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23° Premio letterario Racconti nella Rete 2023/2024

Premio Racconti nella Rete 2014 “Ho cercato di sopravvivere” di Daniele Manetti

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2014

Ho cercato di sopravvivere

La storia di un lavoratore come tanti, vissuta in prima persona da Daniele Manetti, che dalla dolorosa esperienza della malattia professionale ha tratto la convinzione di non poter delegare le scelte che riguardano la salute sul lavoro.

Ho iniziato a lavorare in una fabbrica di “ TRENI”  nel 1972 come tecnico addetto alla verniciatura dei rotabili e agli impianti di verniciatura. Nel reparto c’erano giovani verniciatori, quasi tutti assunti da poco. Gli ultimi arrivati come me erano destinati ai lavori peggiori e a quei tempi nessuno voleva fare il verniciatore. Così inizialmente mi misero a fare un po’ di praticantato e poi, una volta imparato il mestiere, mi assegnarono alla verniciatura. Lì ci sono stato per 10 anni fino al 1982, quando ormai ero intossicato dai prodotti di verniciatura e coibentazione. In seguito, non potendo rimanere più a lungo nei reparti di verniciatura a causa della mia malattia professionale, sono stato adibito a svolgere varie funzioni come tecnico ambientale. Tra queste la gestione del depuratore delle acque nere, industriali e potabili , il controllo di tutte le tipologie di rifiuto prodotte dallo stabilimento, il controllo delle emissioni in atmosfera e la gestione dei prodotti chimici usati in produzione. Ero un tecnico, non un operaio, ma come gli altri lavoravo esposto agli inquinanti presenti nell’aria dei reparti di produzione. All’epoca nessuno faceva caso alla polvere, al rumore, si stava solo attenti a non farsi male e soltanto poco alla volta tra i lavoratori, con l’azione dei sindacati e delle associazioni, si iniziava a parlare e prendere coscienza del rischio a cui si andava incontro ogni giorno. Nessuno parlava dell’amianto e di quello che avrebbe potuto causare. Così non prendevamo nessuna precauzione fino a che negli anni ’90 scoprimmo che si trattava di una sostanza così pericolosa da doverla vietare. Oltre al danno anche la beffa: la nostra esposizione per tutti quegli anni veniva negata per impedirci di ottenere i vantaggi che la legge riconosceva a chi aveva svolto quei lavori pericolosi. I riconoscimenti dell’esposizione all’amianto arrivarono dopo dure lotte all’interno dello stabilimento e dopo i risultati degli accertamenti effettuati presso la Medicina del Lavoro di Siena su centinaia di lavoratori che confermavano nella maggioranza dei casi la presenza di fibre di amianto nel polmoni. Ricordo che allora la Commissione Amianto dello stabilimento sosteneva senza ombra di dubbio che l’inquinamento ambientale all’interno dell’azienda era diffuso dappertutto e che quindi i benefici pensionistici che derivavano dall’essere stati esposti dovevano essere concessi in via generale a tutti i lavoratori, ma ci sono voluti anni di lotte operaie perché ciò avvenisse.

Intanto gli effetti sulla salute iniziavano a farsi sentire sotto forma di stanchezza, sudore e fiato corto. Quando andavi dai medici nessuno parlava di amianto e non ce ne era uno che attribuisse quei disturbi al lavoro. A dire il vero in molti casi sembrava che proprio non lo conoscessero l’amianto. Di quel prodotto che era stato così apprezzato per i guadagni che consentiva di fare adesso non se ne parlava più, come se il problema fosse stato risolto per sempre. Però si sapeva che tra i compagni più vecchi c’era chi stava male e qualcuno era anche morto.

Nell’estate del 1999, prima solo per passaparola e poi anche attraverso il sindacato, mi arrivò la voce di un centro di Siena che si occupava delle malattie da lavoro. Era diretto da un professore famoso venuto da Milano anni prima e alcuni amici me lo consigliavano. Per loro in quel centro la salute e la prevenzione diventavano qualcosa gestita non solamente dai medici, ma che vedeva il lavoratore come parte attiva nella ricerca, tutela e prevenzione delle malattie professionali. E in diversi casi alla fine erano state riconosciute malattie da asbesto! Facevano anche un esame particolare per vedere quanto amianto era penetrato nei polmoni, che a dire il vero fuori di lì non consigliava nessuno, perché era necessaria la broncoscopia considerata troppo invasiva.

Io però sentivo di dover fare qualcosa per la mia salute, senza aspettare che arrivassero le conseguenze di tutti quegli anni di lavoro come era successo ad altri. Perciò con qualche dubbio chiesi al mio medico di inviarmi a quello che allora era l’Istituto di Medicina del Lavoro di Siena. Devo dire che all’inizio rimasi perplesso perché il reparto si trovava in un vecchio ospedale fuori dalle mura di Siena, quasi in campagna. Era un ex sanatorio costruito negli anni ’30 con l’architettura caratteristica del ventennio e francamente sembrava che dopo di allora non fosse stato fatto più nulla. Poi però mi resi conto che quel posto era effettivamente diverso dalle altre cliniche. In corsia trovavi medici giovani, ma già esperti, insomma non dei “dottorini”. Quello che più conta è che focalizzavano il loro interesse sulle condizioni della fabbrica, i materiali impiegati, i mezzi di protezione, in una parola sul lavoro. Non erano per nulla sfuggenti e sembravano davvero voler comprendere se le esposizioni che avevamo subito avessero causato delle malattie professionali o potessero essere pericolose in futuro. Spiegavano che l’amianto non provoca solo tumori, ma altre malattie dei polmoni meno gravi, ma comunque invalidanti e devastanti. A metà settimana passava in visita il Professore. Metteva soggezione anche ai medici, ma poi era disponibile con tutti. Si soffermava su ogni singolo caso dimostrando sempre grande competenza e infondendo sicurezza a noi lavoratori che per esperienza siamo sempre diffidenti. Con l’esperienza ho poi imparato che tante strutture pubbliche che costituiscono delle eccellenze nel loro campo sono alloggiate in edifici un po’ fatiscenti, mentre non raramente dietro ambienti tutti lusso e specchi si nasconde tanta mediocrità.

Il famoso esame invasivo era il broncolavaggio alveolare da cui si ricava dal polmone il liquido nel quale misurare la concentrazione delle fibre. Serve nei casi, peraltro molto frequenti, in cui mancando le analisi sull’inquinamento all’interno della fabbrica, risulta difficile stabilire il livello di esposizione dei lavoratori. In definitiva non era indispensabile e nessuno ti forzava a farlo, ma permetteva di stabilire se nel singolo caso era necessario continuare gli accertamenti nel tempo e con quale frequenza.

In seguito ho scoperto che a Siena di accertamenti particolari per la diagnosi delle malattie professionali ne impiegano diversi. Ad esempio per i pazienti asmatici, per stabilire se la malattia derivava dal lavoro o meno, viene utilizzata una cabina chiusa nella quale il lavoratore è esposto ai prodotti presenti nel ciclo produttivo: se è allergico a queste sostanze si scatena la crisi asmatica e il test è positivo. Così anche in questo caso c’è chi sconsiglia questa prova perché pericolosa. Insomma a detta loro avere una crisi d’asma in ospedale in presenza dei medici pronti ad intervenire è pericoloso, mentre averle tutti i giorni in fabbrica è normale!

Negli anni mi sono accorto che nel campo della Medicina del Lavoro esiste una certa cultura del “non fare”, naturalmente giustificata dal sommo interesse costituito dalla salute dei lavoratori. Con questo atteggiamento tra esami invasivi, test rischiosi e indagini radiologiche che espongono a radiazioni, per preservare i poveri lavoratori non si dovrebbe mai far niente. Così le malattie professionali scompaiono nel nulla. Quando poi le malattie si presentano in modo acuto allora, magari anche un po’ per medicina difensiva, non si esita a prescrivere TAC ogni tre mesi e ogni altro tipo di accertamento.

Nel corso della mia esperienza di paziente alla Medicina del Lavoro di Siena e di strenuo difensore di quella struttura , dallo scambio di opinioni con i medici e con i lavoratori che venivano lì da tutta Italia, in particolare dal sud, non trovando altrove le risposte di cui avevano bisogno, ho tratto alcuni insegnamenti. Innanzi tutto la tutela della salute non è delegabile e devono essere i lavoratori stessi a prenderne coscienza. Ciò significa anche informare i colleghi sulle vie da seguire e fornire loro i riferimenti necessari con i mezzi di comunicazione di cui oggi disponiamo. In questo senso la realizzazione di banche dati e l’uso dei social network crea possibilità fino a poco tempo fa inimmaginabili.

Nel nostro Paese esistono dei centri dove è possibile rivolgersi in caso di sospetta malattia professionale o anche solo per controlli quando si sia stati esposti a attività pericolose. Anche oggi che gli scambi tra i Sistemi Sanitari delle diverse Regioni per motivi economici appaiono sempre più difficili, l’accesso a questi centri deve essere possibile per tutti i cittadini quale che sia la loro residenza. Spetta ai lavoratori e alle associazioni che li rappresentano  intervenire nel caso in cui, a causa dei continui tagli alla Sanità, venga prospettato un loro drastico ridimensionamento o peggio la loro chiusura. Dal 2001  mi batto, insieme a tanti altri, compagni , per l’implementazione e la valorizzazione della Medicina del Lavoro di Siena, coinvolgendo il Consiglio Regionale e la Giunta Regionale Toscana. Questa battaglia deve continuare ancora oggi in un clima di trasparenza e partecipazione con tutte le forze politiche, non permettendo di smantellare un po’ alla volta una struttura così utile a tutti quei lavoratori che hanno vissuto ogni giorno a contatto con rischi per la salute durante tutta la loro vita professionale.

Mio padre è morto a causa di una malattia polmonare. Era malato di asbestosi, riconosciuta dall’INAIL come malattia professionale. Dice qualcuno che l’asbestosi è una malattia che ti leva la vita un piccolo pezzettino al giorno, facendoti sprofondare piano piano nell’inferno. Prima una lieve mancanza di respiro, poi sempre peggio fino alla bombola di ossigeno e poi fino alla fine…

Mia madre non era fumatrice. E’ morta molto giovane nel 1975 per cancro polmonare. Ai suoi tempi non si sapeva nulla dell’amianto e lei lavava le tute e gli indumenti di mio padre quando tornava dal lavoro.

Adesso che a causa dell’esposizione a prodotti tossici e all’amianto ho una malattia professionale, ogni sei mesi sono obbligato a sottopormi a controlli. E ogni tanto ritorno alla Medicina del Lavoro di Siena: se non ci fossero stati loro….chissà? Ormai da una decina di anni, nella mia associazione , mi occupo di malattie professionali con continui contatti con la Medicina del Lavoro di Siena. All’interno  abbiamo anche costituito un’apposita commissione tecnica per la prevenzione, la salute e la sicurezza dei lavoratori e dei pensionati sia italiani che extracomunitari. Penso che sia questo quello che si deve fare: mettere gli insegnamenti derivati dalla propria esperienza a disposizione di tutti. Solo in questo senso una vicenda sfortunata come la malattia professionale può almeno diventare utile ai compagni di lavoro. Solo in questo modo tutti i professionisti della prevenzione dovranno tener conto dell’esperienza e della volontà delle popolazioni lavorative nel prendere decisioni che invece ancora oggi troppo spesso passano sopra le nostre teste.

 

 

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1 commento »

  1. Daniele, in Italia si è capito tardi che non si può morire per il lavoro. C’è voluto il coraggio di uomini come te che hanno lottato, ricordato e dimostrato nel proprio corpo la presenza delle malattie professionali. Non si può morire per l’esposizione alle sostanze inquinanti né cadendo dalle impalcature edili. L’asbesto è una sostanza dichiarata illegale, ma abbiamo ancora le lastre d’eternit sui tetti. Credo che l’opera, trattando questa problematica, meriti di essere pubblicata sull’Antologia dei racconti premiati.
    Emanuele.

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