinnovo appariva tanto diversa da quella ritratta nella prima. Sembrava che di foto in foto fosse sbocciata alla vita.
Erano i suoi occhi a parlarle, dapprima sguardi timidi come di chi non è del tutto sicuro di essere libero e protetto, poi sguardi sempre più sereni accompagnati da sorrisi lievi, trucco leggero sul volto, capelli acconciati alla moda. Il tempo trascorso in Italia le aveva fatto bene. Provò gioia per lei, da donna a donna, da immigrata a
immigrata. Ripensò alle cattiverie e ai rifiuti ricevuti nei primi tempi dell’arrivo a Milano, certo poca cosa rispetto a quanto aveva dovuto subire Dorothy. Tra le carte trovò un estratto di nascita e la foto di un
neonato stupendo dalle guance pienotte. Che bello, Dorothy era diventata mamma. Ad un’altra domanda di qualche anno dopo, era allegato un altro estratto di nascita, stavolta era arrivata una bambina, altrettanto bella. Le foto di quelle richieste di rinnovo del permesso di soggiorno ormai mostravano una donna serena. Si era appassionata
alla storia di Dorothy, avrebbe voluto saperne di più. Sistemò l’ultimo documento. Era un certificato rilasciato dal Comune di Milano, c’era scritto che Dorothy aveva giurato fedeltà alla Repubblica: era diventata cittadina italiana.
Si commosse, le lacrime le riempirono gli occhi. Con lo sguardo offuscato richiuse la pratica. Solo in quel
momento si accorse che sul frontespizio del fascicolo qualcuno aveva scritto “pratica esodata per acquisto cittadinanza”. Era felice per Dorothy.
Avrebbe voluto dirle che era stata coraggiosa ad affrontare le sue paure e ad affrancarsi dai suoi aguzzini. Avrebbe voluto dirle che era stata brava a trovare un lavoro in un paese straniero,
imparando una lingua sconosciuta. Avrebbe voluto dirle che i suoi
bimbi erano meravigliosi. Avrebbe voluto dirle che lei comprendeva tutto quanto aveva vissuto tra malvagità, difficoltà e lacrime.
Avrebbe voluto dirle che le voleva bene anche se non l’aveva mai vista di persona perché l’aveva sentita vicina nel suo profondo, perché l’aveva sentita uguale con il suo carico di sofferenze, di lotte, di traguardi raggiunti, di umanità. Si asciugò gli occhi, era ora di tornare a casa. Qualcosa però le era accaduto dentro.
Per un attimo si era sentita una piccola parte di un unico immenso, lei insieme a tutti
gli altri. Aveva sentito che il mondo è uno solo e appartiene a tutti, al di là delle frontiere fisiche o mentali con cui pretendiamo di chiudere il nostro piccolo universo come se fosse possibile arginare l’oceano o
richiudere il cielo in una scatola.
Sistemò nello scaffale delle pratiche esodate il fascicolo di Dorothy. Spense le luci. Uscì dall’ufficio, salutando il piantone che da poco aveva iniziato il suo turno. La nebbia avvolgeva gli edifici e i
monumenti quella sera, e il mondo le sembrò un po’ più magico. Salì sull’autobus, fece per timbrare il suo biglietto e si guardò intorno. C’era troppa gente anche quella sera. Tanti occhi su di lei. Le sue
labbra accennarono un sorriso: “Buonasera, anche oggi abbiamo
finito di lavorare”.
Bellissimo, complimenti, di grande sensibilità. Ho trovato geniale il modo in cui hai reso l’idea che tutti noi siamo cittadini del mondo e che le tensioni sociali sarebbero inesistenti se ognuno di noi si guardasse dentro e si mettesse per pochi minuti nei panni dell’altro.
Racconto permeato di profonda umanità che affronta il controverso tema dell’immigrazione in Italia sotto un’ottica positiva, in linea con gli insegnamenti di Papa Francesco. Faccio notare che tra i racconti che ho avuto modo di leggere in questa edizione del Premio ve n’è uno, dal titolo “I sotterranei”, che tratta lo spinoso tema migratorio con sensibilità direi opposta rispetto a “Dorothy” seppure , ne sono convinto, con la stessa intenzione di bene per il futuro del nostro paese
Bellissimo racconto , molto profondo che riesce con semplicità, attraverso uno spaccato di vita quotidiana, a far capire quanto sia bello immedesimarsi anche nelle storie altrui e talvolta provare commozione per esse , senza pensare sempre e solo al nostro egocentrismo, una delle maggiori lacune della nostra società. Complimenti.
Commovente e coinvolgente L identificazione e lo scorrimento nel tempo dell emarginazione toccato con sensibilità, delicatezza ed efficacia. La positività finale che ci rafforza tutti in una speranza che non sia solo tale. Un grande ringraziamento all autrice
Bel racconto, carico di una morale positiva molto evidentemente anche se mai urlata.
Abbiamo letto e riletto tante storie di vite raccontate da noi stessi migranti, da giornalisti e scrittori che provano a mettersi nei nostri panni coraggiosamente, da politici, insegnanti, operatori sanitari, assistenti sociali, vicini di casa ecc…
Leggere però questo punto di vista è estremamente importante. Ambientare una storia/racconto in un ufficio stranieri, nel luogo di confine fra la dignità personale e la clandestinità che rende l’umano invisibile, mostra un senso di rispetto e di serietà presso le istituzioni e le vite altrui.
Cosa spinge una persona dei nostri tempi, così freneticamente catturata dalla superficialità ed egoismo a guardare “il diverso” senza la lente del pregiudizio? Forse la propria immigrazione? Forse la maturità ed esperienza? Oppure una speciale sensibilità personale che manca così tanto alla comunità?
Tutto questo con una penna delicata di Maria Rosaria. Grazie! Spero di rileggerti presto