Racconti nella Rete®

23° Premio letterario Racconti nella Rete 2023/2024

Premio Racconti nella Rete 2020 “Lacrime di fuoriclasse” di Daniele Bartocci

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2020

Lacrime di campioni Made in Marche. Lacrime di fuoriclasse. Lacrime, lacrime, lacrime. Fuoriclasse dentro e fuori dal campo. Fuoriclasse incredibili. Fuoriclasse che si tramutano in top-player. Top-player che si trasformano in ricordi indelebili. Ricordi che sfociano in lacrime profonde. Ebbene sì, lacrime firmate, lacrime preziose, lacrime di fuoriclasse. Numerose perle di saggezza, retroscena, flashback e segreti di un campione chiamato Roberto Mancini, raccontati nella sua Jesi, nella sua terra, davanti al suo popolo che lo ho sempre amato fino in fondo.

Una miriade di ricordi che si intrecciano e si accavallano, fino a formare un fantastico canovaccio narrativo tanto caro al “Quartiere Prato”. Lacrime, tante lacrime.

Nel maggio 2012 Roberto Mancini fece visita al campo sportivo “Boario” nel quale alcuni giovanissimi della scuola calcio della Junior Jesina a lui intitolata gli rivolsero alcune domande. “Studiate, divertitevi, allenatevi seriamente e credeteci fino in fondo – furono questi i consigli dell’attuale allenatore della nazionale azzurra ai giovani che ambiscono un giorno a palcoscenici di primo livello – Socializzate con i compagni, ascoltate e rispettate gli allenatori e i genitori in quanto l’educazione rappresenta una componente molto rilevante nel calcio di oggi. Insomma, non dovete mollare mai! Ricordatevi comunque di restare sempre con i piedi per terra in quanto arrivare ad alti livelli è una cosa particolarmente difficile”.

Il noto mister della Scuola Calcio della Junior Jesina, Alfredo Zepponi, ovvero colui che “addestrò” Mancini da bambino, in quel periodo lo descrisse così: “Roberto Mancini era sempre il primo a presentarsi alle sessioni di allenamento durante la settimana, era sempre il primo a iniziare la corsetta all’interno del rettangolo di gioco, era sempre il primo a fare gol, sia in settimana sia nel week-end. Il nostro Roberto si mostrò sin dai primi anni dell’attività calcistica un leader indiscusso dentro e fuori dal campo, un capitano formidabile e un allenatore aggiunto sul terreno di gioco”. Come per dire, campioni si nasce, non si diventa!

Un grazie particolare a mister Alfredo Zepponi – non lo nasconde l’allora tecnico del Manchester City – Credo di ricordarmi bene, ero anche il primo a dare il primo morso al panino. Prosciutto e mortadella erano le mie specialità. Tutto questo per dire: credete in voi stessi e in quello che fate. Un giorno potrete diventare grandi”.

Anche nel 2010, ospite del Club Panathlon presso l’Hotel Federico II di Jesi, Roberto Mancini disse la sua riguardo ai giovani calciatori: “Nel calcio di oggi, a ragazzini italiani interessanti vengono preferiti giocatori stranieri, spesso di fama, sulla carta maggiormente affidabili; questo perché la cosa più importante, nel mondo calcistico odierno, è vincere sempre. Gli allenatori tendono ad andare sull’usato sicuro, togliendo tanto spazio ai giovani. E’ però opportuno aggiungere che questi ragazzini non hanno la stessa voglia e la stessa fame che si avevano alcuni decenni fa; in passato allenarsi anche una sola volta con la prima squadra era meraviglioso e si rimaneva con i piedi per terra, oggi invece si pensa di essere arrivati al top dopo un semplice allenamento. Ciò crea effetti tutt’altro che positivi sul calcio italiano e sul suo futuro”.

Lo jesino, bombardato dalle domande dei presenti, aveva anche cercato di spiegare le difficoltà evidenti del calcio italiano a differenza del pallone britannico. Mancini evidenziò il fatto che in Italia si dà troppo peso ad ogni singolo episodio e situazione, anche arbitrali e a quelli più banali; ciò spesso crea attrito tra società, giocatori, staff tecnico e federale (il VAR oggi risolve questo problema?). Al contrario, in Inghilterra ad esempio c’è meno pressione da parte della stampa e della televisione e i giocatori vivono la partita come un divertimento, quasi da dilettanti, senza drammi né troppe polemiche.

Il “Mancio” del quartiere Prato, sempre in occasione della cena del Panathlon 2010, concluse con una battuta e un apprezzamento per la nostra città: “In questo periodo sto a Jesi molto spesso, mentre nel passato venivo solamente un paio di volte all’anno. Qui si vive sempre bene, c’è un clima tranquillo e me ne sto volentieri comodo a casa dove posso gustare i cappelletti di mia madre”.

Roberto Mancini tuttora ama la propria città e anche prima che divenisse allenatore dell’Inter si vedeva spesso nella città di Federico II, specialmente in piazza. Magari pedalando una bici con le sue gambe e il suo stile da fenomeno.

Un altro fenomeno Made in Marche fa gettare grosse lacrime nella terra jesina di Federico II. Era, è e sarà sempre il Re Mida del volley. Un mito senza tempo, un fenomeno senza paragoni, un personaggio super con la ‘jesinità’ nel sangue. Una figura prestata anche ai campi da calcio, con esperienze in qualità di dirigente nella Lazio di Sergio Cragnotti e nell’Inter di Massimo Moratti.
Ha allenato uomini e donne, ha parlato e parla come motivatore e relatore nelle più importanti conferenze mondiali. Ha vinto Olimpiadi, Mondiali, World League, Europei, Campionati.
Ha sconvolto la mentalità di gioco italiana e il concetto di leadership.

Julio Velasco è la pallavolo. E non poteva che essere altrimenti, essendo nato il 9 febbraio 1952, lo stesso giorno del volleyball.

Julio Velasco, allenatore della Tre Valli Jesi nelle stagioni ‘83-84 e ‘84-85, sarà per sempre lo Special One della “generazione di fenomeni”.
Ad un anno dal suo ritorno al Modena Volley, Julio Velasco ha lasciato il club nel maggio 2019. La decisione, arrivata come un fulmine a ciel sereno nella tarda serata di giovedì, è pesantissima per l’intero panorama della pallavolo: dopo aver portato in cima al mondo lo storico club Panini alla fine degli anni ’80, il tecnico argentino ha deciso di chiudere la sua carriera da coach. Un’annata conclusasi con la semifinale persa per 3-2 contro Perugia e con una Supercoppa Italiana vinta ad ottobre al tie break contro l’Itas Trentino.
Il suo addio al volley arriva poi nell’anno in cui, a Jesi, il Volley Club (la storica Tre Valli allenata dallo stesso Velasco) vince il campionato e sale in serie C, scrivendo un’altra importante pagina di storia.

Lo vorrei salutare con un racconto esclusivo, creato sulla base di documentazioni inedite di carattere storico a mia disposizione. Ricordi che partono da Jesi, dal lontano 1983, dalla terra che lo ha sempre amato fino in fondo facendolo diventare un autentico fenomeno in ambito sportivo e non solo. Erano gli anni ’80, il periodo d’oro del Latte Tre Valli Jesi Volley, quando uno sconosciuto Julio Velasco, allora trentunenne, lasciò la terra argentina e sbarcò nelle Marche in qualità di capo-allenatore di Jesi. Proprio la città di Federico II farà le fortune del grande Julio. Lo sconosciuto Julio negli anni ‘80 dovette fuggire dall’Argentina dove la sua vita probabilmente sarebbe durata poco: infatti, un mucchio di problemi e di caccie all’uomo lo avrebbero probabilmente messo k.o. oltreoceano. Sbarcò per la prima volta in Italia insieme alla sua famiglia, esattamente nella terra del Verdicchio, città per lui sconosciuta ma da cui spiccò il volo in soli due anni grazie all’ausilio prestigioso di Giuseppe Cormio. Con Velasco, nel roster dell’allora Tre Valli Jesi, due connazionali fortissimi ovvero il palleggiatore argentino classe 1960 Waldo Kantor e lo schiacciatore argentino classe 1957 Carlos Wagenpfeil, per gli amici “Carlito”. A fargli da cicerone, nella piazza del Verdicchio, un certo Alberto Santoni, a quei tempi volto noto volley del territorio marchigiano, ovvero secondo allenatore della Tre Valli e con alle spalle esperienze in serie B da giocatore e storiche promozioni in qualità di coach.

Nel lontano 1983 Santoni si recava spesso a casa di Velasco, a Pianello Vallesina (An): insieme iniziarono  a battere a macchina degli appunti sulla mentalità e le metodologie  di allenamento del volley, testi ingialliti che l’allora vice-allenatore jesino tiene ancora oggi gelosamente con sé. In quella stagione (’83-84), la prima e la penultima a Jesi (Velasco lascerà la terra jesina nel 1985 per andare a Modena dove conoscerà grandi campioni), Julio frequentava spesso il centro storico di Jesi. “In una delle prime chiacchierate che facemmo, dissi subito a Julio che sarebbe rimasto molto poco a Jesi. Aveva una mentalità diversa dall’uomo comune – mi racconta Santoni – Tutti noi in società avevamo un lavoro, chi in banca, chi imprenditore, chi artigiano: lui invece viveva di pane e volley. Amava la cucina italiana ed era solito fare delle belle cene, anche a casa mia con i miei genitori. La mattina seguente si tramutava in un allenatore speciale, in quello che  oggi considero il José Mourinho del Volley ossia il numero uno al mondo”. Una testimonianza che Jesi sapeva, sa e saprà lanciare tanti campioni nel mondo dello sport. Julio Velasco: un nome una garanzia.

Sin dai primi anni della sua carriera, prof. Julio Velasco ha enfatizzato il ruolo vitale dell’atletica quale sport di rendimento fisico individuale.
L’atletica, infatti, ha attribuito al volley una specifica rigorosità nella preparazione fisica nonché nella programmazione degli allenamenti.
Per citare particolari aneddoti delle prime settimane di lavoro a Jesi, nell’anno 1983 coach Velasco metteva a dura prova i ragazzi in settimana valutando passi simili a quelli musicali di tango argentino, tracciando il profilo del singolo atleta sulla base di determinati parametri fisici e atletici. Modelli di valutazione che secondo il buon Julio potevano in altere parole essere intesi come valori assoluti di riferimento per l’incremento della performance sportiva e sociale».
In tempi molto brevi, prof. Julio Velasco aveva indubbiamente stravolto i metodi di allenamento, orientandoli verso una nuova vision internazionale della pallavolo, aprendo simultaneamente nuove porte e nuovi orizzonti quali la rilevazione statistica di tipo sportivo e lo scouting.
Valutando i documenti d’epoca a nostra disposizione, si evince che l’allenatore argentino aveva iniziato ad impostare una tipologia di lavoro del tutto inedita e rivoluzionaria, basata sul rispetto delle regole e soprattutto sulla forte credenza e impatto di canoni sudamericani incentrati sui fattori determinanti della motivazione, spettacolarità, velocità mentale e tecnica e soprattutto della crescita dei giovani del vivaio.

Di certo la conoscenza analitica dei “più” e dei “meno” di un team di lavoro ha rappresentato da sempre uno dei più prolifici criteri di best-practice strategica.

Altro punto cruciale del modello è che nella distribuzione si deve tener conto delle caratteristiche psicologiche degli schiacciatori, in merito alla loro necessità di essere serviti più o meno frequentemente o in particolari momenti della partita.
Nei primi mesi di allenamento di Julio Velasco a Jesi, capitava che durante semplici esercizi di schiacciata e palleggio alcune sue pedine peccavano di leggerezza, nel senso che col passare del tempo tendevano a non eseguirli più in maniera corretta, con il necessario livello di aggressività agonistica richiesto dal coach.
In quelle circostanze l’allenatore argentino esprimeva tutto il suo mal consenso facendo leva sui fattori del carattere e orgoglio, per ribadire come la ricerca ottimale della qualità era incompatibile con l’approssimazione graduale della tecnica.
In altre parole, lo sviluppo tattico viene definito subordinato al concetto di precisione e a tal punto l’analisi statistica, a detta di Velasco, giocava un ruolo essenziale per la crescita del singolo profilo.

Al tempo stesso, occorre riportare un discorso storico di Julio Velasco, ritenuto oggi estremamente importante specie riguardo agli alzatori giovani.
Esso stabilisce che il palleggiatore non debba parlare o dare un’opinione soggettiva sulla ricezione della sua squadra, bensì risolvere in maniera corretta la situazione che si viene a creare.
E’ certo che una buona ricezione permette all’alzatore di variare il gioco, ma è pur vero che un grande alzatore fa a volte diventare eccellente una ricezione buona e buona una ricezione mediocre
Nei primi anni ’80 prof. Julio Velasco sottolineava ripetutamente che l’alzatore non deve recriminare con i propri schiacciatori quando sbagliano un colpo, nella maniera più assoluta.
Deve invece dare loro fiducia sia moralmente sia ridando loro la palla subito.
Inoltre deve essere in grado sia di sfruttare al massimo i pregi e le peculiarità dei suoi attaccanti.
L’alzatore stesso deve essere un grande pensatore e un esperto formidabile delle traiettorie della palla.
Uno dei suoi compiti fondamentali è quello di distruggere la motricità del muro avversario nelle sue tre componenti o almeno in una (la percezione della giocata, lo spostamento e il salto e la posizione delle mani sopra la rete), facendo mentalmente e costantemente una statistica di quante volte e in quali condizioni sia riuscito a portare i suoi schiacciatori con il muro ad uno.
La progressione del lavoro con un alzatore, dal momento in cui è giovane fino a quando diventerà un alzatore di buon livello, prevede cinque diversi step:
· Tecnica
· Precisione
· Scelta corretta di una delle tre alternative per ogni schema, giocando con pochi schemi molto allenati

Quando si parla di schemi e combinazioni prof. Julio Velasco fa riferimento a combinazioni di tempi che includono ovviamente spazi diversi.
Ciò richiede necessariamente un determinato grado di capacità attentiva, morale, intellettuale e mnemonica.

· Sulla base di una più grande varietà di schemi deve saper scegliere quale giocata utilizzare tatticamente bene
· Comando strategico e puntuale della partita
· Il momento giusto per sviluppare le finte del palleggiatore dipenderà molto dalle caratteristiche individuali

Idee chiarissime negli anni ’80 per Velasco: nella scelta degli esercizi occorre tener presente che l’esercizio che non si riesce a fare può avere tre motivazioni: è troppo difficile; il ragazzo non ha le capacità per farlo; è sbagliato. Un genio incredibile. Per quanto riguarda gli esercizi, l’importante a suo avviso è la continuità e fondamentale è il ritmo. Da un suo appunto esclusivo a mia disposizione per una conferenza del 10 marzo 1985, invece, si legge che il fondamentale palleggio deve essere eseguito con le mani sopra la testa in modo tale da non rendere prevedibile la direzione dell’alzata in avanti o indietro. Come dire, ricordi indelebili che fanno piangere ancora oggi una quantità industriale di amici, conoscenti e appassionati che hanno avuto modo di conoscerlo negli anni ’80 da sconosciuto, ancor prima della sua vacanza ad Ortisei in compagnia dell’indimenticabile patron Casoni,  allora Presidente del club allenato da Velasco. Lacrime di campioni. Lacrime di fuoriclasse Made in Marche. A buon intenditor poche parole.

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