Racconti nella Rete®

23° Premio letterario Racconti nella Rete 2023/2024

Premio Racconti nella Rete 2018 “Il Bar delle Folies Bergere” di Roberta Silvagni

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2018

La ragazza al banco versava la birra chiara da una bottiglia di Bass Pale Ale66, ora tanto di moda, mescolandola in una brocca di vetro con quell’acqua brillante medicamentosa venuta dall’India, che pare salvaguardi dalla febbre malarica.  Noi, qui, siamo al sicuro dalla malaria, ma i francesi non amano molto il sapore deciso della birra inglese, e preferiscono spegnerlo un poco, renderlo più dolce e frizzante, un po’ più simile allo champagne.

Mi sorrise, la ragazza, tacitamente invitandomi a ordinare qualcosa da bere. Io non mi decidevo. Tenevo tra le mani la coppa di cristallo, ora vuota, da cui avevo sorseggiato un vino leggero e dolciastro. Ero distratto dall’incanto del suo viso, dal sorriso adorabile, due file di perline bianche e regolari, e dalle fossette sulle gote, che la facevano sembrare quasi una bambina.      Mi ricordava la donna ritratta nel manifesto pubblicitario di una pasta per sbiancare i denti e profumare l’alito, l’avevo ammirata proprio quella mattina nella vetrina di uno speziale.

La camerierina era bella, d’una sua bellezza acerba, incongrua in quel locale pieno di donne del bel mondo e giovanette già navigate. Bionda, ma senza averne l’aria, non come le bionde di qui, eteree e delicatissime. Piuttosto come le ragazze delle mie parti, dove anche le bionde hanno la pelle dolcemente ambrata dal sole, le vigorose popolane dell’appennino.

Il locale era pieno di musica, confusa con il brusio delle chiacchiere delle persone in sala. E di luci, scintillanti nel riflesso dello specchio. In quel riflesso io guardavo, senza vederlo, il numero più acclamato della serata: quattro o cinque giovanissime acrobate volteggiavano con leggiadria in mezzo ai lampadari, sopra le teste del pubblico seduto. Era una scusa per osservare, senza che lei se ne avvedesse, quel suo viso da bambina, dando ad intendere che fossi interessato ad altro.  Per fingermi assorto, passavo il dito indice giro giro lungo il bordo del bicchiere.

E allora, arrivò di nuovo l’infelicità. Il sentimento di rimpianto che mi accompagnava fin dal mio arrivo a Parigi, tanti anni prima.

Questa volta, era stato lo sguardo sereno e malinconico della ragazza, insieme al ricordo delle contadinelle del mio paese, primi generosi amori, a ridestare in me una nostalgia dolorosa.

Perfino quella mistura a la page, birra chiara ed acqua brillante, evocava chimere del passato. Poteva essere una novità per i parigini, ma io avevo bevuto litri e litri di un intruglio simile, da quell’oste di Budrio che produceva in casa un’acqua zuccherata dal sapore di limone, resa frizzante non so come. La mischiava a tutto, quell’acqua, al vino, alla birra, a tutto. Un modo elegante di propinare la solita annacquatura.

Nessuno si lamentava, comunque. Quell’ometto permetteva che ci riunissimo ai tavoli della sua osteria, noi giovani libertari, a ricordare le gesta di Pisacane, a ripeterci l’un l’altro le belle frasi di Malatesta.  Non si preoccupava più di tanto che la nostra assiduità attirasse sul suo locale le attenzioni della polizia.

Gli amici della giovinezza, quanta nostalgia! Dieci anni esatti erano trascorsi dalle nostre infervorate discussioni a Bologna, allorquando, per il Congresso, nel marzo del ’72, ci eravamo ritrovati tutti noi, giovani anarchici dell’Italia intera, entusiasti delle idee di Bakunin, a sognare un’altra Comune di Parigi.

Fra tutti, Andrea, l’amico conosciuto alle lezioni del Carducci, bello e biondo come un angelo e infervorato come un diavolo. Accese i cuori di tutti a Bologna, e qualche mese dopo a Rimini.

Mi piaceva quell’anelito di libertà, quel pensiero infuocato che prometteva di perfezionare l’Uomo, di proiettarlo al di là dei limiti imposti dalle diseguaglianze e dalle ingiustizie.  Ma non ero fatto per l’azione, ed anche allora, anche da giovane, ero forse troppo pensoso per gettarmi nella mischia, per donarmi anima e corpo a un ideale.

O forse, chissà, nonostante i miei studi e la mia letteratura, ero ancora fortemente trattenuto al suolo dalle origini contadine dei miei avi, dalla consapevolezza inscalfibile che dopo l’estate arriva sempre l’inverno, che il tempo procede con andamento ciclico, e niente muta mai davvero e per sempre.

In fondo, soltanto da pochi anni mio padre era riuscito ad accumulare un piccolo capitale di terre, e solo a prezzo di grandi sacrifici. Fossi nato dieci anni prima, come il maggiore dei miei fratelli, non avrei certo potuto fare la bella vita dello studente a Bologna.

Così, agli incitamenti di Andrea, che dovevamo essere pronti a tutto, anche a morire, anche a dare la morte, rispondevo recitando ad alta voce i versi di Fedor Tjutcev:

 

Vittime della follia di un’idea!

Avete voi forse sperato

che il vostro sangue misero

accendesse il polo eterno?

Gli bastò brillare, fumando appena

sulla distesa eterna dei ghiacci,

che l’inverno di piombo diede un respiro

e cancellò ogni sua traccia.

 

Chi si ricorderà, tra cento anni, di quel fratello anarchico, macchinista delle ferrovie che sganciò la locomotiva del suo treno, nel folle tentativo di lanciarsi contro un altro treno, pieno di signori?

Siccome mi vantavo di essere un letterato, mi chiesero di scrivere un pamphlet celebrativo sullo sfortunato protagonista di quella vicenda.  Seduto allo scrittoio, ho cercato per notti intere di infervorarmi all’idea dell’atto eroico, riuscendo soltanto ad evocare lo sbigottimento di quell’uomo nell’accorgersi che la locomotiva era stata deviata; solo immagini del suo corpo straziato tra le lamiere, dei suoi orfani affamati.

Fu una fortuna che non riuscissi a scrivere quel libello, anche se il mio nome, Guccini Francesco fu Ferruccio, non entrerà nei libri di storia.  Ed anche se Andrea, per anni, mi ha tolto il saluto.

A causa di quell’opera mancata, fui tenuto fuori dalla cospirazione dell’anno successivo.  Mi risparmiai la galera, e forse il sangue, e regalai a mio padre la soddisfazione di avere un figlio dottore.

Subito dopo, letterato laureato, gli diedi anche l’ultima soddisfazione di tornare con lui nella grande villa in campagna, di vedermi oziare, trattato con tutti i riguardi dai maggiorenti del paese; io, il figlio dottore, mentre i miei fratelli amministravano le terre e le loro mogli mandavano avanti la casa. Oramai a Bologna sarei stato da solo, i vecchi amici in carcere, o scappati in Svizzera, nessuna donna a trattenermi.

Alla morte di mio padre, dopo anni senza una parola, Andrea mi spedì un’affettuosissima lettera di condoglianze. Si trovava a Parigi, scriveva, insieme a una donna meravigliosa che avrebbe voluto farmi conoscere, bella come una dea e intelligente come un uomo.  Parigi, se avessi voluto raggiungerli, sarebbe stata il luogo ideale per trovare consolazione al mio lutto.

Pensai che davvero avevo bisogno di aria nuova, e che sarebbe stato meraviglioso rivedere l’appassionato amico di università, e così preparai il mio viaggio.

Non sono più tornato. Parigi mi ha catturato, in un primo momento attraverso la calda ospitalità di Andrea e della sua Anna; in seguito, anche dopo la loro forzata partenza, con i suoi circoli artistici e letterari, con le dame spregiudicate e la promessa costante di divertimenti sempre più brillanti, di esperienze sempre diverse.

Ora, Andrea è tornato nella sua Imola, a far grandi cose. E’anche un padre felice, sempre innamorato, mi scrive, della sua preziosa Anna.

Invece io, che pure ho ormai superato i trent’anni, vivo ancora senza decidere come. Senza una patria, senza un amore, senza una vera occupazione, cullando in cuor mio il progetto di un grande romanzo, ancora informe, appena abbozzato.

Questo caleidoscopio di pensieri, chimere del passato, durò il tempo di un sospiro.

Le acrobate volteggiavano ancora nel riflesso dello specchio, la ragazza ancora sorrideva, persa anche lei nei propri malinconici pensieri.

Immaginai di prendere la sua mano sopra il banco, di dirle “Senti, io ti vorrei parlare…Non so come cominciare, ma so che questa malinconia la senti anche tu, la tocchi come me. Non lasciamo che trabocchi: vieni, andiamo via”.

L’avrei portata con me sul mio appennino. Avremmo vissuto nella grande casa che era stata di mio padre.

Io avrei passato le serate chino allo scrittoio, scrivendo finalmente il mio romanzo.  Lei sarebbe entrata silenziosamente, ma avrei comunque intuito il fruscio delle sue gonne.  Avrei fatto finta di niente, però, per godermi la gioia di sentirla arrivare da dietro, di sentire le sue mani delicate poggiarsi sulle spalle.

Di là avrebbero risuonato le voci dei bambini, e uno scampanellio festoso avrebbe annunciato cari amici alla porta…

Ma il numero acrobatico era terminato. La musica si era interrotta, sostituita dall’applauso del pubblico, e infine da un silenzio che sembrò innaturale e pesante.

“Io…” avevo cominciato a dire. Ma poi arrivò una coppia di sorpresa.

In un attimo, come accade spesso, cambiò il volto di ogni cosa.

Ordinai una coppa di champagne e la bevvi d’un fiato.

“Quant’è?” chiesi, e la pagai, lasciandole una buona mancia.

Lasciai le Folies-Bergère, incamminandomi lungo rue Richer, nella notte di Parigi.

 

 

 

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Liberamente tratto dalla canzone “Autogrill” di Francesco Guccini.

 

Nell’Ottocento le guarnigioni inglesi ai tropici bevevano un’acqua frizzante con aggiunta di zucchero, limone e chinino, per dissetarsi e come profilassi per la malaria. Da questa consuetudine è nata l’acqua tonica.

 

Contemporaneamente, un oste di Budrio inventava la gazosa.

 

Andrea è Andrea Costa (1851-1910). Dapprima anarchico, divenne socialista grazie a Anna Kulisioff, sua compagna per alcuni anni. Fondatore dell’”Avanti!” nel 1881, fu il primo deputato socialista della storia d’Italia (1882).

 

Anna, ovviamente, è Anna Kuliscioff.

 

Fedor Ivanovic Tjutcev (1803-1873) fu un poeta e diplomatico russo.  Le sue poesie sono state tradotte in Italia da Tommaso Landolfi.

La sua lirica più famosa è “Silentium!”, un amaro invito al silenzio, perché “Pensiero una volta pronunciato è menzogna”.

 

 

 

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2 commenti »

  1. L’idea è interessante e ben realizzata. La narrazione in prima persona del protagonista, morto cent’anni, fa venire meno una buona dose di credibilità. Non me ne volere. P.G.

  2. Non sono d’accordo con Garuccio, è proprio la narrazione in prima persona del protagonista morto cent’anni fa che rende il racconto originale, e non l’ho trovato poco credibile anzi, sei riuscita a trascinarmi in quell’epoca e a farmi sentire sapori e profumi facendomi pensare a un sacco di cose, quindi per me il racconto è ben riuscito.
    Sinceri complimenti, Roberta.

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