Premio Racconti nella Rete 2012 “Papà ha ripreso a viaggiare” di Giovanni Fabbri
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2012Vedi che non ha senso struggersi e dannarsi e sentirsi scoppiare di dolore.
Che non ha senso metterci l’anima, perché l’anima è così evanescente e leggera, così eterea da risultare efficace nell’intensità, quanto decisamente fallimentare nella perseveranza.
E vedi che non ha senso dibattersi in tutto questo fango, che non facciamo altro che sollevare schizzi e dare un pessimo spettacolo di noi. Sarebbe meglio sbarrare gli occhi, serrare i denti e lasciarsi avvolgere dalla melma, lasciare che ci ricoprisse fino ad affondare e rapidamente sparire.
Sparire sì, e subito.
In fretta, senza indugiare.
Solo così si renderebbe merito all’esaltato mito della vita, troncandole subito ogni possibilità di coinvolgerci.
E cosa ne sarebbe poi di tutte le esperienze, di tutti i momenti importanti, di tutte le piccole scoperte, i sentimenti, le immagini, gli odori e i sapori, diresti tu che alla vita ti ci aggrappasti con fermezza e disperazione.
Esperienze?
Scoperte?
Sentimenti?
Stupidaggini! Fumo negli occhi! Gioie transitorie e volatili!
Tutte illusioni che passano in fretta, che ci scivolano sulla pelle, magari suadenti e provocando brividi sicuramente, ma comunque effimere, che non ci restano appiccicate addosso se non un momento.
E cos’è invece alla fine l’unica cosa che ci rimane addosso, che ci accoglie nel suo abbraccio ed è capace di non lasciarci più andare? Cos’è alla fine l’unica cosa durevole? Qual è l’unica promessa di eternità che viene regolarmente mantenuta?
La morte, ovviamente.
E che senso ha, scusa se ti chiedo ancora, darsi così tanto da fare, impegnarsi come matti per dare forma e colore ad un’opera che rimarrà immancabilmente incompiuta?
E perché, mi domando sempre più spesso, la morte ci pare abitualmente così pallida e statica, così poco artistica nella sua magnificente statuarità?
No, non è un elogio della vecchia signora il mio, non è l’apoteosi di quello che ci attende dopo la vita. A me la morte ripugna tanto quanto l’esistere. Solo, cercavo di fare un po’ di chiarezza, di ristabilire un minimo di giustizia, di eguaglianza fra due elementi di cui uno è storicamente sopravvalutato, mentre l’altro esageratamente denigrato.
Io, per fare un esempio, con te parlo più ora che prima
solo che non risponde, solo che è un pugno di cenere, blindata, serrata e imbullettata senza via di scampo. E che senso ha parlare con uno che non può dire niente, che significa dialogare sui ricordi, costruire discorsi mettendo insieme spezzoni di frasi passate, fare domande e ipotizzare risposte sulla base di una memoria che si fa sempre più labile, sempre più lontana
giuro, ci parlo con te.
Ti chiedo consiglio quando prima non accettavo nemmeno che tu me ne elargissi gratuitamente. E poi ti affido sogni, speranze, illusioni e delusioni.
Si potrebbe dire che siamo diventati amici, insomma.
E che ci posso fare io se tutto questo succede ora, se nel frattempo tu te ne sei andata, se sediamo sulle sponde opposte dell’Acheronte e l’unico modo che abbiamo per sfiorarci è quando io infilo il naso nel tuo armadio?
Faccio cose come questa, è vero. Giro la chiave e caccio la testa nel tuo mondo e respiro. Respiro il tuo odore, quello che tenace è rimasto attaccato ai cappotti, al tuo impermeabile giallo, ai tuoi maglioni di lana.
Respiro e per un istante sembra che tu sia presente, lì con me, chiusa in quell’armadio magico come quello che conduce a Narnia.
Poi mi siedo stordito sul letto
il vostro grande letto dove scivolammo furtivi in così tante mattine di festa, un letto che ora è inabitato, che non ha più l’impronta di alcun corpo, dove ti ho vista sudare e spegnerti, quel letto dove provai ad imboccarti come facesti centomila volte tu, ed erano solo fagioli, fagioli buttati in un pentolino e per forza che non avevi appetito, ed io qui ora a chiedermi stupido se solo avessi cucinato dell’altro
e sul letto, stordito, improvvisamente realizzo la portata di questo tragico evento. Di colpo mi rendo conto di quanto sia enorme la distanza che ci separa adesso. Molto più di quando camminavamo sulla stessa faccia della medaglia e tu mi sembravi così grande ed io così piccolo
eri un gigante
tu così forte ed io così debole, tu così decisa, così consapevole ed io tanto smarrito da sembrare ribelle
ero ribelle e ci mordevamo come cani rabbiosi, non accettavo il mondo che tu avevi sognato di cambiare e che ti aveva sconfitta e ne avevi sofferto a tal punto che speravi di evitarmi un simile rischio – Signore, allontana da lui questo calice – e così facendo mi spingevi lontano e lontano e lontano
ed eravamo così vicini invece, così vicini che avrei potuto toccarti, abbracciarti e sentire il tuo cuore battere, il tuo respiro regolare, la tua mano serrarsi intorno alla mia e parlare, con un gesto dire tutto quello che c’era da dire
non muta, affannosa, le labbra inesistenti e prosciugate, il cuore che è solo una traccia luminosa sullo schermo e la tua mano fredda, inerme e gli occhi chiusi e pallidi
e con uno sguardo vedere tutto quello che avevi sognato e immaginato e ardentemente sperato per ognuno di noi
quegli occhi, quegli occhi che apristi come un miracolo, per accoglierci tutti ancora una volta – un’ultima volta – e vederci con quei tuoi occhi che ci vedevano belli come nessuno, occhi che sono come quelli di Dio mentre rimira il Creato
per ognuno di noi che eravamo tutto per te, la tua opera buona, il tuo capolavoro.
E così solo ora vedo chiaramente.
Solo ora capisco quanto ci hai faticato su di noi, quanto ci hai investito.
Solo adesso mi accorgo del bene che ci volevi e del bene che ci hai dato. Me ne rendo conto e voglio dirti che quel bene era così grande che forse perfino ci basterà per arrivare a destinazione.
Ce lo faremo bastare.
E lasciamelo dire, che forse ha un senso struggersi e dannarsi, dibattersi nel fango e metterci l’anima.
Perché io continuo a vivere e piango sempre meno e sorrido sempre più spesso, perché papà ha ripreso a viaggiare e così tutti gli altri, ognuno alla sua maniera.
Però ci manchi.
Ci manchi da morire.