Racconti nella Rete®

23° Premio letterario Racconti nella Rete 2023/2024

Premio Racconti nella Rete 2021 “Gli incendi si spengono d’inverno” di Carmen Pisanello

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2021

Quell’estate era sempre festa. Bastava uscire di casa e si diventava come matti, specialmente di notte. Con la luna nuova le stelle trionfavano nella volta del cielo e non c’era spazio per l’oscurità. Si vedevano proprio tutte, in quella benedetta isola in mezzo all’oceano.

Leo aveva scaricato una app per imparare a riconoscere le costellazioni. Pensava che le stelle fossero un ottimo argomento di conversazione, perché era bello parlare di qualcosa che tutti conoscono ma nessuno possiede. La vita in città gliele aveva negate e l’unico momento in cui si ricordava della loro esistenza era quando la sua ex ragazza leggeva l’oroscopo mentre faceva colazione.

Per mesi avevano scherzato su Marte in Ariete e la quadratura di Saturno, poi le influenze cosmiche dovettero aver assunto una pessima configurazione, perché la ragazza smise di leggergli l’oroscopo, poi di succhiargli l’uccello e infine di esserci a colazione.

Cercava dunque in cielo le costellazioni responsabili mentre si crogiolava con masochistico piacere nei ricordi, ma aveva dovuto arrendersi allo splendore della Via Lattea senza poter distinguere alcuna costellazione. Perduto nella volta del cielo fino a farsi venire il mal di testa e a perdere l’equilibrio, si stese sul selciato. La notte luminosa lo salvò dalle tentazioni malinconiche. Era stata una buona giornata.

Quel giorno aveva camminato per chilometri sul ciglio dei dirupi che segnavano la zona vulcanica. Era sempre stanco morto dopo quelle escursioni, ma tornava a casa aspettando che succedesse ancora qualcosa: che un vicino gridasse il suo nome per condividere il vino fatto in casa e tapas di frutti di mare, che nascesse un bambino, che scoppiasse un incendio sulla strada per la caldera, la bocca del vulcano, dove i pini si incendiavano ma non morivano mai. Neri e bruciati, qualche anno dopo l’incendio rifiorivano, tornando a ombreggiare la strada tortuosa che portava a el Roque: mille metri di altezza da percorrere a zig zag, fra le strade di montagna, in un susseguirsi di nausea e meraviglia che dava alla testa.

La mattina dopo fu svegliato da una nuvola di fumo. Come accadeva da sempre, ma sempre più spesso, l’incendio era davvero divampato nella calura estiva. Il fumo aveva riempito l’aria fino ai duemila metri, come se il vulcano fosse tornato attivo dopo un milione di anni per ricreare l’isola da capo. Una nube di cenere si era posata sui davanzali, sui panni stesi, sui tavoli e i gradini che scendevano nell’orto. La brezza fresca che veniva dall’oceano era stata sostituita da un vento caldo, che aveva portato con sé sabbia e cenere. Un gatto di paese lo fissava, mentre cinquanta chilometri più a sud la montagna bruciava e un pezzetto di cenere roteava nell’aria per atterrare placidamente nel suo caffè.

I contadini sapevano che era l’inverno il periodo in cui le montagne andavano ripulite dai rami secchi per impedire che un incendio si propagasse per tutta l’isola. Suo nonno lo diceva sempre. Se d’estate il bosco bruciava, gli isolani lo delimitavano accendendo fuochi controllati. Le fiamme si sarebbero incontrate e divampando insieme si sarebbero poi spente in quell’incontro, in una petit mort che era la fine di tutto e la fortuna di chi da quelle ceneri sarebbe nato poi, concimato dalla morte. Leo ricordava le parole di suo nonno: «La fine esiste solo per chi ha gli occhi all’indietro, Leo. La fine è un punto di vista buono per la morte, ma ricorda che intorno, nel frattempo, tutto il resto rinasce».

Nonostante il caldo Leo non sopportava di rimanere in casa. Il modo in cui il padre aveva trasformato la vecchia casa dei nonni a El Remo lo rendeva nervoso. Era stata dipinta d’azzurro e amaranto, decorata con il simbolo dell’ohm sotto il tetto spiovente mentre un tao svettava su finestre e porte. Un pugno nell’occhio per chi osservava le casette sparse sulla costa della montagna, in quel pueblo di mille anime dove le abitazioni tradizionali erano costruite a secco combinando pietre vulcaniche e barro, il terreno argilloso locale. I colori dominanti erano il nero delle pietre e l’arancio delle tegole immersi nel verde delle montagne. Per Leo era stato difficile accettare che suo padre da maestro di geografia fosse diventato Swami Chivisananda. Ancor più difficile convincersi che la casa dove il nonno aveva banchettato con vino e papas in compagnia dei suoi amici contadini fosse diventata una specie di tempio, una casa silenziosa dedicata alla meditazione e alla composizione di musica hare krishna.

Si diresse verso il baretto del pueblo, ubicato in una piccola piazza affacciata sulle profondità del barranco. Mentre si attendeva il tramonto e con lui il primo fresco, i tavolini si erano affollati di discorsi che avevano come unico argomento l’incendio. I ragazzi erano giunti alla stessa conclusione de los mayores: era uno scandalo che la Guardia Civil non lasciasse che i contadini contribuissero allo spegnimento dell’incendio. Si faceva a memoria l’elenco degli incendi precedenti, ma si diceva che quello era il più grave poiché c’erano già stati due morti: un forestale padre di famiglia e una bambina dispersa. La gente ai tavoli era scossa. Allora Drago si mise a raccontare una storia che a Leo era rimasta sconosciuta.

«Claro, l’incendio del 2007! Non lo ricordi perché non c’eri cabròn! Avevi cominciato l’università o qualche altra mierda calvinista o noseque.. – estrasse un borsello di cuoio –l’incendio si propagò qui, sulle montagne poco a nord di El Remo» disse, mentre con una mano indicava la montagna e con l’altra estraeva una cartina. «Avevamo l’obbligo di evacuare, ma tuo nonno, mio padre e io avevamo deciso di nasconderci in cantina. Sì certo, ognuno nella propria cabròn!» Rispose eloquentemente allo sguardo interrogativo di Leo, mentre roteava il braccio e quasi faceva volare la cartina piena di erba e tabacco. «Dalla montagna le pigne cadevano nel villaggio come bombe incendiarie! E noi, – chiuse il porro – zac! Le lanciavamo indietro con le pale!» «Con le pale? – chiese Leo perplesso – ma non avrebbe avuto più sens..» «Vale, vale, claro le spegnevamo con le coperte o con l’acqua. Ma qualcuna l’ho presa al volo e rilanciata indietro, come un fumogeno!» Leo sorrise, mentre immaginava Drago con il volto coperto, pronto per gli scontri con le fiamme. «Se non avessimo disobbedito le nostre case sarebbero andate in fumo – continuò l’amico, assumendo un’aria greve – cosa che potrebbe ancora accadere!». Drago guardò Leo seriamente accendendosi il porro. Effettivamente il problema si riproponeva simile.

Le loro case stavolta non erano nella zona di evacuazione, ma ogni slancio comunitario ad organizzarsi era stato spento – quello sì – sul nascere, quando i contadini giunti con seghe, pale e coperte sul luogo dell’incendio si erano visti rispedire indietro dalla Guardia. Ci si indignò sottovoce, ma quando il numero delle birre e dei bicchieri di vino fu sufficiente, i gruppetti sparsi fra i tavolini del bar si unirono in un unico coro.

«Con questa storia della professionalità ce la stanno menando a tutti per il naso – disse Leo, riavviandosi i capelli scuri ormai rossicci grazie al sole canario – da quando è la Guardia Civil ad occuparsi di queste situazioni, la montagna brucia e noi qui ad affogare nel vino».

«Bestiale – concordò Drago – tutto in mano a un pugno di forestali che non conoscono la terra, né i sentieri. Non basteranno un paio di elicotteri per spegnere il fuoco» affermò laconico mentre passava il porro. I suoi occhi chiari sembravano grigi come il mare di nubi che segnava l’orizzonte. I capelli biondi ossidati dal sole rendevano inconfondibile il suo sangue teutonico, nonostante il viso abbronzato e indurito dal vento.

Si chiamava così Drago, perché pare fosse stato partorito sull’isola in un bosco di alberi di drago. Il drago era una pianta rara, tipica delle isole, e gli hippies attribuivano ai boschi di drago incredibili capacità mistiche, nonostante si trattasse di raggruppamenti di appena una decina di esemplari.

Fu lì che Drago nacque una notte dell’estate 1982, durante un festino a base di LSD. La comunità hippies che da qualche tempo si era stabilita nell’isola aveva appena cominciato a contribuire alle statistiche demografiche locali con una nuova generazione di isolani dagli occhi insolitamente azzurri.

Ora ai tavolini del bar vecchia e nuova generazione si confrontavano ed era uno spettacolo a vedersi. La vecchia generazione contava fra le sue fila numerosi esuli dal grigio di qualche metropoli a nord del Danubio. La maggior parte dei locali, isolani dalla pelle caramello e dalla cassa toracica insolitamente ampia, erano emigrati all’estero, o nella penisola iberica, dove avevano cercato di svolgere un mestiere vero, o perlomeno ben pagato. Chi era rimasto erano i contadini, i pescatori, e qualche altro caballero che, stanco di emigrare in città caotiche e puzzolenti era rientrato alla quiete di La Palma. Così, la generazione degli adulti di El Remo era una strana accozzaglia di artisti, mistici, artigiani, contadini, pescatori e a volte tutto questo insieme nella stessa persona. I figli degli hippies erano cresciuti insieme ai locali e parlavano con un accento canario degno del più vecchio pescatore della isla. Il fatto che fossero tutti fratellastri fra loro, ma raramente fratelli, aveva reso l’albero genealogico di El Remo particolarmente interessante.

«Claro – sentenziò Leo  se il fuoco arriva alla Caldera saremo nei guai, domani la massima è di 45 gradi e non so se è il vento o questo senso di impotenza, ma a me sembra di impazzire». Drago lo guardò e dopo aver mandato giù l’ultima lapa gli disse: «Il vero rischio di impazzire lo corri nella tua peninsula».

Era cresciuto in una grotta naturale sul fianco del dirupo: due stanze e una cucina, giusto prima dell’abisso. Leo ricordava con amore la casa dell’amico, dove si rifugiava per leggere con lui i nuovi fumetti arrivati dalla città. Fu ascoltando certe storielle che Drago inventava quando fumava la marjuana sottratta al padre, che Leo disegnò il suo primo fumetto. Le avventure di Drago per procurarsi l’erba ebbero un discreto successo fra i banchi di scuola. L’amore per il disegno lo aveva portato lontano da El Remo mentre Drago dopo aver tentato di studiare scultura a Barcellona alla fine era tornato, scoprendo un amore inaspettato per i campi e dimostrando un certo talento per la coltivazione.

Ma quella estate erano lì, fuori dal bar di El Remo, e decisero che l’indomani sarebbero scesi in spiaggia, insieme come ai vecchi tempi, solo che ora avevano la jeep e non dovevano più fare due chilometri di cammino ripido, cercando di non sbucciarsi le ginocchia mentre salivano fra gli alberi di mandorlo e i fichi d’india. Svelti come capre, scendevano dalle rocce aguzze e saltavano burroni come nulla fosse, movimenti che il corpo non aveva mai dimenticato, nemmeno quello di Leo, che tanto a lungo era stato altrove.

Al mare una larga chiazza nera galleggiava sull’acqua. La sabbia e le rocce, anch’esse nere, venivano ricoperte dalla cenere che placidamente veniva restituita dal mare. Si spogliarono nudi, come d’abitudine, e si tuffarono fra le onde dell’oceano e la cenere. Leo pensava all’altro lato della montagna che bruciava, mentre loro erano lì a rinfrescarsi.

Quando tornarono alle loro borse, sul telefono c’era un messaggio con una notizia. Pare che a provocare l’incendio fosse stato un hippy tedesco che abitava sull’isola da qualche anno. Era uno dei tanti che vivevano nelle grotte della costa nord mangiando quello che la natura offriva, in cerca di armonia con la natura e l’universo. Il tedesco, dopo aver fatto i suoi bisogni nel bosco, aveva dato fuoco a certa carta che aveva usato per pulirsi il culo, ma aveva perso subito il controllo della fiamma che era divampata immediatamente fra gli aghi di pino e le sterpaglie secche.

Drago, rotolandosi nella sabbia vulcanica nera di pietra e brillante di pirite, si dipinse braccia e gambe di nero usando la cenere sparsa sul bagnasciuga. Quel nuovo colore lo faceva sentire sicuro e più forte. Sul viso si fece due strisce nere per guancia, come aveva visto fare al cinema. Gli bastava chiudere gli occhi per diventare un Guanche, uno dei leggendari nativi dell’isola, e nessuno avrebbe potuto dire il contrario. Leo guardò l’amico e pensò a quando avrebbe di nuovo dovuto abbandonarlo per tornare in città. Un groppo gli si strinse in gola. «Tutto questo è ridicolo. E tu lo sai Drago. Non basta un hippy per dare fuoco alla montagna – si gettò sulla schiena per guardare il cielo – lo sanno tutti che gli incendi si spengono in Inverno».

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