Racconti nella Rete®

23° Premio letterario Racconti nella Rete 2023/2024

Premio Racconti nella Rete 2015 “Hansel e Gretel” di Celeste Bittoni

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2015

Ho scoperto che mi piace prendermi cura di me. Ti ho vista titubante, come avessi avuto paura di chiedere aiuto, cosa temevi? Sembra sempre tutto così bello, perfetto, poi arriva un giorno in cui tutto crolla per un errore, un bacio negato o uno sminuito, una smorfia, un soffio di vento.
Avevo una casina isolata in campagna, mamma e papà mi avevano sempre tenuta lontana dalla città, diceva che faceva crescere male le belle bambine e a quanto pare loro mi reputavano proprio bellissima. Ho avuto un fratello fino a sei anni, poi lui è sparito. Non mi hanno mai detto dove fosse finito. Io lo adoravo, era il mio unico compagno di giochi ed inoltre aveva una di quelle menti uniche, ingegnose a tal punto da poter progettare e costruire una casina sull’albero per il compleanno della sorellina nell’arco di un solo giorno. Ovviamente la casetta non era per me, era per tutti gli scoiattoli che dal bosco sarebbero venuti a farmi visita e mi avrebbero lasciato il loro regalo di compleanno, ma anche i coniglietti erano i benvenuti, le rondini, i pappagalli azzurri. Mamma diceva che avevo un sacco di amici oltre a lei e papà, ma già Ansel non c’era più. Ho passato quattro mesi e ventidue giorni ad aspettarlo dietro la casetta di legno, ero convinta che sarebbe tornato per il mio compleanno, a volte ho anche immaginato che si fosse nascosto con gli scoiattolini lì dentro e sarebbe sbucato fuori con loro per farmi una sorpresa, infatti per quasi cinque mesi la casetta è rimasta chiusa… fino al tre Maggio. Era vuota. Nessuno si era ricordato del mio compleanno, nessuno si era presentato a casa mia, ed io ero sola. Fu il giorno più triste della mia vita, persi la speranza di rivedere mio fratello e cominciai a dubitare dell’esistenza anche di tutti gli altri amici di cui mamma mi aveva sempre parlato. Improvvisamente cominciai a girare come una trottola… chi cercare? A chi affidare il peso delle mie lacrime? Nessuno. Era una parola che continua ad invadermi la testa, sola, sola con accanto nessuno.
Mi lasciai cadere sul letto presa dalla sconforto e dalla malinconia per un corpo in grado di trasmettermi calore.
Presi un cappello di paglia, una mantella verde e infilai in tasca un panino con la cioccolata. Uscii di casa e non mi voltai indietro. Era impossibile che nessuno sapesse darmi notizie su tutti quegli amici e soprattutto che tutti quanti si fossero dimenticati così, come il nulla, di me: dovevo ritrovarli. Il boschetto di casa non mi era mai sembrato tanto grande invece una volta addentratami in esso, mi sembrò di trovarmi in un altro mondo… ma lo avrei comunque esplorato in ogni angolo, ero determinata a farlo per una giusta causa. Lasciai briciole di pane per segnare il sentiero partendo da un albero enorme da prendere come punto di riferimento, poi iniziai dalla mia sinistra. La terra sotto i miei piedi era umida, nessuno l’aveva calpestata mai probabilmente, poiché era completamente priva di impronte, eppure mi sentivo oppressa da strane ombre, come se qualcuno mi stesse fissando al disopra degli alberi… un laghetto spuntò davanti ai miei occhi, travolto da una fitta nebbia. Possibile abitare tanto vicino a qualcosa di tanto meraviglioso, mistico, inquietante, e non averne mai incontrato l’esistenza? Trovarsi di fronte ogni mattino la stessa finestra accostata, per fare entrare giusto uno spiraglio di luce che basti a svegliarci, la stessa crostata ricoperta da marmellata di ciliegie, le stesse persone e magari non rendersi conto quale sia la sfumatura di colore nei loro occhi. La curiosità, che tutt’ora risveglia i miei sensi da bambina e ne amplifica la potenza, mi spinse a cercare, cercare qualsiasi tipo di cosa riuscisse a cogliere la mia attenzione: dall’acqua spuntavano piante secche, la terra evidentemente impregnata di quell’acqua putrida, non generava alcun tipo di fiore e la poca natura viva presente nel luogo sembrava deprecare contro la propria madre che continuava ad alimentarla; coacervi indefiniti di spine, foglie rotte, rami spezzati, giacevano sulla riva. Eppure io provavo un fascino perverso per tutto quel caos inerte e cupo. Mi tolsi le scarpe e comincia a camminare ai piedi del laghetto, sulla melma che mi ricopriva le dita e appesantiva il mio cammino, ed intanto osservavo ogni minimo dettaglio. Mi abbassai leggermente per districare il vestito acciuffatomi dai rovi, quando sentii
un flebile suono, come un sussurro: mi girai e il mio cappello volò in acqua. Come ogni bambina che si rispetti, che si dispera per aver perso la sua bambola preferita, cominciarono a salirmi le lacrime agli occhi e un urlo muto mi invase la gola… ma nessuno avrebbe potuto sentirmi, nessuno aiutarmi.
Ci sono persone che nella vita non sono abituate a chiedere aiuto, perciò quando hanno un problema semplicemente voltano le spalle a tutto ciò che riguarda il loro presente, il mondo reale e trovano rifugio nel loro interno, ma non è quello un posto sempre sicuro, anzi, spesso è lì il campo di battaglia. Ci sono problemi per cui spogliarsi delle proprie lacrime non ci alleggerisce il peso del dolore. Ci sono giorni in cui il tuo te stesso delira e attacca se stesso, allora devi chinare la testa e appoggiarla su di una spalla di chi ti vuole bene. Invece a volte, non c’è nessuno che possa prenderti per mano e farti sedere a riflettere quindi l’unica cosa che puoi fare è respirare e sollevarti con le tue stesse braccia: piuttosto che cedere alla tentazione di adagiarci su un capriccio, certe situazione ci impongono di riesumare uno scomodo e sconosciuto istinto volto alla sopravvivenza o semplicemente ad un ardito volere.
Io rivolevo quel cappello, mi sfilai la mantella e mi buttai in acqua; non ero sicura di saper nuotare. Il cuore mi batteva a mille, non sapevo come muovere le gambe, se muovermi o meno e non potevo respirare: aprii gli occhi ed una tempesta di colori mi pervase brutalmente la vista. A contrasto con l’esterno, un mondo di luci sotto quell’acqua inquinata dalla nebbia ospitava strani esserini fluttuanti dalle lunghe code e dalle folte chiome azzurre e questi ridevano, cantavano e danzavano nell’acqua. Incantata, posai i piedi per terra e con le braccia mi portai ancora più a fondo: non c’era più fango sotto i miei piedi, era una strana sostanza morbida e bianca, forse nuvole rapite al cielo.
Non avevo paura, tutto ciò che non mi era stato mai concesso di conoscere mi appassionava, il mondo stesso mi appassionava, qualsiasi cosa: chiusa nel buio del nulla e dell’ignoranza, assetata di un qualsiasi tipo di sapere, era come se i miei occhi si fossero preparati per tutto
questo tempo ad assimilare e ad osservare, la mente era un cassetto infinito da riempire; il corpo invece, non percepiva più né caldo né freddo, solo il movimento gli era concesso. Nel giro di pochi istanti, gli abitanti di questa nuova dimensione in cui ero sprofondata, mi attorniarono come a volermi dare il benvenuto e mi posero delicatamente in mano una sottospecie di boccaglio, era una lunga canna aperta alle due estremità… non erano sorpresi della mia presenza, non erano sorpresi dalla presenza di un umano. Intuii il da farsi, me la misi in bocca e finalmente ripresi a respirare, anche se nemmeno mi ero accorta ancora di quanto mi mancasse. Le mie nuove guide mi spulciavano come un gatto e continuavano a volteggiare intorno a me che ero diventata il perno di questo loro moto ascensionale e discensionale, e cantavano, mi sussurravano qualcosa, ed io semplicemente mi trascinavo verso una luce forte tanto quanto quella del sole. Non avevo mai provato così tante emozioni tutte insieme, eppure mi sentivo pietrificata, impotente, non ero in grado di fermarmi a riflettere, non avrei neanche saputo bene su cosa riflettere… tutto quello che vedevo, non sarei neanche mai stata in grado di immaginarlo, tante cose neanche avrei saputo classificarle, come le conchiglie; certo ne avevo viste, ma di quelle forme e grandezze, di quei colori, no; queste avevano la funzione di dimora per quelle dolci creaturine fluttuanti che le avevano abbellite con alghe e coralli. Il loro cielo non rifletteva stelle ma riusciva a piovere sott’acqua: contrariamente al comprensibile, come diamanti gocce ben definite di acqua cadeva giù generate da chissà dove e penetravano in acqua, era una continua tempesta di cristalli che trasportava un vento di mormorii… e il mio corpo in tutto questo sembrava essere attratto solo da quell’intensa luce che rimaneva il centro del mio cammino. Nel momento in cui le mie gambe cedettero e mi concessero una pausa, tutto quanto si fermò e le forme delle cose si fecero nitide e chiare, come le voci dei miei nuovi amici: qualcuno mi urlava di scappare, qualcuno di restare, c’era chi freneticamente mi saltellava sulla spalla, chi si guardava indietro, chi piangeva in silenzio…loro mi conoscevano, percepivano quali impulsi stessero arrivando al mio cervello, il peso delle membra che sfinite
avrebbero voluto accasciarsi a terra e sentivano il mio respiro farsi più affannoso.
Mi accorsi però che non tutti avevano posato la loro attenzione su di me, anzi molti non si erano proprio accorti della mia presenza, come quelli impegnati a correre ansiosamente qua e là, quelli che infuriati battibeccavano tra di loro, quelli che si disperavano platealmente… loro al contrario degli altri non mi capivano, ed io non capivo i loro assurdi comportamenti. In quel caos insostenibile di emozioni contraddittorie, la mente mollò la presa e la luce si fece abisso, un buco nero che mi fece franare sulla terra ferma.
Stesa a terra, non ebbi subito la prontezza di rialzarmi, avevo la sensazione di aver compiuto un viaggio infinitamente lungo… seppur piccola, avevo passato anni in una quiete ed un’inerzia mentale tale da essermi privata un qualsiasi sbalzo di pressione o umore. Ma per quale motivo mamma e papà temevano le passioni? Non avrei potuto resistere alla tentazione di scappare, sapevo benissimo che ci doveva essere qualcosa di più oltre i miei sogni. Io non ero ancora riuscita a perdere quello sproporzionato interesse per le cose in quanto non aveva mai trovato sfogo prima e adesso un eccesso di reale misto al fantastico riempiva la mia testa.
Dopo aver recuperato le forze necessarie, ritrovai il mio punto di partenza, ma non grazie alle briciole, di cui probabilmente qualche uccello si era cibato. Presi la strada opposta a quella precedente e procedendo lungo un sentiero che si addentrava sempre più all’interno del boschetto, mi ritrovai davanti una casetta di marzapane: mi ritornò in mente la storia di Ansel e Gretel che la mamma migliaia di volte mi aveva letto prima di andare a dormire e sulla quale avevo fantasticato altrettante sere prima di addormentarmi.
Mi risvegliai. Il calore che mi stava travolgendo era quello del sole, la casa era ancora vuota, e in tavola c’era ancora la crostata con la marmellata di ciliegie della mattina. Dopo sette lunghi anni, un sogno soltanto era stato
in grado di far parte dei miei ricordi più belli, di suscitare in me tante emozioni e di farmi sentire libera.
Riuscivo a scappare soltanto con l’immaginazione, ora alimentata dalle fiabe, ora sollecitata dalla sensazione di disagio che ogni giorno mi faceva sentire stretta tra un porticato in legno e un giardino in perfetto ordine, da cui proveniva sempre odore d’erba tagliata.
Ero in pace con me stessa, sentivo di non poter più provare nulla di sconvolgente, avevo letteralmente vissuto un sogno e la realtà mi era indifferente.
Scesi le scale, fuori il cielo si era rannuvolato e tirava vento… aprii la porta per dire a mamma di andare a tirare giù le tende che aveva messo ad asciugare; Ansel era davanti a me, mi posò sulle spalle la mia mantella verde e mi prese per mano.

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