Racconti nella Rete®

23° Premio letterario Racconti nella Rete 2023/2024

Premio Racconti nella Rete 2017 “Il dolore di Sarajei” di Teresa Averta

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2017

Si può chiamare amore un qualcosa che spezza vite e infrange sogni?

Londra, 1997.

Era una giornata di autunno. Il sole era nascosto tra le nuvole.

Che tristezza! Tutto appariva così grigio, così cupo.

Il vento spazzava via le foglie, e le chiome degli alberi del vicino teatro culturale, sembravano come imprigionate da un incantesimo che m’impediva di vederne i colori.

Il mio stato d’animo era sereno e gioioso perché, di lì a poco, avrebbe avuto inizio la presentazione del mio Libro nell’auditorio del teatro, in periferia della città.

Puntualmente iniziò la conferenza.

C’era musica di sottofondo mentre parlavo del mio ultimo romanzo “Il dolore di Sarajei” e ne spiegavo la sua straordinaria imperfezione.

Tra il pubblico c’era lei. Una giovane signora minuta, di bell’aspetto, seduta in prima fila, mi fissava come se mi conoscesse o volesse dirmi qualcosa.

Poco dopo, quando tutti si furono allontanati, rimanemmo sole, io e lei.

Mi allungò la copia del mio romanzo e mentre io le firmavo un autografo, tutto di un fiato mi disse: “ ho una storia da raccontare e mi piacerebbe che fosse lei a farlo …”.
L’ho fissata con timore perché i suoi occhi mi stavano già raccontando tutto.

“Di cosa parla questa storia? Perché dovrei raccontarla? ” -le chiesi –

“Sono stata sequestrata e stuprata da mio fratello per sei lunghi anni … ero solo una bambina!”

I volti di centinaia di donne mi sono passati davanti…

C’erano le loro grida, i loro lividi, le loro richieste di aiuto cadute nel vuoto.

Poi c’era lei. Esile e concreta.

Lei e la sua verità.

È arrivata così… come un tuffo da un altissimo scoglio.

La storia di ognuno di noi. Quella da cui dobbiamo difenderci, quella in cui non dobbiamo e non possiamo cadere, quella che non dobbiamo smettere di raccontare.

Poche ore dopo, ero seduta in auto. Molti chilometri mi separavano da casa e l’indomani mattina altrettanti mi avrebbero diviso da lei.

Ho lasciato i miei pensieri e le sue parole lungo tutto quell’asfalto, nel parcheggio, nel cielo buio che sovrastava quella triste notte, lungo le scale e sul pavimento di casa. Lei era ancora con me. Non riuscivo a distaccarmene. Presi il telefono e la chiamai.

“Perché io?” -le domandai – “Sono una scrittrice alle prime armi!”

“Per la sua ostinata educazione …” – mi rispose –

Era lì davanti a me: la più grande paura di ogni donna e di ogni autrice.

Come si racconta la violenza? Come si può entrare nella vita di una vittima quando quella vita è la cosa che ti spaventa di più al mondo? Come si affronta la dignità di chi è umiliato? E la paura?

Bastava dire di no, allontanarmi da lei, confessare di non essere pronta per mettermi in salvo. Sarebbe stato un attimo e lei lo avrebbe compreso. Non ci sono riuscita. Non facevo la scrittrice solo per inventare storie, potevo raccontare qualcosa di vero e profondo un’altra volta. Dovevo almeno provarci ma per farlo avevo ancora bisogno di Sarajei, la donna del racconto.

Così qualche settimana dopo sono tornata là. Ho condiviso il tempo con lei. Un’intera settimana fianco a fianco e ho lasciato che riuscisse a raccontarmi tutto, senza mai farmi sopraffare dal pregiudizio o da qualsiasi dubbio.

Erano passati sedici anni dal giorno in cui, calandosi da una finestra, era riuscita a portarsi in salvo. La guardavo preparare il caffè mentre mi spiegava la sua vita come se fosse la trama di un film, spalancare le finestre dicendomi che da quando era libera, odiava vederle chiuse; la osservavo sorridere per la strada anche a chi non conosceva, perché la libertà per una donna è un concetto molto più importante di quello che ti vogliono far credere.

Prima di ripartire mi mise il suo diario tra le mani.
“Questo l’ho scritto per gli avvocati, prima che l’incubo fosse finito”. Ti servirà per ricostruire i fatti … custodiscilo e gettalo nelle fiamme, quando non ti servirà più. La mia vita è tutta davanti a me ora …

Cominciai a leggere avidamente il suo diario segreto. Le parole del dolore.  Scritte su fogli consunti, raccontavano le violenze subite nel corpo e nell’anima. Di stupri sopportati per anni. Le consonanti e le vocali erano ricalcate tanto rabbiosamente da provocare piccole sbavature d’inchiostro. Testimoniavano il disagio interiore, il sordo rancore, la voglia di ribellarsi di una quindicenne dall’adolescenza rubata. Per un decennio la scrittura è stata l’unico rifugio di questa creatura sfregiata.

“Ho la sensazione di essere tornata bambina” – leggevo- quando dondolavo sull’altalena nel giardino. Non riesco a vedere bene. Mi sembra di sentire il vento sulla faccia. Ha un odore strano. Un odore di violenza e di sangue.

Guardo meglio. E, improvvisamente metto a fuoco. Mi vedo lì. Appesa ai miei sogni infranti. I miei bei capelli neri, lisci, lucidi, sporchi di sudore estraneo e la mia pelle profumata di rosa, indurita dal sangue raggrumato dei lividi.

Così, l’ho scritta … questa storia! Ho versato lacrime e mi sono infuriata così che avrei lanciato il computer dalla finestra. Era la rabbia che solo la violenza di qualsiasi genere sia, ti fa crescere dentro. La rabbia che solo le donne possono comprendere perché anche quelle che non hanno mai portato a casa un livido, sanno esattamente di cosa sto parlando.

Prima che finisse nelle mani del mio editore, sono tornata da Sarajei con una copia del manoscritto.

“Se non te la senti più, la buttiamo nella spazzatura”. Io non faccio un solo passo se tu non sei d’accordo …” Non sarei mai andata avanti senza saperla dalla mia parte”.

Il giorno dopo arrivò la sua telefonata.

“Questa storia può aiutare altre donne, servirà a far luce su qualcosa che le vittime spesso non possono più raccontare”.

La voce di Sarajei tremava nel vivo del suo racconto, si può capire cosa abbia provato in quei momenti, precedenti alla violenza, ma non si può certo immaginare cosa avvenga dopo a livello fisico e mentale in una persona vittima di stupro. 

”Sarajei era da poco uscita dall’infanzia”.

Era una signorinella di circa nove anni e passava le giornate tra le mura domestiche, in una grande casa che la faceva sentire protetta dai pericoli esterni. La sua famiglia non le aveva fatto mancare nulla e lei si preparava a crescere, cullata dai suoi sogni di ragazza e distratta dalle piccole responsabilità che via, via, andava assumendo.

Sarajei non pensava che il pericolo maggiore, per la sua esistenza, si potesse trovare all’interno delle mura domestiche. Il suo fratellastro, molto più grande di lei, iniziò a gettarle occhiate invasive sin da quando era ragazza. Un disagio la coglieva in sua presenza, un modo di fare che tuttavia non sapeva nominare. Davanti a lui si sentiva imbarazzata. La casa, dove la famiglia abitava, era tuttavia abbastanza ampia da evitare di incontrarlo troppo di sovente e lui era spesso fuori. Poi suo fratello si ammalò. Non era chiaro quale fosse la fonte della sua malattia. Rimaneva a letto rifiutando il cibo per lunghi giorni. In una di quelle occasioni il padre le ordinò di prendersi cura di lui. Lo stupro avvenne nella stanza da letto, mentre la ragazzina gli porgeva il cibo. Lui la afferrò, le mise una mano sulla bocca, la tenne ben ferma sotto di sé, sul letto, mentre abusava di lei. Pochi minuti che a lei sembrarono mille anni. Poi, subito dopo lo stupro, lui la scacciò pieno di odio, disgusto, e disprezzo… lei si ritrovò fuori dalla stanza, nel lungo corridoio della casa, insanguinata e sola. Fu un gesto istintivo quello che la portò a strapparsi i vestiti, mentre correva urlando. Lui le ordinò di tacere, di non dare scandalo. Non bisognava rovinare il buon nome della famiglia. Le intimò di non gridare altrimenti l’avrebbe uccisa o sfigurata con il coltello. Piangeva soffocata dai suoi singhiozzi, dalla vergogna. Era sola senza nessuno che potesse aiutarla. Non sapeva come liberarsi da lui, era talmente spaventata che ora capisco perché tante di quelle donne che subiscono un abuso, tengono per sé quel poco di forza rimasta per fuggire e trovarsi una via di fuga. Era terribile, l’aveva in pugno, e la teneva prigioniera.

La paura era diventata spirito di sopravvivenza. Lui continuò a stuprarla per giorni e giorni, e non finiva di saziare il suo appetito sessuale. Povera e sfortunata creatura, era pronta a scattar via, a fuggire da quella maledetta e assurda gabbia disumana… si sentiva come un uccello spaurito pronto a esalare l’ultimo respiro. Il mostro la minacciava dicendo che se avesse sporto denuncia le avrebbe reso la vita impossibile. Sarajei era in completo stato di choc.

Uno choc che le ha impedito per molto tempo di parlarne con chiunque. Trascorreva notti insonni, fra rabbia, paura e vergogna, e chiudeva in se questo raccapricciante evento, fino a quando la migliore amica e vicina di casa si accorse di qualcosa, notando che le sue abitudini e il suo carattere, avevano avuto un drastico mutamento. Come il suo peso.

Da qualche tempo aveva perso anche l’appetito. Sarajei era una ragazza solare, allegra, con la voglia dei suoi anni di divertirsi. Non usciva più, se non per andare a scuola.

Quando finalmente ha deciso di sfogarsi con lei, ha spiegato il motivo del suo silenzio. Era diventata un’altra persona.

La meravigliosa Sarajei non esisteva più. Era come una pianta morta. Iniziò a soffrire di attacchi di panico, e crescendo ad aver paura di qualunque uomo la avvicinasse, tanto che gli amici la prendevano per matta. Aveva deciso di buttarsi tutto alle spalle, ma a quanto pare non era possibile. Gli attacchi di panico ne erano la conferma. Si confidò quindi con la migliore amica.

Era stata lei ad accompagnarla presso l’Associazione della Tutela ai diritti delle donne e dei minori. Grazie all’aiuto delle operatrici e della psicologa è riuscita a venirne fuori.

E superare una violenza sessuale non è una questione da poco. Per ogni donna si tratta di accettare ciò che è accaduto eliminando il senso di colpa che la attanaglia. Pur essendo vittime, le donne, pensano di essersi meritate quella violenza. E, come rivela ancora Sarajei, perdonarsi è stato il compito più difficile.

Nei suoi incontri avvenuti presso l’associazione a difesa delle donne, ha imparato ad avvicinarsi anche al dolore delle altre, in quello ha riconosciuto il suo. Da lì ha iniziato a perdonarsi e a trovare la voglia veramente di guardare avanti, diventando una donna consapevole, forte, che sapeva quello che voleva. E fu lei a sostenere le altre, di lì a poco, attraverso la realtà ”Casa Amica” di cui fu fondatrice e responsabile, in un Centro di Ascolto e Supporto per donne in difficoltà…

“Casa Amica”, oltre che dimora di accoglienza per tutte le donne sfortunate del mondo, divenne un movimento mondiale di tutela dei diritti alle donne, nel quale Sarajei si dimostrò una grande donna di resistenza, di lotta, di rispetto per l’umanità; fu una beniamina della storia, perché difese la dignità della donna fino alla fine. Purtroppo, muore molto giovane, a soli quaranta anni, ma lascia al mondo, alle donne, ai bambini, una grande eredità: il suo cuore, che è divenuto un seme, un seme che rinasce in tutti gli uomini e le donne.

Un seme che rinascerà nelle persone, che seguono il suo percorso di resistenza e lotta per valori preziosi come la vita di una donna. La donna, non figlia di un dio minore, ma figlia di Dio, colei che è madre della vita e la dona al mondo.

Un grido soffocato, una storia che sarebbe rimasta sommersa, imprigionata nell’invisibilità delle mura domestiche se non avesse trovato ospitalità nel racconto di una scrittrice. Spezzare un rapporto di vittima e carnefice non è per nulla semplice, lo sappiamo bene.

E non è certo con un libro, con un documento o un racconto che si può sanare un modo relazionale malato e violento. Con un libro, però, si può educare a un’affettività sana e costruttiva, questo sì.

L’arma più potente per contrastare fenomeni socio-culturali disfunzionali e pericolosi; è proprio l’educazione che bisogna impartire alle nuove generazioni.

Perché ciò che ogni donna può imparare è che la conclusione della propria storia, il finale della propria vita, non deve essere scontato, non è uno solo, non è – soprattutto – già deciso da qualcun altro.

La felicità non consiste necessariamente nel trovare il principe azzurro, ma nel guadagnarsi la propria strada e il proprio posto nel mondo. Se vogliamo combattere quest’ottusa mentalità, questa visione della donna percepita come una proprietà, un destino prestabilito che non può sottrarsi ai propri compiti e alla volontà del compagno, dobbiamo schierarci contro tutti i tipi di stereotipi di genere. Educarci ad accettare la libertà di autodeterminazione che ciascuna persona possiede. È urgente liberarsi dalle proprie gabbie mentali che impediscono alla persona perché tale, di esprimere la vera umanità.

È stato difficile trovare un linguaggio distaccato, equilibrato, ma anche carico d’indignazione per raccontare delle storie di violenza che facilmente potevano farmi cadere nel patetico o nel superficiale. Volevo una storia lucida, molto simile alla realtà, che avesse uno stile tenero, sobrio e delicato senza disturbare, senza farsi troppo sentire. Non so se ci sono riuscita, ma queste sono state le preoccupazioni principali nello scriverle.

Un racconto terribile ma forse utile – è questa la mia speranza – per contribuire a una sensibilizzazione finalizzata al supporto reciproco “affinché tutte le violenze che stanno affogando il nostro pianeta e il genere umano, possano essere debellate dal nostro sistema e il diritto di ogni essere umano a non essere la vittima di nessuno, sia davvero salvaguardato”.

Teresa Averta

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6 commenti »

  1. E ” ostinatamente educata ” la sei stata davvero, fino in fondo. Forse, addirittura troppo.Scrivi bene , indubbiamente…pero’, visto il peso della storia che c’è sotto…confesso che mi è mancato non sentire l’ esplosione di un grido di orrore. Ma, riflettendo, il dolore,vero implode e non esplode. Davvero brava.

  2. Ciao Teresa, la prima parte di questo racconto mi è piaciuta, la storia di una scrittrice che si ritrova tra le mani un episodio reale e brutale da poter romanzare e decide di calarsi dentro quel personaggio per poterlo fare. Ma poi passi a raccontare una storia diversa, quella di Sarajei, che in realtà è, purtroppo, una variante della prima storia, quella della signora minuta e di bell’aspetto che avevi appena raccontato. Per poi concludere con alcune considerazioni che fai come autrice del racconto stesso (se non ho capito male). Il passaggio dal piano narrativo al piano personale mi ha confuso. Ad esempio, mantenendo il registro della prima parte avresti potuto, magari attraverso dialoghi tra la scrittrice e la signora minuta, inserire tutte le considerazioni che volevi, senza spezzare il ritmo del racconto. Ma queste sono personalissime considerazioni…

  3. Grazie di cuore Gloria per il gentile commento!
    Ci sono vari passaggi, nel racconto, di un dolore forte e muto ma che cresce e s’ingigantisce nel cuore di Sarajei…
    […]Fu un gesto istintivo quello che la portò a strapparsi i vestiti, mentre correva urlando.

    […]Piangeva soffocata dai suoi singhiozzi, dalla vergogna. La paura era diventata spirito di sopravvivenza. Trascorreva notti insonni, fra rabbia, paura e vergogna, e chiudeva in se questo raccapricciante evento…

    […]La meravigliosa Sarajei non esisteva più. Era come una pianta morta. Iniziò a soffrire di attacchi di panico, e crescendo ad aver paura di qualunque uomo la avvicinasse, tanto che gli amici la prendevano per matta. Aveva deciso di buttarsi tutto alle spalle, ma a quanto pare non era possibile. (la mente vorrebbe seguire “il buon costume”, nascondere tutto per salvaguardare il buon nome della famiglia e forse (sbagliando)salvaguardare in un certo senso un fratello per lei, che si rivela essere un mostro.

    […]Gli attacchi di panico ne erano la conferma…ne conosciamo le cause

    […]Si confidò quindi con la migliore amica. Era stata lei ad accompagnarla presso l’Associazione della Tutela ai diritti delle donne e dei minori. Grazie all’aiuto delle operatrici e della psicologa è riuscita a venirne fuori…

    Concludi con una bella e perfetta espressione, Gloria, quando dici: “il dolore vero implode e non esplode” era un dolore silente e silenzioso, troppo a lungo nascosto, ormai maturato e per questo ha dato i suoi frutti: il Perdono, l’associazione “Casa Amica”… una vita donata che diventa seme, e che rinascerà nelle persone che seguono e seguiranno il suo percorso di resistenza e lotta per valori preziosi come la vita di una donna.

    Grazie ancora per avermi letto…un abbraccio

  4. Buona sera Roberto e mille grazie per le sue preziose considerazioni…

    In un racconto, in una storia o nella narrazione in genere sono molto importanti i passaggi, cogliere i passaggi e le sfumature…dei contenuti.

    Rileggendo il racconto:

    […]Si può chiamare amore un qualcosa che spezza vite e infrange sogni?

    Londra, 1997.

    Era una giornata di autunno. Il sole era nascosto tra le nuvole.
    Che tristezza! Tutto appariva così grigio, così cupo.
    Il vento spazzava via le foglie, e le chiome degli alberi del vicino teatro culturale, sembravano come imprigionate da un incantesimo che m’impediva di vederne i colori.
    Il mio stato d’animo era sereno e gioioso perché, di lì a poco, avrebbe avuto inizio la presentazione del mio Libro nell’auditorio del teatro, in periferia della città.
    Puntualmente iniziò la conferenza.
    C’era musica di sottofondo mentre parlavo del mio ultimo romanzo “Il dolore di Sarajei” e ne spiegavo la sua straordinaria imperfezione.

    Tra il pubblico c’era lei. È LEI… la chiave di tutto… lei che non è solo lei:cioè Sarajei.Sarajei è: tutte le donne, rappresenta tutta la categoria del genere femminile.

    Quindi lei e Sarajei… sono la stessa persona… la donna violentata, la donna stuprata, l’universo deflorato nell’uno.

    L’introduzione è in realtà proiezione del futuro… della scrittrice che scriverà ancora e non solo per Sarajei ma, per tutte le donne vittime di violenze e di stupri.

    Gentile Roberto, come lei mi insegna: un testo di narrativa è una comunicazione e, in quanto tale, crea aspettative, conferme, tradimenti di attese, passaggio di informazioni tra un autore e un lettore (incluso un lettore modello, ossia quel che si immagina l’autore come proprio lettore.
    L’autore sceglie dunque gli eventi che considera “necessari” e “sufficienti” a mettere in azione la continuità del discorso narrativo e l’evoluzione del racconto, lasciando in sospeso, riprendendo, rimandando al senso comune, saltando, aggiungendo o levando verosimiglianza, parafrasando o dilungandosi secondo una strategia che vuol tenere più o meno legata (e paradossalmente in certe avanguardie anche respingere) l’attenzione del lettore.
    Quindi la narrativa ha gradi diversi di plausibilità, usa dosi diverse di suspense e di sorpresa, sancisce o esplora tipi di assertività variabilissime, con una gamma tra semplicità e sofisticazione assai vasta.

    La ringrazio e sono felice che mi abbia letto…a presto!

  5. Eccomi Teresa. Nessun dubbio sulla strategia dello scrittore che può e deve utilizzare per rendere la storia, il racconto, la comunicazione il più performante possibile rispetto alle proprie aspettative. Purtroppo non avevo inteso quel passaggio temporale che il post qui sopra spiega e che ora rende più chiaro il racconto. Sono d’accordo anche sulla sospensione dell’incredulità e sulla vasta gamma di sfumature che si possono utilizzare per rendere fluida la comunicazione.
    Il semplice fatto che ci si possa confrontare rende questo contest molto intrigante.
    A presto

  6. Il tema della relazione che lo scrittore ha con le sue storie – vere o immaginate che siano – è sempre affascinante. Qui l’attenzione oscilla fra la materia bruta del soggetto, la lettera aperta dello scrittore che di fronte a quel soggetto così impegnativo si trova a dover fare scelte non meramente tecniche e un manifesto dichiarato di denuncia. Firmare un racconto è un gesto raro. Si firma altro di solito e forse questa dura storia di chi scrive e “di chi viene scritto” è altro. Grande sensibilità, grande attenzione, grande rispetto.

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