Racconti nella Rete®

23° Premio letterario Racconti nella Rete 2023/2024

Premio Racconti nella Rete 2020 “Giulietta unascarpasola” di Monica Gizzi

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2020


Solo io conosco la vera storia di Giulietta unascarpasola, così la chiamai.

La prima volta che la conobbi era un pomeriggio di primavera, quando ancora il sole e’ caldo se ci stai sotto, ma se ti metti all’ombra senti i brividi che corrono lungo la schiena e i peli delle braccia si stirano ritti verso il cielo, puntati in alto in cerca di un calore e una luce scomparsi. Era arrivata in ambulanza con la sirena a tutta birra, si pensava tutti ad un brutto incidente. Quando arrivò distesa sulla barella, sospinta nel lungo corridoio, avevo visto avvicinarsi per prima la sagoma del palmo dei suoi piedi che uscivano scoperti dalla coperta bianca che la avvolgeva tutta intorno.

In verità ne vidi uno pieno, rosa appena, il destro, mentre l’altro, strano a dirsi, aveva una scarpa talmente piccola che, per ospitare il piede intero, dalla punta tagliata e al di sopra della suola faceva fuoriuscire tutte e cinque le dita, nere come petrolio.

Appoggiata com’ero appena all’infisso della porta del mio ambulatorio con le mani dietro la schiena, feci un passo in avanti per chiedere a Luca, il giovane infermiere biondo che la stava trasportando: “ Perché non le avete tolto la scarpa dal piede?”.

“Dottoressa, è proprio questo il problema, come riuscire a toglierle quella scarpaccia di dosso!”- rispose Luca.

“Bisogna intervenire subito, le dita sembrano cianotiche! Chissà da quanto tempo porta quella scarpa.”- dissi io a Luca. L’infermiere mi guardò con gli occhi sbarrati e si strinse nelle spalle aggrottando il labbro superiore. Mi avvicinai alla bambina e le misi una mano sulla fronte per sentirle la temperatura. Aveva una fronte bombata, come se tutto quello che le passasse per la testa si intasava proprio lì davanti e si intensificava nelle linee curve del suo profilo ogni volta che le veniva rivolta una domanda. Dopo aver tolto la mano, sentii una sensazione di caldo umido da rimanermi appiccicata ancora per qualche tempo dopo, come il vapore che forte si sprigiona scoperchiando una pentola che bolle e poi si libera un po’ alla volta. Notai uno strano comportamento nella bambina che continuava a guardarsi il suo piede sinistro e incurvandosi raggiungeva con le mani il collo del piede, sempre e solo quello con la scarpa sola.

“Ti fa tanto male?”- chiesi alla bambina e volli sapere anche il suo nome. Ma non ebbi nessuna risposta. Mi guardava fissa e girando appena la testa distogliendola per un attimo dal suo piede le sentii dire:

“Mmm, mmm” – emetteva solo questi mugolii disarticolati con un filo di voce e tenendo la fronte sempre più inchinata verso le ginocchia.  

Le appoggiai una mano sulla schiena tutta protratta verso le gambe, aveva una maglietta di cotone rosa con una cucitura giusto passante per tutta la spina dorsale. Cercai di avvicinarmi ad una spalla per tentare di farla stendere sulla barella. La bambina però si teneva stretta alle caviglie e non c’era verso di sciogliere quella posizione ad arco. Mi rivolsi ancora all’infermiere:

“Dove sono i suoi genitori? Perché non c’è nessuno con lei?”.

Intanto, ci chiesero con un cenno della mano di farci più in là un dottore con il camice verde e la sua infermiera che, avanzando verso di noi, si preparavano ad entrare di tutta fretta in sala operatoria. Il medico passandomi vicino e arieggiandomi intorno per la massa d’aria che spostava, continuando a camminare mi disse:

“Anche oggi si taglia, eh?”.

Senza accorgermi, in quell’attimo di distrazione, la bambina scivolò giù dalla lettiga e raggiunse di corsa a saltelli le scale che erano poco distanti da noi. Cercai di correrle dietro, urlai a Luca di aiutarmi a fermarla.

Nella foga di scendere presto le scale, senza reggermi alla ringhiera di ferro,  inciampai su uno degli scalini e mi trovai seduta a scivolare con le cosce lungo gli spigoli dei gradini, che, finchè non mi riuscì di fermarmi, mi seghettarono le ossa e massaggiarono la carne. Luca intanto arrivato nel punto in cui mi ero arrestata, si chinò su di me chiedendomi:

“ Dottoressa Paolin, si è fatta male?”.

Andai in cerca della ciabatta che intanto era sgusciata via dal piede e rimettendomela al piede sinistro notai la calza bianca in nylon smagliata e dissi che no, che stavo bene.

“Ferma la bambina” – dissi a Luca. Intanto mi alzai e stirando verso il basso il lembo sgualcito della gonna, provai a fare due passi e, tranne per un certo calore diffuso delle cosce, tutto del mio corpo era integro. Proseguii nello scendere le scale e l’ascensore giusto di fronte a me si apriva mostrandomi una mano di una donna dal caschetto scuro che nell’uscire scostava, senza toccare, la porta scorrevole di destra e girava il collo nervosamente a destra e sinistra come se cercasse qualcuno. Per un attimo i nostri occhi si fermarono gli uni dentro gli altri e così capii che ci stavamo chiedendo chi fossimo l’una per l’altra. Cominciai io per prima:

“Sta cercando qualcuno?”.

La donna dal caschetto moro mi rispose in modo distaccato:

”Sì, proprio quella birbante. Ah, ma mi sentirà questa volta!”.

“Lei è la mamma?” – le domandai un po’ titubante sperando di aver trovato la persona giusta.

“Ah ma allora è venuta qui?” mi rispose la signora infervorata.

“Ma lei è, o non è, la mamma della bambina con una scarpa sola?”- le chiesi io in tutta franchezza.

“Io la mamma di quella?”- rispose con una punta di offesa aggiustandosi sul fianco la cinghia della borsa a tracolla che le cingeva la spalla; poi a più riprese si sistemava nervosamente il colletto della camicia bianca che veniva anch’esso sollecitato dal movimento del suo braccio.

“La bambina è scappata poco fa”- le dissi.

“Come scappata?”-  continuò la signora indispettita.

“La prego di venire nel mio ufficio”. – dissi io facendole cenno di seguirmi, dopo aver visto che iniziava a formarsi un gruppetto di gente in attesa di prendere l’ascensore.

Incrociai intanto Luca che da lontano con le spalle alzate allargava le braccia portandosele poi ripiegate davanti al petto con le mani aperte come per chiedere l’elemosina: capii che la bambina non si trovava. Entrando in ufficio, feci accomodare la signora sulla sedia bianca dalle gambe di acciaio e le chiesi di raccontarmi come fosse arrivata la bambina in ospedale. Richiusi leggermente verso l’interno le tendine a veneziana che facevano filtrare i raggi del sole proprio sul viso della signora che, infastidendosene, si portava una mano sulla fronte per coprirsi gli occhi. 

Venni a sapere che la bambina stava per essere adottata e, ogni volta che accadeva, la piccola scappava dall’istituto dove viveva calzando la scarpetta con cui era stata ritrovata abbandonata qualche anno prima davanti al parcheggio di un ospedale e non c’era verso di fargliela togliere. E crescendo la scarpa era diventata piccola e così ne aveva tagliato la punta per farne uscire le dita che diventavano nere a forza di camminarci, sopra la terra nuda.

“Ma allora non si toglie mai la scarpa da quando sa che sarà adottata?”- chiedo incuriosita.

“No, non se la vuole togliere perché altrimenti pensa che non ritroverà mai la vera madre”. – mi rispose la signora e continuò:

“Ma io passo i guai se non si ritrova la bambina”. E mentre diceva queste parole si portava la mano al petto indicando se stessa come persona responsabile dell’accaduto e notai quanti calli avesse sparsi sulle dita e forse toccandosi il cuore, è proprio lì che li aveva trasferiti quegli indurimenti e ora ne strozzavano anche la voce. Squillò il mio telefono mentre un fastidio crescente prendeva piede in qualche segreta stanza di me o del mio corpo; era Luca che mi annunciava di aver trovato la bambina e di raggiungerlo nell’infermeria del pronto soccorso. Qualcosa di incomprensibile stava avvenendo dentro di me, non so più chi fosse a parlare, se era la mia bambina interiore che tornava fuori a chiedermi di ascoltarla o fosse il mio giudice che chiedeva una sospensione di giudizio prima di emettere una qualunque parola di fronte a quella donna nodosa di modi e acerba di contenuti. Mi riuscì di dirle solo:

“ Signora, mi lasci il suo numero di telefono, mi farò sentire io al più presto. Ora devo andare, ho un’emergenza!”. E così stringendole la mano come se fosse staccata dal braccio, una foglia secca caduta da un ramo, mi avviai verso il piano terra del pronto soccorso. Attraversai il lungo corridoio bianco con una striscia di neon che correvano lungo le pareti ai miei fianchi e un’altra fila al di sopra di me, da lontano intravvidi Luca, seduto su una delle sedie della saletta di attesa, che allungando un po’ il collo mi indicava di guardare in basso proprio nella direzione verso cui il suo mento puntava. E così vidi delle zampettate nere di dita sulle piastrelle chiare dell’ambulatorio che portavano dritte ad una lettiga coperta da una lunga coperta bianca. Stavo quasi per sollevare la coperta quando mi sentii chiamare dal direttore sanitario che mi diceva:

“Si ricordi dottoressa, tagliare, bisogna tagliare, questo ci chiedono”. Alzai lo sguardo al faccione gonfio del direttore e lasciando cadere il lembo della coperta, mi  portai le mani alle tasche del mio camice: frugavo nervosamente tra le pieghe delle cuciture sporgenti interne, il posto dove credevo di aver nascosto qualcosa da chissà quanto tempo e tastavo in attesa di attorcigliarlo nuovamente tra le dita.  Gli risposi appena:

“Sì, ora lo pulisco io il pavimento”.


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2 commenti »

  1. Bello bello bello mi piace veramente il tuo modo di scrivere i dialoghi, l’aspettativa del finale, tutto.

  2. Alessandra, grazie grazie

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