Racconti nella Rete®

23° Premio letterario Racconti nella Rete 2023/2024

Premio Racconti nella Rete 2015 “Bepi e la vacca (12/2012)” di Cesare Bassani

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2015

I Maya non sbagliarono poi di molto a predirre la fine del mondo nel 2012.
Solo la mano di un’entità superiore potè disintegrare quell’enorme meteorite appena fuori l’atmosfera, anche se un piccola parte di esso riuscì lo stesso a colpire una minuscola regione sulla nostra superficie terrestre.
E gli effetti furono devastanti per gli indigeni che la abitavano.
Ci volle almeno un lustro di accurati studi scientifici e di una cinquantina di omicidi, per far capire agli abitanti di questa piccola terra, chiamati “padani” , che i neonati nascevano con caratteristiche negroidi non perché fossero stati invasi da squadracce di mandinghi inseminatori, ma per una strana commistione tra l’esplosione, la maggiore inclinazione dovuta al rialzo della crosta padana, l’effetto serra e la susseguente evoluzione darwiniana del Padanus erectus.
Accadde così che nonni sparassero ai nipoti che rincasavano in ritardo, perché presi per ladri; che giovani donne fossero scambiate per prostitute quando in macchina con i fidanzati e portate in questura per accertamenti. A nulla valse per il riconoscimento affermazioni del tipo:”son la nipote di X. Và in mona ti e to màre”.
Vennero bandite per legge espressioni come: “lavoro in nero, inca**ato nero, vedo nero, negriero, mi spacco il cu*o come un negro”, così come tutti gli slogan a sfondo razzista del partito di governo locale…del resto non era plausibile essere razzista con chi riusciva a parlare persino il bergamasco stretto, anche se nero come la pece.
Il paesaggio mutò radicalmente. Dapprima, con lo scioglimento dei ghiacciai tutta la pianura padana divenne un immenso acquitrino, dove stormi di gabbiani arrivarono persino a nidificare su le pendici delle Prealpi e delle Dolomiti. Venezia venne sommersa, così come tutte le città affacciate sul mare, come quelle sul delta del Po.
La regione venne successivamente colpita dall’effetto serra: nell’arco di cinquant’anni il clima divenne desertico.
La sciagura che colpì il popolo padano costrinse a mutare oltre che lo stile di vita anche l’alimentazione, l’agricoltura, l’allevamento del bestiame, la pesca.
Furono piantati fichi d’india, pomodori, aranci, mandarini e limoni. Sostituiti i vitigni con il nero d’avola, il frappato, il catarratto, il corinto nero.
Intanto la rabbia e lo scontento cresceva.
La mano del Signore che aveva provveduto alla loro salvezza pareva quasi sbeffeggiarli: le vette dell’Etna, della Sila, della Maiella erano perennemente innevate e gli italiani cominciarono a fare là le settimane bianche, portando soldi e turismo di massa.
I montanari di veneto, piemonte, trentino e valle d’aosta furono i primi a capire di dover emigrare per tornare al freddo, alla neve. Un ritorno alle loro radici, viaggiando con armi, animali domestici e bagagli circa mille chilometri a ritroso, al sud.
Nacquero così villaggi turistici come Majella Dòpezzi e Silaplatz, Etnayeur e Limone di Bronte, dove vip, letterine, stagisti, calciatori e attricette varie cominciarono a frequentare per ottenere uno scatto fotografico o un articolo sui settimanali di gossip.
Furono realizzati interventi strutturali come le otto corsie della Salerno – Reggio Calabria; il Ponte sullo Stretto e il tunnel ferroviario sottostante; l’aereoporto internazionale Falcone Borsellino a Palermo e piccole piste di atterraggio nei pressi delle stazioni sciistiche principali.
La cura riposta verso le regioni della penisola che producevano la maggior parte del prodotto interno lordo causò dall’altra il degrado del sistema viario nella regione più debole e povera: la Padania, appunto.
L’autostrada Serenissima cadeva a pezzi; quelli dei Laghi era spazzata da bufere di vento e di sabbia; le statali di montagna interrotte da frane, costringendo le piccole comunità a restare isolate dalle valli. Questi fatti causarono il totale abbandono di interi paesi su quelle montagne.
Ci voleva un uomo. Un uomo buono che riconducesse i pochi sopravvissuti della loro gente agli antichi fasti.
Accadde che degli sceicchi fossero in visita nelle terre della Padania: loro intenzione quella di costruire una moderna Las Vegas nelle sabbie desolate del nord-est.
Quel giorno, Carlà sia lodata, conobbero un giovane pastore che viveva in quei luoghi, il cui nome era Mionetto. Bepi Mionetto.
Bepi era solito portare le poche vacche rimaste a pascolare in un luogo che la tradizione degli sciadani (stregoni padani) aveva da sempre ritenuto magico: le sorgenti di un antico fiume. Sorgenti ormai prosciugate, anche se a perenne ricordo venne posta dagli antichi una pietra ovale, grande come una casa, detta “l’Ov” o anche pietra dell’Amore.
Si racconta che gli sciadani riempissero di questa sacra acqua preziosissime ampolle per poi riversarle in mare (ma l’umile narratore preferisce tralasciare questa parte priva di significato per non distogliere l’attenzione del lettore dalla Sacra Storia).
Bepi aveva chiamato la sua vacca più bella “Carlà”, forse per spregio a una donna importante dell’epoca. Carlà era una gran vacca che dava dell’ottimo latte: muscolosa e forte, ma con un carattere tutto particolare. E questa vacca lo mandava proprio in bestia, il Bepi!
Sì perché era costretto giorno e notte a chiamarla, perché Carlà non voleva mai rientrare nella stalla e continuava imperterrita a girare intorno a quella grossa pietra ovale e a brucare e ruminare e a fare tutte le cose che di solito fanno le vacche al pascolo.
“Carlà vien a cà!”
“Carlà vien a cà!”
Bepi aveva persino imparato a modulare la voce per tentare di invogliare la vacca al rientro, così come aveva notato che l’allungare le braccia verso l’alto catturasse facilmente l’attenzione del ruminante.
Narrano le antiche Carte che al tramonto il Bepi chiamò la vacca allungando le possenti braccia: “Carlà, vien a cà!”
Assai stupito, Bepi Mionetto vide tutti quei “foresti” inginocchiarsi a terra e iniziare a pregare.
-La distanza avrà certamente confuso l’udito degli stranieri- pensò.
Bepi notò che anche i padani presenti si erano inginocchiati assieme agli altri.
-Forse sarà stato un gesto di riverenza nei confronti dei foresti- pensò nuovamente.
La notizia si sparse per le terre padane e una moltitudine di gente arrivò alle sacre sorgenti per vedere quanto Carlà fosse grassa e forte e, naturalmente, per assistere allo strano rito del Bepi.
Giorno dopo giorno sempre più numerosa, la folla toccava la vacca per poi seguirla nel percorso intorno a L’Ov.
Bepi era preoccupato. Tutta quella gente gli avrebbe spaventato a morte la vacca e avrebbe sicuramente perso la maggior fonte di sostentamento. Uscì di casa e la chiamò:
“Carlà, vien a cà!”
Immediatamente la moltitudine sollevò le braccia e cominciò a recitare la stessa litania, senza più fermarsi dal farlo.
In quei giorni accadde che un altro giovane pastore, Tono dal Sile, vuoi per la confusione, vuoi per le spinte della folla, perse le lenti a contatto andò a sbattere la fronte contro il lato de l’Ov che guardava la casa del Bepi.
In molti riconobbero in quel gesto una sottomissione e una garbata riverenza verso la pietra e la vacca Carlà: così in molti cominciarono a sbattere anch’essi la testa su L’Ov, seguendo quanto fatto da Tono: questo piccolo gruppo di preghiera prese parte del proprio nome dalla pietra e parte dal fondatore: si chiamarono “I Toni del L’Ov”, poi più semplicemente Ovettoni o “Gli Armonici” per le melodie definite, da tutti, angeliche.
Ma questa è una storia che racconterò più tardi:questo povero vecchio è già stanco e deve riposare.
Che Carlà sia con voi e con voi resti per sempre.

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2 commenti »

  1. Il desiderio di ribaltare le cose, di immaginare come potrebbero essere se si spostano dei punti di equilibrio, di come si potrebbero ristabilire altri punti di forza, la credulità popolare e la forza della semplicità delle cose quando un Bepi qualunque, che qualunque non è proprio per la sua semplicità che evidentemente è da tutti ma non viene usata da tutti, riempie una storia che si fa leggere tutta d’un fiato. Peccato che dentro ci sia anche del giudizio, ma sono consapevole che non giudicare è la cosa più difficile.

  2. Grazie, Barbara!

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