Racconti nella Rete®

23° Premio letterario Racconti nella Rete 2023/2024

Premio Racconti nella Rete 2019 “Shock Economy” di Andrea Perina

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2019

Solo una crisi, reale o percepita, produce vero cambiamento. Quando quella crisi si manifesta, le azioni intraprese dipendono dalle idee che sono in circolo. Questa, io credo, è la nostra funzione basilare: sviluppare alternative a politiche esistenti, tenerle in vita e a disposizione finché il politicamente impossibile diventa politicamente inevitabile.

Milton Friedman, 1982.

Il primo ad accorgersi che stava succedendo qualcosa di strano non fu, come sempre, Pinìn; fu invece quel Gianni, o Giovanni, anzi no: Jimmi si faceva chiamare, e a Pinìn già stava antipatico, con quel nome “mericano”, che si sommava a tutti quei tatuaggi etnici e para-religiosi che il vecchio camallo trovava insopportabili alla vista. Eppure, quando Jimmi gli fece notare che quell’enorme portacontainer della Novosibirsk era la quarta che attraccava in porto (invece delle tre in un’ora, come da contratto sottoscritto pochi mesi prima), Pinìn dovette ammettere che aveva proprio ragione, e promise a lui e a tutti i compagni di lavoro che sarebbe andato subito a chiedere spiegazioni alla Capitaneria.

  • E’ una situazione di emergenza, Pinìn; vi avremmo avvertiti noi, a tempo debito – gli disse il capitano Valeri – in realtà siamo stati presi alla sprovvista anche noi.
  • Ah, perfetto – rispose il vecchio camallo, con tono seccato – però il lavoro ce lo dovremo sorbire noi, e senza programmazione. E a cosa è dovuta questa emergenza?
  • Ma voi del sindacato non sapete proprio nulla di quello che succede nel mondo? – Valeri sembrava stupito da tanta ignoranza – Ungheria e Cecoslovacchia hanno deportato alle loro frontiere i migranti che in un primo momento avevano accolto, e la NATO ha dichiarato lo stato di allarme.
  • Ah, e noi che c’entriamo?
  • A Washington hanno deciso che serve una risposta dura, e hanno mobilitato l’esercito; però, siccome il Pentagono ha esternalizzato il servizio di trasporto, è la Novosibirsk che si occupa del trasferimento dei mezzi, autoveicoli e carri armati. E Genova è il porto più vicino, dopo che la Germania ha chiuso quelli greci.

Pinìn tornò dai colleghi con la brutta notizia, ma con la promessa che ci sarebbe stata una pausa ragionevole tra lo scarico di una nave e un’altra.

Non poteva sapere che quella promessa sarebbe stata disattesa quasi subito: infatti, appena dieci minuti dopo lo scarico della Sverige giunse l’ordine di procedere con l’ultima delle arrivate, la Nantucket. Alla notizia, ci fu un subbuglio e tutti gli uomini si rivolsero a Pinìn: – Ora vado da Valeri – promise.

  • Mi dispiace, ma ho le mani legate – gli rispose l’ufficiale – adesso la cosa è nelle mani dell’esercito americano.
  • Cosa? – Pinìn era allibito – ma è legale? Io sono ignorante, però so che siamo ancora uno stato sovrano.
  • Ehm, a quanto pare no, in situazioni eccezionali come questa entra in vigore la direttiva UE n. 15999 che dà alle Forze Armate NATO e USA tutti i poteri, per quanto riguarda trasporti e logistica. Sono veramente desolato, Pinìn – così disse Valeri, lasciando il posto di comando.
  • E adesso dove va?
  • Il mio posto per questa operazione verrà preso dal colonnello Dogherty, dell’esercito statunitense. Ci vediamo, Pinìn.

Il camallo tornò dai suoi compagni terreo: per la prima volta in vita sua, si vergognava del suo ruolo di semplice portavoce senza alcun modo di intervenire sugli eventi, che passavano sopra di lui.

Spiegò la situazione, e contrariamente a quanto si immaginava, la reazione generale fu una sola: Sciopero! Uno dei più agitati era proprio Jimmi, e Pinìn lo apprezzò molto. Organizzarono un cordone per impedire l’accesso al molo, mentre gli addetti alle gru scarica-container scendevano dalle postazioni. Pinìn e gli altri sindacalisti di base organizzarono un’assemblea, nella quale ribadirono l’astensione dal lavoro in attesa di parlare col nuovo direttore del porto, che sarebbe arrivato qualche ora dopo.

Pinìn si rinfrancò di quella risposta dei lavoratori: spontanea, forte e decisa. Si sentiva ringiovanito di almeno vent’anni, da quando cioè i movimenti di sinistra non erano ancora evaporati al sole abbagliante della globalizzazione ed indire uno sciopero selvaggio non era visto come un disagio incomprensibile da parte di irresponsabili nemici dello stato.

Grande fu la sorpresa quando arrivò il comandante Dogherty: Pinìn e gli altri si aspettavano un’auto militare, invece arrivò un reggimento di marines armati e piuttosto bellicosi. Sicuramente erano stati avvertiti dei disordini al porto, e si erano preparati di conseguenza.

Dogherty convocò una rappresentanza dei lavoratori, e disse: – Riprendete il lavoro subito, oppure le conseguenze saranno molto gravi.

  • Siamo stremati da 12 ore di lavoro ininterrotto, abbiamo indetto lo sciopero per il diritto di fare una pausa ragionevole – propose Pinìn.
  • Mi dispiace, ma siamo in mobilitazione e in questa fase tutti i lavoratori di trasporti e logistica sono sottoposti alla legge militare: ciò significa che disobbedire agli ordini è un reato, e nei casi più gravi si arriva alla detenzione o alla pena capitale.

La delegazione tornò dagli altri; alcuni (non Pinìn, che non era molto impressionabile) parevano scossi dalle parole dell’americano. A maggioranza, col voto contrario di Pinìn e di pochi altri, decisero di sospendere lo sciopero e ripresero a scaricare.

Dopo un’ora, accadde l’inevitabile: Tommaso, uno dei più giovani (era coetaneo di Jimmi) fissò male un cavo, che si ruppe mentre la gru sollevava un container da 40 tonnellate, che cadde di schianto e si aprì. Uno scatolone di munizioni di grosso calibro investì il ragazzo, uccidendolo sul colpo. Sconvolti, i suoi compagni iniziarono a urlare per attirare l’attenzione, ma i soldati di guardia non lo degnarono di uno sguardo. Allora Pinìn, Jimmi e gli altri incrociarono le braccia e si rifiutarono di continuare, ponendosi intorno al cadavere del ragazzo.

Chiamato dai suoi, Dogherty arrivò per parlare con Pinìn: – Mi sembrava di essere stato chiaro: le interruzioni del lavoro non sono tollerabili!

  • Neanche di fronte alla morte di un ragazzo? Non siamo mica in guerra, colonnello! – Pinìn quasi urlò in faccia al militare.
  • Lei si sbaglia: noi SIAMO in guerra, e voi ne pagherete le conseguenze. Allora, rifiutate di tornare al lavoro?

Pinìn guardò i suoi compagni, e rispose deciso: – Sì, ci rifiutiamo.

  • Molto bene, come volete. Soldati, formate un plotone. Sergente Jones, arresti questi tre – e indicò Pinìn, Jimmi e Giobatta, un vecchio sindacalista come Pinìn.

I lavoratori cercarono di frapporsi ai soldati, ma fu tutto inutile: i tre furono isolati dal gruppo e spinti contro un muro, mentre veniva formato un plotone di dieci marines.

  • In base alla direttiva UE e in qualità di vostro comandante, poiché vi siete resi colpevoli di insubordinazione e sabotaggio in stato di mobilitazione delle Forze Armate congiunte USA e NATO, con i poteri concessimi vi condanno alla pena di morte tramite fucilazione. La sentenza è immediatamente eseguibile – le parole di Dogherty furono accolte da un silenzio glaciale. I tre condannati, pallidissimi, si guardarono l’un altro; a un certo punto, dapprima a bassa voce e poi con tono sempre più alto, Jimmi iniziò a cantare: – Compagni, avanti! Il gran Partito noi siamo dei lavorator. Rosso un fiore in noi è fiorito e una fede ci è nata in cuor. Noi non siamo più nell’officina, entro terra, nei campi, al mar, la plebe sempre all’opra china senza ideale in cui sperar…

Pinìn riconobbe subito quella canzone che non cantava più da…non si ricordava nemmeno più da quanto tempo. Sì, Jimmi era proprio un brau fieul, nonostante quegli orribili tatuaggi. Le voci di Pinìn, di Giobatta e di tutti gli altri compagni si unirono a quella di Jimmi. Il plotone ebbe la delicatezza di far loro terminare le ultime strofe.

Il colloquio con Dogherty era stato fruttuoso; il premier Leonardi sorrise: dopo quella “lezione”, anche i sindacati di base, dopo la triplice, erano stati normalizzati ed ora non aveva più nulla da temere. Certo, la notizia della fucilazione era stata accolta dai media con molto risalto, ma Leonardi sapeva bene che, passato il primo momento, con calma e a mente fredda tutti sarebbero stati d’accordo nello stabilire regole certe per i settori “sensibili” al buon funzionamento della società, in linea con quanto richiedevano da tempo le maggiori compagnie che volevano operare in pianta stabile nel Paese.

La Novosibirsk, della quale Leonardi e alcuni maggiorenti del suo partito (e anche degli altri, per la verità) detenevano un buon pacchetto azionario tramite società di comodo (perché non si sa mai), aveva il vento in poppa, pronta a veleggiare verso le prossime guerre.

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2 commenti »

  1. Bello, ironico e attuale il tuo racconto. Mi piace sottolineare l’amara riflessione “quando cioè i movimenti di sinistra non erano ancora evaporati al sole abbagliante della globalizzazione”.
    Azzeccato anche il titolo preso in prestito dalla teoria della “Shock economy” di Naomi Klein, per cui i poteri forti e arroganti creano eventi eccezionali per potere imporre dall’alto scelte economiche impopolari miranti solo al profitto sporco. Bravo Andrea!

  2. Caro Gaetano, ti ringrazio per l’apprezzamento. Proprio ieri ho visto un film (No – i giorni dell’arcobaleno) sul referendum che si svolse in Cile nel 1988, indetto da Pinochet per rinforzare il suo potere. Era convinto di vincere, invece perse. Per cambiare le cose, molto dipende anche da noi.

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